25 Aprile 2017 | Potevo farlo anch'io
In breve la storia del primo libro d’artista.
Golden Age, nell’ambito del fumetto, è un termnie che indica il periodo d’oro dei comics statunitensi che va, grosso modo, dalla fine dagli anni Trenta ai primi anni Cinquanta.
In questo ventennio, in cui i fumetti godettero di un incremento smisurato di popolarità, venne creato e definito l’archetipo del supereroe e alcuni dei personaggi tutt’ora famosi fecero la loro comparsa.
Non solo, in quegli anni si definì il vocabolario artistico di questo medium e le sue convenzioni creative grazie all’ingegno e all’impegno della prima generazione di autori, disegnatori ed editori.
La storia del fumetto moderno inizia con la comparsa di Superman – creato da Jerry Siegel e Joe Shuster – su “Action Comics” n.1 nel 1938, pubblicato dalla casa editrice americana DC Comics. La storia del libro d’artista contemporaneo comincia, secondo la quasi totalità della critica, con la pubblicazione nel 1963 di Twentysix Gasoline Stations di Edward Ruscha. Tale opera è ormai riconosciuta come il capostipite di questa espressione artistica perché, oltre ad essere il libro che ha creato la necessità di riconfigurare i termini di definizione delle pubblicazioni di stampo artistico (da non confondere con i cataloghi d’arte), ne costituisce sostanzialmente l’archetipo.
Questo volume di quarantotto pagine contiene ventisei riproduzioni fotografiche in bianco e nero di stazioni di servizio situate sulla Route 66 tra Los Angeles, città in cui l’artista risiede e lavora, e Oklahoma city, città dove invece è cresciuto. L’impaginazione grafica scelta da Ruscha sarà per lui il modello a cui farà riferimento per buona parte dei lavori successivi (tanto da dare l’impressione che fin da subito nella sua mente si stessero costruendo le linee guida di un progetto editoriale più grande), è semplice ma curata: l’immagine fotografica posta in alto lascia un ampio margine per la didascalia, posta sotto lo scatto, che identifica la stazione di servizio indicando il nome della compagnia, la località e lo stato in cui si trova. La stessa austerità nell’impaginazione la si ritrova anche nella composizione grafica della copertina, occupata unicamente dal titolo stampato in rosso.
Ruscha segue per intero le operazioni di realizzazione del libro occupandosi di sviluppare le pellicole e di stamparne i negativi nonché della disposizione delle immagini all’interno del volume, che tuttavia non segue un andamento temporale ma è dettato dal senso estetico del pittore californiano.
Twentysix Gasoline Station non è difatti, non avendone l’intenzione, una semplice operazione di documentazione o reportage del viaggio compiuto.
Il mezzo fotografico non è per Ruscha la testimonianza di un’esperienza come neanche un mezzo di espressione artistica ma piuttosto un veicolo per le idee; ne più ne meno dell’auto che da Los Angeles lo ha portato a Oklahoma city.
É comunque riconoscibile in questi scatti, un certo debito con la tradizione fotografica americana e in particolare con autori come Walker Evans e Edward Weston. Fuori da ogni dubbio è la vicinanza della ricerca di Ruscha alla Pop Art, nella scelta del soggetto come nell’impostazione, uniforme e quasi seriale delle fotografie, e alle ricerche minimaliste.
La freddezza “industriale” che denota la scelta di servirsi di tecniche industriali come la stampa offset, le alte tirature – 400 copie per la prima edizione nel 1963, 500 la seconda nel 1967 e 3000 nel 1969 – la mancanza di numerazione e autografo, il costo assai ridotto (3.00$) allontanano di parecchie lunghezze il libro di Ruscha dalla tradizione dei libri illustrati ottocenteschi realizzati per un mercato di nicchia e per pochi intenditori.
Il fine di Ruscha è quello di creare un prodotto artistico accessibile al grande pubblico e contemporaneamente sganciato dalle leggi di un mercato dell’arte proibitivo come quello “ufficiale”. La riproducibilità a costi assai contenuti e l’adattabilità a canali di distribuzione alternativi rendono il libro il mezzo ideale per la concretizzazione dell’obbiettivo posto da Ruscha: la democratizzazione dell’arte.
Nel 1967 Ruscha pubblicherà Royal Road test e poi Crackers nel 1969 basato su un racconto scritto da Mason Williams, amico di Ruscha, e incentrato sul primo appuntamento di una coppia che viene narrato, nel libro, dalla sequenza di un centinaio di fotografie in bianco e nero stampate a piena pagina. Le azioni fotografate sono talmente ravvicinate nel tempo da far pensare che alla base della realizzazione di questo volume ci fosse l’intenzione di creare un flip book ossia un volume che sfogliato velocemente dia l’impressione che le immagini al suo interno si animino.
Twentysix Gasoline Stations però rimane la più importante tra le creazioni a libro di Ruscha, esso è indiscutibilmente l’archetipo del libro d’arte contemporaneo come Superman è l’archetipo del supereroe.
23 Dicembre 2016 | Potevo farlo anch'io
Foto: La Costituzione cancellata di Emilio Isgrò in “Una indivisibile minorata”, 2010, Tecnica mista su libro
Nel secondo articolo ho parlato della fotografia e del ruolo che questa ebbe nel modificare la pratica artistica. Ho terminato poi affermando quanto sia ormai facile raccontarsi per immagini piuttosto che verbalmente: se devo raccontarvi le vacanze che ho appena trascorso vi mostrerò le fotografie che ho realizzato piuttosto che limitarmi a descriverne a parole gli eventi, i luoghi, i colori, le particolarità che l’hanno caratterizzata.
Si dice “un’immagine vale più di mille parole” ma che cos’è effettivamente?
Un’immagine è una rappresentazione in forma visiva della figura e dell’aspetto suscettibile di riproduzione e confronto e percepibile unicamente attraverso il senso visivo; e la cui potenza espressiva, con tutto il suo bagaglio di citazioni richiamate, somiglianze, assonanze e possibili collegamenti, è ormai ben chiara, in particolare agli artisti, a chiunque abbia come proprio obiettivo la veicolazione di un messaggio. L’arte d’altronde è una forma di comunicazione: essa è la concretizzazione fisica di un’idea che sceglie la via, a parere di chi la genera, più funzionale e migliore. L’uomo ha iniziato a raccontarsi attraverso immagini fin da quando trovava riparo nelle caverne, così come ha continuato sulle mura degli edifici a lui più cari, dalle piramidi alle chiese, fino alle città intere.
Ma cosa comporta l’uso iperattivo dell’immagine? Proviamo a masticare qualche numero, assolutamente non reale, ma quanto meno plausibile: mettiamo a confronto un uomo vissuto durante il medioevo e uno qualsiasi di noi.
Nel caso dell’uomo medievale, e solamente nel caso questo appartenesse a determinate classi sociali quali nobili ma sopratutto ecclesiastici, si può dire che questo ipotetico uomo X si potesse ritenere assai fortunato se nell’arco della sua intera vita, a cui diamo una durata ipotetica di quarant’anni, avesse visto cento immagini…
Paragonate alle 216.000 immagini di cui è composto un qualsiasi film di centocinquanta minuti (ventiquattro frame al secondo per i sessanta secondi di cui è composto ognuno dei centocinquanta minuti) quelle cento immagini sono un’inezia. Ora già mettere a confronto il numero delle immagini nei due casi ci da una vaga idea della differenza: cento nel primo caso, 216.000 nel secondo. Ma quello che è davvero sconvolgente, a mio avviso, è mettere a paragone i due dati temporali: quarant’anni contro le due ore e mezza del film.
Se dico che siamo bombardati da immagini non affermo nulla di nuovo, quello che ho scritto finora serviva più che altro per introdurre alcuni artisti che della “ipersaturazione” di significato hanno fatto un elemento centrale del proprio lavoro, interpretandola in maniera anche opposta in taluni casi.
Cancellare o non occupare uno spazio per lasciarlo nella sua dimensione di potenzialità o restituirgli questa dimensione, non dire nulla o cancellare il superfluo per far si che la propria opera non si perda nel marasma e nel rumore dei nostri tempi.
Emilio Isgrò, artista concettuale e cancellatore per antonomasia, in questi mesi in mostra al Palazzo Reale di Milano che sulla genesi della propria opera dice: “Germinò davanti a un foglio pieno di cancellature. Era un articolo tormentato di Giovanni Comisso per il Gazzettino. Pensai che le nostre vite sono piene di ripensamenti, di rimozioni, di ricordi e di gesti cancellati. E vidi in quella traccia come la testimonianza più profonda dell’essenza umana”[1].
Una delle sue opere più celebri, Il Cristo Cancellatore del 1968, un’opera d’arte in forma di libro, già con il titolo ci da un assaggio della portata eversiva del lavoro dell’artista siciliano che si figura come: “Un Cristo per niente povero che invece di assumersi i peccati del mondo, li cancellava. Pierre Restany commentò con arguzia che avevo assunto l’identità di Gesù, come un pazzo che si crede Napoleone. Avevo già lavorato sulle cancellature: su libri e giornali. C’era il manifesto della Wolkswagen del 1964. E subito dopo il Cristo; nel 1970 realizzai la cancellatura della Treccani”[2]. Infatti dal 1970 Isgrò cominciò a cancellare le voci dell’enciclopedia Treccani ovvero cancellava delle convenzioni ormai date per assodate a tal punto da diventare definizioni uguali per tutti; si tratta di un mettere in discussione ciò che ormai è dato per scontato fino alla banalità del quotidiano. I giochi sono riaperti sembra dirci Isgrò con la sua arte.
Robert Ryman, all’opposto, non necessità di cancellare alcunchè dalle sue tele in quanto su di esse non c’è che il nulla, il vuoto.
Ryman, infatti, dipinge le sue tele solo ed unicamente di bianco ripetendo continuamente quel rito dell’artista, che come un dio creatore, si confronta con il vuoto della tela da riempire.
Esporre una tela bianca conferisce il titolo di artista a chiunque che davanti ad essa sia in grado di immaginare una qualsiasi cosa, di creare dal nulla e lo nega a chi, a priori, nega il valore del dono di Ryman. In un contesto come quello descritto prima l’opera di Ryman rimane un salvagente nel mare nero del superfluo, dei milioni di immagini pubblicitarie e non, con cui dobbiamo forzatamente relazionarci ovunque e ogni giorno. Sono una boccata d’aria pulita in una città invasa di smog.
Io sinceramente credo che ,dopo la sensazione di stasi di Edward Hopper nelle sue tele, la rappresentazione del vuoto, in tutte le sue accezioni, non potesse che passare attraverso l’uso del bianco totale. Il colore dell’inizio.
L’uso ipertrofico dell’immagine come veicolo di un messaggio, la facilità e la velocità con cui ora si producono immagini è uno dei fattori per cui il valore della qualità tecnica e andata via via scemando in favore di un maggiore interesse verso l’originalità dell’idea ed il valore assoluto ed unico che essa ha: Ryman da forma all’idea di vuoto in relazione al processo creativo; Isgrò all’opposto fa della saturazione la base, il supporto per la sua opera che nella base è già contenuta ma va fatta riemergere eliminando il superfluo.
Due idee simili che si concretizzano in modi tra loro opposti ma che si configurano come una panacea per il gran mal di testa che la complessità dei giorni nostri spesso ci crea.
[1] Emilio Isgrò “Ho cancellato tutto, anche me stesso, per togliere il superfluo dall’anima” di Antonio Gnoli, su La Repubblica del 26 Giugno 2016.
[2] Ibidem
Link immagine: http://vivimilano.corriere.it/wp-content/uploads/2016/06/emilio-isgro.jpg
20 Ottobre 2016 | Potevo farlo anch'io
Nella foto: Maman, dalla serie Spiders di Louise Bourgeois.
Vedete, più di una volta mi è capitato di sentire, appena sussurrata, quella fatidica frase che è anche il titolo di questa rubrica: “lo potevo fare anche io”.
Ma è davvero così? Davvero lo potevo fare anche io? In azioni come il capovolgere un orinatoio, firmarlo e piazzarlo in un museo non c’è davvero nulla di più di quel che abbiamo davanti a noi? O si tratta di una banale, limitata e quantomai sbagliata semplificazione?
Tentare di spiegarvi che nell’arte contemporanea c’è molto più di quanto sta davanti ai vostri occhi è l’obbiettivo di questa rubrica, dedicata, principalmente, a tutti quelli che dicono: “io non me ne intendo”; a coloro che dell’arte non sanno propriamente cosa farsene, come gustarla; a chi, senza malignità, considera l’arte contemporanea e gli artisti alla stregua di alieni venuti da una galassia lontanissima e pertanto incomprensibili o spaventevoli ragni giganti da cui è meglio stare alla larga.
Ora, se veramente con l’arte, contemporanea e non, non avete nulla da spartire, non potrà di certo essere la mia rubrica a spalancarvi le porte di questo magnifico mondo ma se, invece, il vostro è solamente il timore di passar per ignoranti…beh questi articoli, allora, potrebbero essere un buon inizio per coltivare una nuova passione.
Vorrei tranquillizzarvi fin da subito dicendovi che non è necessario interdersi d’arte, per godersela. “Ma come?!” – starete pensando – “come faccio a capire se non me ne intendo?” – semplice: fate un respiro bello profondo, e ripetevi questo mantra, quasi socratico: “Anche chi se ne intende ha iniziato non sapendo nulla” e proseguite pensando a cose come: il cibo, la musica, lo sport per fare degli esempi.
“E queste cose che c’entrano?” – di per sé nulla ma mi sono utili per farvi capire quale dovrebbe essere il vostro approccio all’arte, non impaurito ma godereccio e gioviale.
Il calcio? Non ne so praticamente nulla, tanto che ho impiegato anni per capire le dinamiche del fuorigioco, eppure qualche partita, assieme agli amici di sempre, una birra e una pizza, l’ho guardata, per divertimento; la pizza? A chi non piace? E tutti sappiamo riconoscere quella buona pur non essendo dei pizzaioli; la musica? Io non ho mai sentito nessuno dire: “Io non ascolto musica perché non me ne intendo”!
Altro punto su cui riflettere: pensate forse che l’arte di Van Gogh sia stata apprezzata fin da subito, celebrata con mostre e riconoscimenti come invece accade ora? Tutt’altro, solo pochi seppero “prestare orecchio” a quella nuova maniera di guardare al mondo, così contorta, tormentata e affascinante da sembrare che vivesse per conto suo. Ad oggi è altissimo il numero di mostre a lui dedicate e c’è quindi da chiedersi cosa sia cambiato da allora: ci siamo abituati a quelle pennellate pesantemente materiche, che da rivoluzionarie sono diventate la quotidianità ma il cui valore non viene di certo messo in discussione. Di questo si tratta in fin dei conti, anche per l’arte contemporanea, un abituarsi a vedere, senza rifiutare a priori, ciò che è espressione del mondo che viviamo, senza ovviamente, cadere nell’errore opposto, cioè accettare tutto senza metterne in discussione il valore, compito di quelli “che se ne intendono”. A voi però, rimane l’assoluta e indiscutibile libertà di esprimere un opinione e prima ancora, se vorrete, godervi l’arte in tutte le sue caleidoscopiche sfaccettature. Cosa per cui, mi auguro, questi articoli possano esservi d’aiuto.
Nell’articolo del mese prossimo cercherò di illustrarvi come la fotografia sia stata uno, non l’unico, dei fattori che hanno determinato la morte della “vecchia arte” e contemporaneamente la nascita della “nuova arte”, apparentemente incomprensibile e così “facile” da realizzare.
20 Febbraio 2016 | Vorrei, quindi scrivo
«Uccidete gli uomini, ma rispettate le opere d’arte. È il patrimonio del genere umano».
È il 1914, e lo scrittore Romain Rollan si rivolge così al drammaturgo Gerhart Hauptmann, proprio nel momento in cui la Germania aveva appena bombardato il Belgio e incendiato Leuven. Ma chi è Romain Rolland? Sicuramente non un mostro come potrebbe apparire agli occhi di qualcuno, ma un riconosciuto umanista ed un fervente pacifista. I Rubens di Malines e i tesori di Leuven, storica cittadina universitaria delle Fiandre, simbolo del genio di una nazione, dovrebbe dunque valere più delle vite umane? Se volgiamo il nostro sguardo ad Est, verso i tesori di Palmira, sotto i bombardamenti dei territori siriani, ci viene mai da chiederci se debbano essere oggetto di un’attenzione superiore a quella che riserbiamo agli abitanti di quei luoghi, anche loro minacciati dai colpi di mortaio? La risposta risplende nel cielo della nostra coscienza, ma non senza qualche nuvola.
« Bisogna salvare gli uomini perché solo loro possono ricostruire. Ma allo stesso tempo sono le opere che fanno gli uomini. Evolvendo attraverso le opere, l’uomo si sviluppa e cresce. Un’opera non muore per nulla, il suo ricordo può essere all’origine della creazione di un altro capolavoro », sostiene la storica Véronique Grandpierre. D’altronde, quali sono i ricordi più tangibili di tutte le civiltà passate? Non bastano libri su libri di scuola come attestato di tutte le testimonianze che l’essere umano ha voluto lasciare nel tempo. Già nei miti dell’epica classica emerge costantemente un elemento che differenzia gli umani dagli irraggiungibili Dei: l’eternità. La vita eterna è una delle massime aspirazioni di ogni essere umano con un briciolo di egocentrismo. Eppure, una volta che ci arrendiamo all’innegabile destino della vita, o per meglio dire della morte, affiora un’unica possibilità che possa sopperire ai nostri desideri: lasciare il segno. Il sogno di molti, l’obiettivo di una vita.
“In futuro ognuno sarà famoso per 15 minuti”, affermava Andy Warhol nel lontano 1968. Ma sicuramente non avrebbe pensato lo stesso John Keats, poeta romantico inglese, morto prematuramente a 25 anni, avvolto dalla disperazione per non aver raggiunto il successo personale a cui aveva sempre puntato ( “If I should die I have left no immortal work behind me, nothing to make my friends proud of my memory” ). Affetto da tubercolosi, Keats scelse nel 1921, per sua precisa volontà, di trascorrere gli ultimi mesi della sua geniale vita nella capitale dell’antico Impero Romano, di cui aveva saputo apprezzare tutti i grandi capolavori che l’avevano resa centro indiscusso di cultura. Roma rappresentava per lui quasi una sorta di bower (pergolato), riprendendo il celebre inizio del poema “Endymion” del 1818, in cui la bellezza, sentimentale e delicata, partorisce l’attività poetica ed eroica. Una via di fuga dalla realtà umana nella culla dell’arte, soavemente accudita dalla poesia che emerge come la primavera dal profondo della verità. Avrebbe quindi la risposta a portata di mano, John Keats, se potesse osservare adesso la distruzione di sei siti patrimonio dell’umanità in Siria? Probabilmente, nel mio immaginario di liceale affascinato dalla poesia inglese, per riflettere a fondo sul valore delle vite umane rispetto a quello delle opere d’arte, Keats si sdraierebbe su un morbido prato per scrutare il cielo, consigliere di mille sognatori. Un cielo in cui la risposta appare chiara, come per tutti noi, ma in cui lo sguardo del poeta viene attratto dalla magia della nuvole. Nonostante provino per un attimo ad oscurare il cielo della propria coscienza, nel suo cuore simboleggiano l’eternità che si nasconde solo nella bellezza più pura. « Beauty is Truth, Truth beauty-that is all you know on earth and all you need to know ». La stessa beauty racchiusa dalle opere d’arte che ci hanno permesso di lasciare il segno attraverso il tempo, che ci fanno sognare e che ci permettono per un istante di dimenticare le tragedie in corso nel mondo…per farci cullare dai soffici contorni di una nuvola. Dopotutto, c’è un Magritte in tutti noi.
29 Luglio 2015 | Vorrei, quindi scrivo
Scienza delle soluzioni immaginarie.
SCIENZA, eppure non si parla di nessun scienziato o ricercatore, ma di puri e semplici volontari provenienti da diverse realtà dell’associazionismo giovanile cuneese.
SOLUZIONI, perchè quando vengono a mancare i principali fondi istituzionali, per esempio, sorge evidentemente un problema; e per ogni problema ci vuole una soluzione. IMMAGINARIE, perchè impegnarsi a trovare i soldi per fare in modo di portare anche quest’anno incontri, laboratori, concerti, mostre e djset in un paesino di montagna come Valloriate è un’impresa tutt’altro che facile.
Tutto questo è il Campeggio Resistente.
Non avevano assolutamente intenzione di fermarsi proprio adesso, giunti all’ottava edizione, i ragazzi del Campeggio Resistente che, di fronte a difficoltà economiche di organizzazione, si sono lanciati nel crowfunding (http://langheroeromonferrato.net/italia/i-ragazzi-1000miglia-crowdfunding-finanziamento-collettivo) per far partecipare tutti gli aderenti ad una colletta che porterà ad offrire anche quest’anno lo spazio tenda e l’ingresso ai concerti gratuiti oltre ad un esiguo contributo per i pasti giornalieri.
Il festival ha un solo obiettivo: fare cultura nel senso più profondo del termine.
C’è Valloriate, un caratteristico paese immerso tra le montagne. Uno scenario naturale splendido, immerso tra le montagne, fa da cornice a quattro giornate all’insegna della buona musica, dell’arte e del teatro, di incontri e di dibattiti con ospiti di rilievo. Si parlerà di Ucraina, Grecia, migranti e tanto altro ancora provando sempre a cercare delle “soluzioni immaginarie” che favoriscano il confronto e la partecipazione.
A Campeggio Resistente i campeggianti vivono insieme agli artisti e agli ospiti in un clima vivace, divertente, attivo. Un’ occasione per fare e vivere cultura, un’ opportunità unica di scambio e di condivisione. I ragazzi di Campeggio Resistente sono cresciuti così, guidati da questo solo spirito di amore per la cultura, in modo totalmente volontaristico e spontaneo, attirando sempre più partecipanti, edizione dopo edizione.
Anche la scelta della location, Valloriate, un paese nel cuore nelle montagne che circondano la città di Cuneo non è casuale, ma dettata dalla precisa volontà di valorizzare il territorio che ci circonda sostenendo rapporti con enti, aziende turistiche, imprese e produttori locali al fine di creare una rete di collaborazione locale.
Tutto questo è Campeggio Resistente.
Da giovedì 30 luglio a domenica 2 agosto a Valloriate (CN).
Vuoi sapere il programma completo? Fai un salto su http://www.campeggioresistente.com/programma/ .
Sei interessato a sostenere economicamente il Campeggio Resistente? https://www.produzionidalbasso.com/project/campeggio-resistente-2015-1/
Per il resto… Ti aspettiamo al Campeggio!