Cari lettori,
immaginate per un secondo di tornare alle elementari, in terza, più o meno. Immaginate quelle noiose lezioni di storia del venerdì pomeriggio, quando il parco di fronte alla scuola era tutto ciò che il cuore e la mente potessero desiderare. Invece no, la maestra vi inchiodava alla sedia, richiamando a sé tutta la vostra attenzione. Oggi, almeno per un po’, ci troviamo proprio lì, su quella sedia. Ricordate anche tutti quei concetti stereotipati nella mentalità comune, quella che anche il più disattento tra i vostri compagni si porterà nella tomba? Ecco, per esempio, che il Medioevo è un secolo buio, o che la società feudale è una piramide? Ognuno di noi è cresciuto con alcuni stereotipi ben chiari, saldi e ancorati nella propria istruzione.
Ora, accettate di fare un salto nel passato, molto più indietro rispetto al vostro piccolo banco della vostra scuola elementare. È necessario scorrere con un balzo molti secoli addietro.
Siamo esattamente nel 1244, in un momento in cui tutto – almeno nel nostro pensiero – è buio, cupo e ovattato. Gerusalemme è caduta nelle mani degli infedeli e la situazione per i cristiani in quei territori era critica. Ci troviamo improvvisamente catapultati sul soglio pontificio, dove nel 1272 salì papa Gregorio X. Immaginiamo le notti insonni di un uomo fortemente preoccupato per i territori della Terra Santa e per i cristiani che lì vivevano. Tra gli incubi e le preoccupazioni di molti uomini per il recupero di quelle terre così cariche di storia e significato emergono le storie di altri uomini. Tra questi c’è un francescano, vicario di Terra Santa dal 1266, il suo nome è Fidenzio da Padova, autore del Liber recuperationis Terrae Sanctae. Certamente l’opera è intrisa dell’ideale di una guerra giusta. Eppure, un dettaglio balza agli occhi, quasi come una svista o un inspiegabile cambiamento di mentalità: l’esercito cristiano è posto inizialmente in una condizione di pace nei confronti degli avversari ed è legittimato a intervenire militarmente solo in caso di legittima difesa. Ecco che nelle nostre certezze incrollabili della scuola elementare appare in tutto il suo spessore la complessità della realtà, sempre pronta a ribellarsi ad ogni semplicistica riduzione.
Un altro uomo poi ci richiede uno spostamento geografico notevole: ci ritroviamo in Spagna, a Palma di Maiorca, nel monastero di Miramar fondato dalle preoccupazioni pedagogiche e missionarie di Raimondo Lullo. Proprio in compagnia del teologo maiorchino andiamo alla scoperta di un balzo storico fondamentale. Nel Liber de passagio la crociata non è finalizzata al recupero di territori, o almeno non solo, ma diventa un’impresa militare a sostegno di qualcosa di più grande: una missione religiosa, attuata secondo precise indicazioni che, attraverso il dialogo con i sapienti islamici, avrebbe potuto portare alla conversione dei seguaci di Maometto. Il ripensamento della crociata parte dalla formazione degli ordini cavallereschi, fino ad arrivare alla creazione di un linguaggio ex novo che permettesse una miglior comunicazione.
Il nostro viaggio è terminato: potete tornare comodamente seduti di fronte al vostro computer.
C’è però qualcosa di importante che l’incontro con quelli che pensavamo essere secoli così cupi ha lasciato. Abbiamo potuto incontrare due uomini che hanno costruito la possibilità di un dialogo, διά – λόγος. διά è quella preposizione greca che indica la medietà, il passaggio attraverso qualcosa. λόγος, il cui significato oscilla tra ragione e discorso. Nella costruzione di questo terreno comune nessuno dei due autori ha dimenticato o rinnegato la propria identità – nel bene o nel male. A partire da quella identità precisa e definita ha potuto iniziare un viaggio di conoscenza alla scoperta degli infedeli, ciò che più diverso e lontano potesse esserci in epoca medievale da un cristiano.
In epoca più recente Baumann ha affermato che la degenerazione dell’appartenenza in un muro è frutto di insicurezza. Se la mia appartenenza è ragionevole e consapevole, allora la mia identità è sufficientemente solida e salda per entrare in relazione – appunto, in dialogo – con un’alterità. «Il dato di partenza è una miscela di culture, lingue e memorie del tutto inedita nella storia. La sfida è capire come si possa vivere in pace non malgrado le differenze, bensì grazie a esse, perché quando lei porta in un incontro la sua tradizione e io la mia, ne usciamo entrambi arricchiti: io ho imparato qualcosa da lei e lei, spero, qualcosa da me. Non ci sono sconfitti, siamo tutti vincitori», così Baumann descriveva la situazione circa un anno fa.
La sfida è proprio una strada di conoscenza che richiede il coraggio di essere intrapresa, nella quotidianità delle giornate, in politica, nel dialogo interreligioso. Baumann dipinge un quadro molto chiaro dei passi necessari da intraprendere: «la condizione umana è globale, i problemi hanno una portata globale, ma gli strumenti di cui disponiamo per gestirli sono locali. La sfida è di alzare il livello delle nostre istituzioni, affinché conquistino una forza e un’efficacia globali. Io sono vecchio, presto morirò, ma i giovani dovranno passare la vita cercando di costruire questa comunità senza confini».
Credo che tutto questo possa essere una piccola sveglia interiore per la responsabilità di ognuno.