In Francia nel 2013 viene pubblicato un breve saggio molto interessante e dal titolo significativo, soprattutto per l’uomo contemporaneo: L’arte di scomparire. Vivere con discrezione. L’autore è Pierre Zaoui, professore di filosofia all’Università di Parigi. Questo centinaio di pagine riporta un’acuta analisi del rapporto che in generale si è soliti intessere con la tecnologia, intesa nel senso più comune del termine, ovvero come lo strumento che gran parte delle persone possiede per comunicare e dare manifestazione di sé. Le situazioni esaminate vengono presentate da Zaoui come esperienze del tutto ordinarie ma avvolte da una tale aura di misteri e paradossi controintuitivi da lasciarci in un primo tempo senza voce: come negarlo?
Tre sono forse i casi più fecondi per questo tipo di riflessione. Il primo riguarda l’utilizzo di un mezzo che è ormai in mano a quasi tutte le persone più o meno adulte: il cellulare. Osservando la gente seduta sui treni, prestando attenzione alle folli (perché sì, sono folli) chiamate dei call center che quasi quotidianamente si intromettono con forza nella vita privata e notando che il cellulare è fedele compagno anche in bagno, sembra proprio che si sia colpiti da una malata presunzione di onnipotenza: con quell’oggetto sembra infatti di poter raggiungere chiunque in ogni momento, ma il mondo ha sete di discrezione, facendo eco a Zaoui. Un grave problema è che si tende a non stupirsi più del telefono che squilla la domenica pomeriggio o dopo l’ora di cena: è diventato qualcosa di assolutamente normale, quando in realtà è un’eccezionale invadenza; spesso non si avverte l’esigenza di essere lasciati in pace mentre si è sul divano alla sera e, se la si percepisce, comunque si tende a scusare un’insistenza che è semplicemente inscusabile. Parallelamente a questa ricerca di perenne contatto con gli altri, succede spesso di non rispondere quando si riceve un messaggio: certo, non essere contattabili è un diritto di cui avvalersi, ma, dopo una certa soglia, si sfora nella maleducazione. Anche in questo caso si tocca con mano la terribile supposizione di essere onnipotenti, di poter nascondere se stessi e non essere reperibili quando gli altri reclamano aiuto o informazioni.
La seconda occasione di riflessione viene dal continuo immortalare una consistente fetta di quello che si vive: il giuramento nuziale tra due sposi (scena a cui ho assistito e che è decisamente non commentabile), un’immagine inconsueta mentre si passeggia per la città, un paesaggio ripreso da droni che ondeggiano sulle teste dei passanti. Il punto è proprio questo: di tutto ciò si avverte l’esigenza, che però è fasulla, perché trae la propria origine dall’idea che esse est percipi; per dirlo con Pierre Zaoui: come riuscire a farsi discreti in società dove praticamente tutto, dal mondo dell’impresa al mondo dell’arte, passando per la televisione e i social network, è lì a ricordarci che essere è unicamente essere percepito? Forse rifiutando la convinzione che qualcosa è vissuto solo se ritratto e condiviso: infatti vivo ed esisto indipendentemente dagli altri intorno, ho valore anche senza l’approvazione del mondo.
Il terzo aspetto riguarda forse un minor numero di persone, ma si presenta con più enigmi: è quello legato all’utilizzo dei social network – denominazione per altro ingannevole, perché sorge il dubbio se condividere i propri pensieri in un mondo virtuale sia realmente social. La sensazione che mi colpisce ogni volta che apro la pagina di Facebook è identica a quella che si potrebbe provare davanti a un’orda di gente che vomita: spiacevole immagine, ma non esagerata. Si vomita davvero qualsiasi tipo di emozione, senza sconti: dal Ti amo, urlato alla persona in questione e al mondo intero, alle foto scattate ai bambini non ancora usciti dalla sala parto. – Mentre sto ragionando su tutto questo, soffro per questa totale penuria di silenzio, di discrezione, di pudore. È pressoché cancellato il confine tra me e il mondo, tra quello che sento dentro di me e quello che gli altri sono per me, ovvero sconosciuti rispetto al mio io più profondo –. Si vomita ogni genere di cosa, senza che ci si ricordi che ogni lettera scritta, ogni virgola, ogni fotografia resteranno per sempre archiviati in quei luoghi che nessuno sa, compresa l’immagine di mio figlio che ho appena dato alla luce e che crede ancora che il mondo sia il mio odore mentre lo sto allattando.
Le nostre società, che se ne accorgano o meno, hanno urgente bisogno di rispetto, sussurri e delicatezza. Le strade sono sempre più rumorose, la campagna sembra trasformarsi gradualmente in città, le persone sui treni urlano: almeno nel cuore facciamo silenzio una volta per tutte. Accarezziamo con dolcezza le nostre emozioni e i nostri pensieri, e ragioniamo prima di agire, perché il viso di un lattante buttato sulla pagina Facebook è una lesione del suo più profondo diritto umano, un diritto che è di ognuno: il diritto all’invisibilità.