Le emozioni non hanno confini

Premessa: l’articolo che segue è stato scritto dopo avere assistito a un “dibattito fotografico” con protagonista NICOLÓ FILIPPO ROSSO, un fotografo documentarista italiano che vive tra Sud, centro e Nord America. Dopo la laurea in Lettere presso l’università degli studi di Torino, si è trasferito in America Latina e ha vissuto principalmente in Colombia negli ultimi dieci anni. Dal 2018 documenta i movimenti migratori attraverso il continente per il suo progetto “EXODUS”. 

Quante sensazioni e quante emozioni possiamo percepire? Paura, rabbia, dolore, gioia, amore, malinconia,… un elenco che sembra essere senza una fine. Ogni volta che facciamo qualcosa, ogni volta che ci relazioniamo con una persona, ogni volta che siamo, in qualche modo, in uno stato di movimento, proviamo una sensazione che si traduce in un’emozione, la quale, a sua volta, ci fa venire i brividi o ci fa sorridere, ci stringe un nodo in gola o ci costringe a scioglierlo. Quante volte abbiamo pensato che tutto ciò, che tutto questo bagaglio emozionale appartenesse solo a noi, che fosse quel qualcosa caratterizzante la nostra unicità? Da una parte forse è vero: non c’è nessun altro che abbia vissuto le stesse nostre emozioni, nello stesso identico momento e allo stesso modo, ma il punto è un altro: quelle emozioni, quelle sensazioni sono le stesse che provano, non solo tutti coloro che si trovano nella nostra stessa situazione, ma sono le medesime che provano tutti gli esseri umani. Ed è proprio questo il punto di partenza cognitivo, dal quale è necessario passare per poter apprezzare e interiorizzare le fotografie di Nicolò Filippo Rosso, perché osservando la smorfia di una donna riusciamo a coglierne il dolore, ma non un dolore qualsiasi, ma un dolore che conosciamo, in quanto quella smorfia assomiglia a quella che è apparsa sul nostro volto quando abbiamo saputo della morte di un nostro caro.

Ecco che, allora, proprio in quel momento, la fotografia ha centrato l’obiettivo, ha mosso quel qualcosa dentro di noi che ha fatto sì che ci ricordassimo di quel dolore, trapelato attraverso una “semplice” ombra su uno sfondo. 

La domanda adesso è un’altra: come facciamo ad ignorare quel dolore? Come è possibile oltrepassarlo, camminarci sopra, pestarlo, dal momento che sappiamo per esperienza cosa si prova in quel momento? La risposta è scontata in realtà: semplicemente ci copriamo gli occhi con un mantello di individualismo e ci tappiamo le orecchie ascoltando le stronzate sulla diversità e sul razzismo e sul perché non sia “conveniente” cercare una soluzione al dolore di altri esseri umani. 

Se ci fermiamo per un secondo, facciamo due passi indietro e ci osserviamo, noteremo che siamo tutti quanti parte di un gigantesco girotondo, che ruota attorno al dio del “proprio interesse”; ognuno lo venera come meglio crede: fingendo di non vedere il marcio del mondo, reprimendo dentro di sé il sentimento, tutto umano, di empatia verso i propri simili o, ancora, convincendo sé stesso di essere troppo piccolo per un problema così grande. Tutto questo perché? Perché “ci conviene”: ci conviene autoconvincerci di non poter fare nulla e quindi, in qualche modo, ci sentiamo autorizzati a “lavarcene le mani”. 

Se per una volta riuscissimo a lasciare andare le mani di questo girotondo, forse, allora, avremmo le mani libere per afferrare quelle di chi non vive con i nostri stessi privilegi, saremmo capaci di strappare il mantello dell’individualismo che ci copre gli occhi, per spalancarli sulla vera realtà.





Una bellezza necessaria

Vedere Vera Lytovchenko suonare il suo violino nello scantinato di casa sua a Kharkov, sotto le bombe, mi ha fatto capire quanto l’arte, la musica in questo caso, non sia un lusso inutile ma una compagna indispensabile per continuare a sopravvivere. Vedere Elena Osipova scendere in piazza, a quasi ottant’anni, con due suoi disegni che richiamavano l’Urlo di Munch e la scritta: “Soldato, lascia cadere la tua arma e sarai un vero eroe” mi ha fatto capire quanto l’arte possa essere uno strumento potente di ribellione, in modo quasi silenzioso, contro ciò in cui non si crede. 

Picasso diceva che l’arte spazza la nostra anima dalla polvere della quotidianità. L’arte ci aiuta a prendere posizione, a trasmettere dei messaggi, a imprimere nella nostra memoria la storia. L’arte è fondamentale. Come faremmo a vivere in un mondo senza musica, senza film, senza libri, senza danza, senza quadri? Sarebbe impensabile.

L’arte ha il potere invisibile di rimanerci in testa in ogni situazione. Non c’è un momento della nostra vita che non sia associato ad una canzone che stavamo ascoltando in quel periodo o ad un film che abbiamo visto. L’arte ha il potere di farci aprire gli occhi di fronte agli orrori del mondo. Perché quando vediamo certe atrocità poi non possiamo più far finta di niente.

Arte significa libertà di pensiero e di espressione. Ecco perché ai regimi dittatoriali fa paura l’arte. Durante il regime nazista tutte le forme d’arte che non riflettevano i valori nazisti erano chiamate Arte Degenerata (entartete Kunst). Oggi l’artista cinese Badiucao attraverso la sua arte di protesta denuncia il controllo ideologico e morale esercitato dal potere politico. Prima dell’arrivo dei talebani l’artista afghana Fatimah Hossaini fotografava le donne della sua terra. Oggi in Corea del Nord gli unici film messi in circolazione sono a scopo propagandistico.

Gli artisti ci regalano una bellezza necessaria. Le farfalle di Terezin disegnate dai bambini per sfuggire dalla loro triste realtà e sperare nella libertà mi ricordano quanto io sia fortunata in questo momento a potermi esprimere liberamente. Ogni giorno tutti noi in fondo creiamo arte in un modo o nell’altro. L’arte è preziosa, ci fa sentire vivi. La pittura, la scultura, la fotografia, la scrittura, l’architettura, la musica, il design, il teatro, il cinema, i fumetti, la danza sono una bellezza necessaria. 

DUE PROGETTI FOTOGRAFICI RICORDANO IL TERRIBILE INCIDENTE DELLA COSTA CONCORDIA

La sera del 13 gennaio 2012 la nave da crociera Costa Concordia naufragò nei pressi dell’isola del Giglio a seguito di una serie di errori di varia natura mentre eseguiva “l’inchino”, manovra compiuta nelle vicinanze di insediamenti costieri per salutare la terra ferma. Sulla nave c’erano 3.208 passeggeri e 1.023 membri dell’equipaggio, 32 persone morirono e molte altre furono ferite. Negli scorsi giorni l’Italia intera ha celebrato il decimo anniversario dalla tragedia e per l’occasione in questo articolo riproporremo due interessanti progetti fotografici che hanno restituito nuove immagini sulla vicenda.

Il fotografo italiano Alessandro Gandolfi ha raccontato attraverso una serie di scatti in still-life la storia di alcuni oggetti, da lui trovati nel corso degli anni, collegati all’incidente. Si tratta di una ricerca che ha prodotto il lavoro fotografico “The Concordia Project ad oggi visibile sul sito della sua agenzia Parallelozero.  Il claim dell’iniziativa è “A dieci anni dal naufragio la Costa Concordia non esiste più. Ma di quella tragedia rimangono oggetti sparsi per l’Italia: reliquie che raccontano una storia”. Si parla quindi di reliquie conservate dagli abitanti del Giglio, dai soccorritori e da alcuni passeggeri della nave in ricordo di quella terribile notte.  Ogni oggetto fotografato è accompagnato da una breve storia. Uno dei più interessanti è sicuramente l’orologio indossato quella notte dal capitano Francesco Schettino con il quale si apre l’intera narrazione. Quest’ultimo ancora ad oggi segna la mezzanotte e 14 minuti del 13 gennaio, pochi istanti prima che la Costa si inabissasse sull’intero lato di dritta. A fermare il contatore dell’orologio sarebbe stato, secondo il racconto di alcuni testimoni, la caduta di Schettino che tentando di raggiungere il ponte oramai divenuto come una parete verticale urtò violentemente con il polso un corrimano. Tra gli altri oggetti che costituiscono il reportage troviamo programmi della crociera, scialuppe di salvataggio, oggetti personali dei passeggeri come scarpe, vestiti, telefoni e molto altro.

Un secondo lavoro è quello del fotografo Jonathan Danko Kielkowski, il quale decise di voler vedere con i propri occhi ciò che restava della nave salendo clandestinamente a bordo mentre quest’ultima si trovava nel porto di Genova, dove centinaia di operai lavorarono per smantellarla e alleggerirne lo scheletro. Una domenica mattina all’alba ha quindi raggiunto la nave a nuoto e salendo a bordo ha realizzato nel corso di mezza giornata una serie di interessanti scatti degli ambienti della nave confluiti poi nel lavoro “CONCORDIA” pubblicato da White Press. In un’intervista a Vice Italia Kielkowski ha rivelato il motivo di questa sua operazione clandestina, poiché non gli fu mai concessa l’autorizzazione di scattare queste fotografie, ovvero l’estrema importanza di documentare le tracce del disastro mentre esse erano ancora visibili. Una delle immagini più inquietanti di questo progetto è sicuramente quella che ritrae i corridoi della nave occupati da molti oggetti personali dei passeggeri abbandonati durante la fuga e il grande teatro e ristorante in cui tutto il mobilio giace riversato sul pavimento e incrostato dal residuo dell’acqua marina.

Quelli di Kielkowski e Gandolfi sono quindi due lavori molto significativi che hanno portato alla luce in modo diverso la storia di questa terribile tragedia affinché ne esistano ancora tracce visibili. 

L’arte della fotografia

Nella società odierna fare le foto è diventato alla portata di tutti. Che sia col cellulare o con una macchina fotografica professionale a molti piace catturare dei momenti di vita. Spesso scattiamo delle foto a quello che mangiamo o ai posti che visitiamo. Ma in questa marea di gente che fa foto per immortalare un ricordo, c’è anche chi della fotografia fa la propria professione.

Come fa Platon, fotografo nato in Grecia da una famiglia di artisti: la madre è infatti una storica dell’arte, mentre il padre è un architetto. Platon considera la macchina fotografica uno strumento di comunicazione attraverso il quale può raccontare delle storie. Ed è proprio quello che fa: tramite le foto comunica dei messaggi potentissimi. Per Platon infatti la cosa più importante è il sentimento, il messaggio che vuole fare arrivare alle persone. Attraverso le sue fotografie, anche mediante i ritratti, riesce a trasmettere l’anima dell’oggetto immortalato.
Platon ha iniziato la sua carriera fotografando non miti e celebrità, ma scattando in strada, fotografando la gente povera. Ma grazie alla sua maestria e alla sua capacità di arrivare al cuore dell’osservatore, Platon è diventato un fotografo di fama mondiale: così ha fotografato le persone più importanti e potenti degli ultimi vent’anni, da Bill Clinton a Gheddafi. Mantenendo sempre una grande semplicità, si caratterizza per uno stile audace che arriva dritto alle persone. Nella fotografia cerca risposte, analizza la condizione umana e costruisce un legame tra il soggetto della foto e l’osservatore. La dignità dei soggetti si evince dal loro sguardo, forte e provocatorio.

Platon può essere definito un provocatore culturale perché attraverso l’arte porta alla luce le situazioni difficili dell’umanità, come la violenza e la guerra; riesce a inserire nei suoi scatti una magia e un’intimità che creano un opera d’arte.
Nel proprio lavoro Platon cerca non il bello, ma il vero: coglie i dettagli più nascosti dell’uomo e li rende accessibili a tutti. Avverte una grande responsabilità nel raccontare le storie nel modo più adeguato per far arrivare il messaggio giusto. Lo fa con delicatezza e determinazione.
Per vedere con i vostri occhi l’arte di Platon potete visitare la sua pagina: http://www.platonphoto.com/

Alice Taricco

Ricordi di un’estate in montagna

5. La strada fa una curva a destra, una di quelle che sparisce e non si vede dove va, una di quelle che se il mondo fosse piatto si volerebbe giù chissà dove, chissà per quanto.

 

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