Gli stampatori a Imaginé – Piccolo festival della narrazione per figure

I due giorni trascorsi a Vernante sono stati davvero intensi per noi di Nerofumo.

In occasione del “Piccolo festival della narrazione per figure”, che si è tenuto tra il 9 e il 15 aprile a Vernante, abbiamo deciso di organizzare due laboratori di incisione in cui i partecipanti hanno avuto occasione di sperimentare le tecniche della puntasecca su tetrapak e del monotipo. La prima è servita a dare un assaggio di alcuni tra gli aspetti principali dell’incisione: la sua serialità, ovvero la possibilità di generare più copie a partire da una matrice e la lavorazione di quest’ultima, come trattare il materiale e come scalfirlo in maniera appropriata, ma sopratutto la ritualità di questa pratica artistica.

Questo perchè la stampa d’arte, in qualunque sua variazione, è fatta di passaggi che vanno seguiti rispettosamente, pena la vanificazione dei propri sforzi.

Il premio però per chi segue correttamente i passaggi del rituale è la magnifica sorpresa di quando alzato il panno che protegge matrice e foglio dalla decisiva pressione dei rulli del torchio, solleva delicatamente il foglio ed osserva impresso su carta il pezzetto di sé che, con fatica, è stato scavato nella matrice.

Tutt’altra storia, invece, quella del monotipo. Se la ritualità è il cardine su cui ruota gran parte della produzione incisoria, la sperimentazione più pura e l’irripetibilità del momento sono i principi base della monotipia. Stampabile a rullo, a torchio, a mano o a cucchiaio, un segno con la tecnica del monotipo può essere realizzato con qualunque oggetto che sia in grado di esercitare un certa pressione sul retro di un foglio poggiato su una superficie inchiostrata.

Due facce della stessa medaglia che sono diametralmente opposte, eppure insieme danno un’idea della totalità che rappresentano.

Impostando  i corsi su queste due diverse metodiche, volevamo presentare i fondamenti della stampa e allo stesso tempo  evidenziare l’enorme ventaglio di possibilità che ne consegue. Volevamo poi vedere chi, tra gli iscritti, si sarebbe lasciato cogliere dalla febbre dell’inchiostro.

I laboratori di incisione erano solo una parte dei nostri programmi, infatti, durante entrambe le giornate un tirabozze tipografico – prestatoci dal Museo Civico della Stampa di Mondovì, nostri compagni di avventure – ha instancabilmente impresso decine di pinocchi, balene e qualche altro personaggio tratto dalla favola di Pinocchio, tanto cara alla città di Vernante.

Aiutati dai tanti bambini in visita a Imaginé abbiamo composto e stampato numerosi manifesti che i piccoli aiutanti sono stati poi felicissimi di portarsi a casa come ricordo della giornata trascorsa con noi.

L’esperienza è stata fantastica: al termine la stanchezza non era poca ma la soddisfazione la superava di gran lunga. Ringraziato lo staff di Imaginé per averci ospitato, abbiamo impacchettato torchio e bagagli e tutto è tornato come prima, o meglio siamo tornati a casa arricchiti di un’esperienza di meraviglia, quella stessa impressa negli occhi e nelle espressioni di chi si approcciava per la prima volta a questo tipo di arte e con l’orgoglio di avercela messa tutta per trasmettere la nostra passione.

 

 

Art Ultras – Museum League by Cattelan

IL PENSIONAMENTO

Nel 2011 Cattelan annunciò il proprio “pensionamento” dal mondo dell’arte, un annuncio che fece tremare non poco il sistema del collezionismo artistico anche in funzione di che fine che avrebbero fatto le opere milionarie esposte durante la mostra d’addio.
Inimmaginabile e inconcepibile pensare alle dimissioni dall’Arte, sopratutto da quando arte e artista sembrano essere due elementi inscindibili – quasi come chiedere le dimissioni da sé stessi – ma sono anni strani quelli che stiamo vivendo e che hanno visto anche Joseph Aloisius Ratzinger dimettersi dalla carica papale. Ma a quanto pare a Cattelan l’ozio non gli si confà e così torna alla ribalta, a braccetto con Seletti (design brand mantovano), per lanciare il suo ultimo progetto: Made in Catteland.

MADE IN CATTELAND: Museum league

«Made in Catteland tenta di ridisegnare la forma dei gift shop dei musei: luoghi attraversati dallo stesso pubblico dell’arte, ma che nella maggior parte dei casi non hanno a che vedere con il museo e il suo contenuto. […]Perché lo shop non dovrebbe far parte del percorso estetico? Il motto “art for all” è uno dei principi ispiratori del progetto, che cerca di superare i limiti dell’opera d’arte così come la intendiamo normalmente e di esplorare la possibilità di raggiungere il pubblico attraverso la creazione, o meglio, la conquista, di nuovi spazi di fruizione» – ha dichiarato Cattelan in una intervista rilasciata a Vogue.
Infatti ormai tutti i percorsi museali terminano inevitabilmente nei bookshop dei relativi musei da cui è impossibile uscire senza scontrarsi in sfilze di cartoline, matite e penne, calamite, blocknotes, poster, orecchini, tazze, magliette e infiniti altri ammennicoli, quasi come se ci trovassimo in una sorta di autogrill culturale in cui per arrivare alle casse o alle uscite bisogna dribblare montagne di Toblerone accatastato in precario equilibrio.
Da qui nasce l’idea per Made in Catteland, assieme alla consapevolezza che oggi i musei equivalgono a poli culturali rappresentativi delle città dove essi sorgono.
Colori vivaci, accostamenti cromatici audaci, slogan da tifoseria per dichiarare con forza quale sia il proprio museo del cuore.
Già molti dei più importanti musei internazionali hanno aderito all’iniziativa come i newyorkesi MoMA, Guggenheim, New Museum e Brooklyn Museum; il Pérez Art Museum di Miami, il Palais de Tokio di Parigi, i romani Maxxi e Accademia di Francia e i milanesi Pirelli Hangar Bicocca, Fondazione Prada e La Triennale.
Così, con la sua giocosa irriverenza, Cattelan trasforma la competizione fra musei in un derby calcistico e come in ogni derby che si rispetti ogni tifoseria ha la propria sciarpa identificativa della squadra del cuore. Badate bene che queste sciarpe museali non sono che una prima grande anticipazione del progetto che coinvolgerà tutta l’oggettistica dei bookshop dei musei.
Maurizio Cattelan conferma così la sua volontà di contaminare spazi prima semi-ignorati: con Made in Catteland e il progetto teaser Museum League, l’obbiettivo è quello di raggiungere il pubblico esplorando formati sempre nuovi e chissà, magari tra qualche anno i derby museali saranno sentiti quanto quelli calcistici e città come Milano si animeranno non solo per Inter – Milan ma anche per Pirelli Bicocca – Triennale.

“Alèèè alè alè alèèèè ooh ooh ooooh MoMAAA, MoMAAA ”

(Museum League – le sciarpe di Cattelan per i tifosi dell’Arte)

L’EDITORIA ARTISTICA INDIPENDENTE: EDITORI DI SE STESSI

In un articolo precedente, Ruscha come Superman, si è parlato di quello che è stato considerato senza riserve il primo libro d’artista contemporaneo. La realizzazione di quest’opera-libro che impatto ha avuto sul mondo dell’arte negli anni sessanta?
Prima di arrivare a elencare artisti che fondarono case editrici e di svelare le motivazioni di fondo che li hanno spinti a crearle, è bene precisare, anche brevemente, la natura dell’opera-libro rispetto all’opera d’arte ‘tradizionale’.
Di fatto l’intenzione che sta alla base di un libro d’artista è quella di mettere l’arte a disposizione della maggioranza con opere che, al momento del loro concepimento, tengano conto e siano pensate in funzione della possibilità insita in esse: la riproduzione seriale in tirature illimitate e con mezzi industriali.
Il libro d’artista è espressione, oltre che dello sviluppo di queste nuove tecnologie e delle differenti strategie comunicative, soprattutto del dibattito, innescatosi negli anni Sessanta, sullo statuto dell’arte e sulla trasformazione del ruolo dell’artista all’interno di una società che si sta sempre più uniformando.
La manualità e la dimensione artigianale quindi non possono essere le vie adatte alla democratizzazione dell’arte essendo appannaggio di quell’arte ‘tradizionale’ destinata a pochi.

“Questi libri sono, per la loro stessa esistenza, una critica alla confezione tradizionale dell’opera d’arte, nella misura in cui cercano di rendere la creazione compatibile con la maggior diffusione possibile.”(1) Afferma Anne Moeglin-delcroix, in riferimento a Twentysix Gasoline Station di Ed Ruscha, che, secondo lei, è utile per sottolineare tre aspetti significativi del libri d’artista contemporaneo: la natura dell’opera, la libertà dell’artista e la nuova relazione che si crea tra artista e pubblico. La natura critica di questi libri, oltre a riguardare direttamente l’etichetta tradizionale dell’opera d’arte, implicitamente attacca anche il mondo dell’arte.
Il libro è, infatti, una risposta al desiderio dell’artista di rendersi autonomo rispetto all’istituzione artistica stessa: Rusha ha molto insistito sulla libertà che trova con il libro, rispetto al suo lavoro di pittore, dipendente dalle gallerie e dai commercianti. Il libro, infatti, è una produzione leggera, può controllarla dall’inizio alla fine: si auto-pubblica e si auto-diffonde. Il libro gli consente quindi di avere il controllo completo del suo lavoro: “Quando inizio uno di questi libri, riesco ad essere l’impresario della cosa, riesco ad esserne il maggiordomo, riesco ad esserne il creatore e il proprietario esclusivo di tutti i lavori, e mi piace.”
Per quanto riguarda […] il rapporto dell’artista con il pubblico, il bisogno di rendersi indipendente dall’istituzione e di restare il proprietario del proprio lavoro, è strettamente legato al dibattito sullo statuto dell’arte come merce speculativa riservata ad un piccolo numero di ricchi collezionisti. Nei musei e nelle gallerie, Ruscha vendeva i suoi libri per pochi dollari (giusto per poter fare altri libri, poiché egli è l’editore di se stesso), altrimenti, li regalava.
La questione del regalo, e del rapporto con l’arte come dono o come scambio, è essenziale per il libro d’artista. L’obbiettivo non è, infatti, quello di aggiungere un nuovo genere di oggetti a quelli già esistenti sul mercato dell’arte, ma, grazie a essi, di creare o ripristinare un altro rapporto con l’arte, non mercantile.
È bene sottolineare lo spirito sovversivo, persino rivoluzionario, dei libri d’artista di Ruscha, la cui freddezza e neutralità sono solo apparenti: “I miei libri sono stati dei brulotti(2). Erano per me delle cose così bollenti che sarebbe stato difficile tenerli in mano. Adoravo l’idea che essi potessero disorientare. E ciò succedeva alla maggior parte di chi li guardava. Sembravano molto familiari mentre in un certo senso erano il lupo travestito da agnello”(3). Ciò significa che, sotto la forma apparentemente inoffensiva del libro, il nemico è nella posizione giusta per far “saltare dei lucchetti”, cioè dei dispositivi di chiusura e di protezione. Quasi una strategia del disorientamento (come l’artista stesso la definisce). Una violenza calcolata, a diffusione lenta. Una “potenza timida” avrebbe detto Duchamp. Una concezione non frontale del combattimento, un’astuzia vecchia come il cavallo di troia, che non è altro che una differente versione del lupo travestito da agnello).
Dev’essere sembrato un passo naturale per gli artisti degli anni Sessanta quello di diventare totalmente ‘padroni’ del proprio lavoro occupandosi di ogni aspetto che lo riguarda, dalla creazione fino alla distribuzione. Per questo molti decisero di aprire le proprie case editrici, cosa che gli permetteva di tagliare fuori tutte ‘le terze parti’ in favore di un rapporto diretto tra l’artista e il compratore.
Dick Higgins fu uno degli artisti che fin da subito si mosse per concretizzare questa possibilità fondando nel 1963 la Something Else Press al 160, Fifth avenue di New York grazie a cui allacciò numerosissimi rapporti di collaborazione con altri artisti di quegli anni come dimostra, ad esempio, la pubblicazione della collana Great Bear Pamphlet pubblicata tra il 1965 e il 1967 e costituita da venti libercoli, di 16 pagine ciascuno (escluso il manifesto di 32 pagine), che verranno riuniti, nell’edizione finale, in una scatola di legno di pino realizzata a mano su cui figura, stampato in rosso, l’orso da cui prende il nome la collana.
A partire dal febbraio del 1966 la lista dei titoli editi veniva pubblicata sulla rivista mensile Something Else newsletter su cui, nel primo numero pubblicato, Dick Higgins pubblicò il proprio saggio Intermedia in cui l’autore riconduce alla mescolanza di discipline e codici linguistici provenienti da molteplici campi artistici, fusi in qualcosa di diverso e la peculiarità dei fenomeni artistici di quegli anni di cui sono un esempio, per Higgins, la poesia visiva e le sperimentazioni musicali di John Cage.

Negli anni tra il 1963 e il 1974, anno in cui la Something Else chiuse i battenti, vennero pubblicati più di 60 titoli tra cui: A Primer of Happenings & Time/Space Art (1965) di Al Hansel, DaDa Almanach (1966) di Richard Huelsenbeck, 246 Little Clouds (1968) di Dieter Roth, Foew&ombwhnw (1969) di Dick Higgins, oltre che opere di Daniel Spoerri, Robert Fillou, George Brecht, Gertrude Stein, Emmett Williams e numerosi altri ancora.
Alla Somethings Else press seguiranno: la National Excelsior Press di Ed Ruscha, la Forlag Ed di Dieter Roth, la Wild Hawthorn di Ian Hamilton Finlay, The Eschenau Summer di Herma de Vries e, in Italia, la Exempla e Zona Archives Edizioni, entrambe di Maurizio Nannucci, nei cui cataloghi troviamo pubblicazioni realizzate da numerosi artisti tra cui Sol Lewitt, John Armleder, James Lee Byars, Robert Fillou, Lawrence Weiner, Ian Hamilton Finlay, Carsten Nicolai e Rirkrit Tiravanjia.
Anche altri artisti, pur non possedendo una propria casa editrice, pubblicarono alcuni propri lavori autonomamente come Alighiero Boetti che nel 1977 pubblica Classifying the thousand longest river in the world o, anni prima, Giulio Paolini che nel 1968 pubblicò Ciò che non ha limiti e che per sua natura non ammette limitazioni di sorta, una ‘agenda’ di nomi e cognomi di persone conosciute da Paolini, disposti in ordine alfabetico. Un libro che, solo nella forma, può rassomigliare ad un vocabolario o ad un elenco di termini scientifici con una macroscopica differenza di base: i nomi di persona raggiungono un qualsiasi valore di sorta solamente se chi legge conosce personalmente la persona fisica corrispondente al nome riportato nel libro, altrimenti questi non sono nulla se non segni astratti sulla pagina, in quanto il nome proprio non possiede alcuna valenza universale (a differenza di un qualsiasi vocabolo) essendo solamente un termine di caratterizzazione astratta indivisibile dalla persona che rappresenta.

Venendo tagliate fuori le gallerie e le altre istituzioni che prima avevano ricoperto il ruolo di intermediari tra l’artista e lo spettatore dovettero prendere coscienza della situazione che andava formandosi e iniziarono anch’esse una propria attività editoriale. Trattando questo argomento nel lungo articolo Book as artwork, pubblicato sul primo numero della rivista Data, Germano Celant si sofferma particolarmente sulla figura di Seth Siegelaub raffigurandolo come una delle figure di massima propulsione nella produzione di libri d’arte alla fine degli anni ’60, più precisamente a partire dal 1968, anno in cui il gallerista inizia “[…] un’azione informazionale con una serie di pubblicazioni realizzate direttamente dagli artisti […] che si avvale, oltre che di libri, di tutti gli altri media: catalogo, telefono, lettera, fotografia, cartolina, eccetera. L’azione di Siegelaub è fondamentale nell’ambito del comportamento comunicazionale e informativo da parte delle gallerie e del mercato dell’arte, poiché è il primo che concede totale libertà operativa e quindi informativa agli artisti, che non sono più condizionati a produrre oggetti estetizzanti ma informazioni o idee tanto che dal suo lavoro scaturiscono una serie di pubblicazioni/ cataloghi […]” che influenzeranno “[…] tutta la seguente produzione di cataloghi o pubblicazioni affidate direttamente agli artisti, o in occasione di mostre o di libri collettivi.”

Anche la galleria d’arte torinese Sperone darà il suo contributo alla diffusione dell’arte concettuale pubblicando opere dei maggiori rappresentati di questa corrente come Kosuth, Weiner e Baldassari oltre che alcuni dei protagonisti dell’Arte Povera.
In Italia Sperone non sarà comunque la sola galleria che si impegnerà ad allargare gli orizzonti delle proprie pubblicazioni, vanno citate anche la Galleria Toselli (Milano), le pubblicazioni della Galleria Schema (Firenze), Nuovi Strumenti (Brescia), Lucio Amelio (Napoli) e Marilena Bonomo (Bari).
Anche le case editrici classiche si troveranno nella necessità di allargare gli orizzonti delle proprie pubblicazioni come infatti succede a Prearo con la pubblicazione di Tesi di Agnetti, a Scheiwiller con i libri di Agnetti, Belloli, Corrado Costa, Guarneri, Habicher, Munari e Parmiggiani.
L’Einaudi pubblicherà Idem di Paolini e Attaccapanni di Fabro e negli anni ’80 la Hopeful – Monster con le edizioni per Pistoletto, Merz, Paolini e altri.

Nonostante l’ingente quantità di dati bibliografici sciorinati in queste pagine questi non costituiscono che una piccola frazione dell’enorme mondo dell’editoria artistica nato in quegli anni. É invece interessante notare che anche questa piccola frazione, nel caos di nomi, date, luoghi ed eventi riportati su queste pagine basti a farci capire la forza dell’interesse che il libro ha generato su di sé in così poco tempo.

(1) Guardare raccontare pensare conservare: Quattro percorsi del libro d’artista dagli anni ’60 ad oggi a cura di Anne Moeglin-Delcroix [et al.], catalogo della mostra (Mantova, Casa del Mantegna, 7 settembre – 28 novembre 2004) Edizioni Corraini, Mantova, 2004, p. 12.
(2) Per brulotto s’intende un piccolo battello carico di materie infiammabili ed esplosive lanciato contro un bersaglio per incendiarlo o farlo saltare in aria.
(3) Guardare raccontare pensare conservare: Quattro percorsi del libro d’artista dagli anni ’60 ad oggi a cura di Anne Moeglin-Delcroix [et al.], catalogo della mostra (Mantova, Casa del Mantegna, 7 settembre – 28 novembre 2004) Edizioni Corraini, Mantova, 2004, p. 13.

L’ARTE NELL’OFFICINA

Nell’ottobre del 2015 apre sul Lungogesso di Cuneo l’Officina delle Arti: negozio di belle arti con annesso un piccolo ma molto significativo spazio espositivo che già a dicembre, dopo due soli mesi dall’apertura del negozio, si anima con la prima mostra dell’associazione artistica Magau.

Ecco l’intervista a Cristiano Fuccelli:

 – Partiamo dal principio: parlami di chi sta dietro al bancone dell’Officina delle Arti Cuneo.

Dietro il bancone ci siamo mia moglie Patrizia ed io.

Patrizia, dopo il diploma di liceo artistico, ha studiato all’università di Torino mantenendo viva la passione per la pittura e per le arti decorative.

Io dopo il liceo artistico ho frequentato l’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino. Ho lavorato per quindici anni come restauratore per lo più di affreschi e pitture murali. Parallelamente ho continuato la mia attività artistica, esponendo in varie mostre collettive e personali.

Officina delle Arti: come mai questo nome?

L’idea dell’Officina è stata di Patrizia, racchiude alla perfezione il nostro intento di creare un punto di riferimento e un luogo d’incontro per gli estimatori di arte, non solo legato all’attività di commercio. Un posto dove produzione, esposizione, apprendimento, condivisione, possano essere più facilmente accessibili agli appassionati.

– A Cuneo da tempo non si vedeva un “punto di raccolta” per gli artisti, dove poter trovare i materiali ma sopratutto allacciare rapporti di amicizia e collaborazione. L’Officina, se vogliamo, è un ibrido: in parte negozio di belle arti e in parte spazio espositivo. Scegliere di “sacrificare” una parte del negozio per realizzare questo spazio, in cui tra l’altro sono passati anche parecchi giovani artisti, è stata una scelta coraggiosa. Qual è stato il riscontro?

La sala espositiva doveva essere un divertimento, ma costa molta fatica e richiede tante attenzioni e tempo.

In generale abbiamo avuto un buon riscontro e riceviamo molti complimenti dal pubblico. Certo non si può nascondere che l’inizio sia stato difficoltoso.

In un anno di attività abbiamo organizzato due mostre collettive di giovani talentuosi che ho personalmente selezionato e con i quali abbiamo avuto modo di instaurare un interessante scambio artistico con collaborazioni a vari progetti futuri.

Lavorare con i giovani è molto stimolante, sono pieni di entusiasmo, voglia di fare e produrre, sono sempre alla ricerca di idee per emergere.

 – Raccontami delle mostre che si sono tenute finora.

Fino a questo momento abbiamo esposto artisti della provincia di Cuneo, sicuramente in futuro cercheremo di dare spazio anche ad espositori di “altre realtà”, anche se il nostro spazio nasce con l’intento di promuovere e far crescere il movimento artistico cuneese.

Attualmente stiamo esponendo per la seconda volta l’Associazione Magau, della quale faccio parte anche io; mi piacerebbe continuare questa tradizione della mostra annuale del collettivo. Alcuni degli associati sono stati presentati da noi anche in mostre personali: Claudio Signanini con la sua ricerca pittorica sui ritratti di angeli; Cornelio Cerato che ha presentato i suoi paesaggi irreali realizzati con rielaborazioni digitali delle sue fotografie; Corrado Odifreddi con una serie di eleganti e raffinati lavori informali realizzati con grafite.

Poi abbiamo esposto la mostra di Bruno Giuliano, docente dell’Accademia di Belle Arti di Cuneo, che ha presentato per la prima volta una serie di dipinti molto vicina all’espressionismo astratto in un’esplosione di colori.

 – Come scegliete chi e cosa esporre?

Innanzi a tutto cerchiamo di mantenere un certo tipo di target sulle mostre che esponiamo. Cerchiamo di evitare tutto ciò che è strettamente commerciale o scontato, vorremmo lasciare sempre ai visitatori spunti di riflessione, fonti d’ispirazione.

Arrivano molte richieste di disponibilità ed è complicato mantenere una linea di continuità, abbiamo comunque la grande fortuna di poter contare sui suggerimenti di alcune persone fidate che frequentano l’ambiente da più tempo di noi e conoscono bene il potenziale territoriale.

– Con alcuni degli artisti che hai esposto hai partecipato anche a “Arte in piazza”, la manifestazione organizzata a settembre dai commercianti di piazza Boves. Com’è andata la manifestazione? Com’è stata recepita dal pubblico la scelta di portare prodotti dell’ambito della stampa d’arte e di non limitarsi ad esporre opere terminate ma di mettere in mostra le varie fasi di lavoraz

L’Associazione dei Negozianti di Piazza Boves ha creato un evento molto ben riuscito e c’è stata una grande affluenza di visitatori. Noi non eravamo nell’organizzazione, abbiamo solamente aiutato a installare le varie postazioni degli espositori. Sicuramente avrei dato molta più importanza agli artisti locali, d’altronde sono loro che rappresentano la produzione artistica della provincia e di conseguenza andrebbero valorizzati maggiormente.

Come Officina abbiamo ideato una serie di dimostrazioni di grafica d’arte per coinvolgere il pubblico e spiegare i vari processi della stampa, dell’illustrazione e di altre tecniche. Abbiamo riscontrato un notevole interesse a tal punto che a distanza di tre mesi dall’evento ancora ci giungono i complimenti per l’originalità delle dimostrazioni.

Per il prossimo anno ci sono delle interessanti idee per l’evento “Arte in Piazza 2017”: Piazza Boves potrebbe diventare una galleria contemporanea permanente a cielo aperto.

– Ci puoi anticipare qualcuno dei vostri progetti futuri? Cosa bolle in pentola?

Abbiamo diverse idee collegate alla parte commerciale della nostra attività, tra le quali workshop creativi con professionisti, corsi e dimostrazioni dal vivo.

Per il futuro sarebbe interessante aprire un canale di comunicazione più approfondito con le scuole d’arte della provincia, organizzare con loro eventi, concorsi, esposizioni, avere l’opportunità di seguire giovani studenti promettenti e vederli crescere artisticamente, dar loro l’occasione di confrontarsi con il pubblico e magari chissà, interessare i più coraggiosi collezionisti della provincia.

In più c’è il progetto di un’associazione di grafica e stampa d’arte, alla quale tengo particolarmente, con alcuni degli artisti che hanno esposto presso l’Officina, per cercare di sensibilizzare il pubblico a rivalutare l’arte della calcografia. L’intento sarebbe quello di raccogliere e raggruppare i migliori incisori della provincia, lavorare insieme per la divulgazione di un’arte così affascinante e ricca di storia.

 

QUANDO L’INTEGRAZIONE DIVENTA ARTE La prima serata di Arte Migrante a Cuneo

Cecilia Actis
Intervista a Giorgia Beccaria e Ayoub Moussaid

Venerdì 25 novembre.
Cuneo, come nelle migliori serate autunnali, è coperta da un lenzuolo di nebbia. Si vede poco per la strada, si va con calma.
L’appuntamento è alle 20 alla casa del quartiere Donatello. La serata è quella di “Arte Migrante”.

Arte Migrante è un movimento sociale, che poi non è nient’altro che un gruppo informale di persone, nato a Latina e spostatosi subito dopo a Bologna, dall’idea di un ragazzo che si chiama Tommaso Carturan. Lui, insieme ad altri suoi amici, ha pensato che ci fosse la necessità di creare uno spazio in cui persone che arrivano da diversi contesti sociali e culturali si potessero incontrare, ma in una verità di incontro.
E per fare questo si è pensato di utilizzare l’arte, perché è forse il più grande aggregante che l’umanità conosca. L’idea che sta alla base è che l’arte non appartiene solo agli artisti ma è qualcosa che ogni persona ha dentro di sé, ma non la tira fuori perché non ha uno spazio in cui poterlo fare. Quindi, fare Arte Migrante significa creare uno spazio libero in cui ti senti accolto, puoi esprimere e tirare fuori la tua artisticità.
Due anni fa questo progetto è sbarcato a Torino e da un paio di mesi è arrivato anche a Cuneo.

Io e mia sorella portiamo una torta salata fatta da nostra mamma nel pomeriggio. Volevo portare anche una bevanda ma me ne sono dimenticata. Mi scopro portatrice di un po’ di sano imbarazzo, quello che precede i momenti nuovi, in cui non sai bene dove stai andando ma comunque ci vuoi andare.
Siamo accolti dagli organizzatori, ragazzi cuneesi che hanno iniziato a partecipare ad Arte Migrante a Torino ed hanno deciso di proporlo anche nella nostra cittadina.

Due anni fa a Torino Arte Migrante è iniziato in via Nizza, per strada, nei posti dove c’era una situazione delicata. Veniva fatto per creare un ambiente di condivisone e, semplicemente, per stare assieme. Poi, da un anno, questo gruppo ha deciso di creare un incontro di Arte Migrante fisso, con una data, un orario e un luogo prestabilito. Abbiamo trovato un oratorio disponibile in via Ormea e abbiamo deciso che un venerdì sì e uno no ci saremmo incontrati.
All’inizio eravamo una cinquantina di persone, perché già il gruppo che aveva incominciato a trovarsi in via Nizza era numeroso. Quindi era ancora più facile far sì che il gruppo diventasse più grande. Adesso arriviamo a duecento persone a serata. Nel gruppo Facebook s101iamo più di mille, quindi i duecento non sono sempre gli stessi ma c’è un grande ricambio.
Arte Migrante ora ha un luogo fisso ma quest’estate ci siamo spostati dappertutto in Torino. Abbiamo girato ovunque, da Lingotto al Valentino fino in centro. Ha viaggiato e si è spostato da via Ormea per cercare altri posti in cui ce n’era bisogno. La gente spesso ci invitava nei propri quartieri e noi ci andavamo per far vedere che cos’è arte migrante, per stare tutti insieme. Questo ha aiutato a coinvolgere tantissima gente, ed è una cosa che a Cuneo già stiamo per fare. Il primo incontro l’abbiamo fatto al Donatello ma adesso stiamo pensando di spostarci. Il secondo incontro infatti sarà al San Paolo.

Nel primo salone troneggia una tavola imbandita di cibo: da una parte il salato e dall’altra il dolce. Al centro, nell’angolo che formano due tavolini attaccati, le bibite. Affidiamo la nostra quiche nelle mani degli organizzatori e proseguiamo verso la seconda sala.
Non c’è ancora molta gente. Salutiamo qua e là, ci presentiamo. Al centro della stanza, un gruppo di strumenti cattura la nostra attenzione: cajon, jambè, percussioni, chitarre. La serata inizia a prendere forma.
Mentre le persone continuano ad arrivare, alcuni di noi colorano lo striscione con la scritta “Arte Migrante” con tempere e pennelli.
Quando arriva il gruppo di Torino, la serata può incominciare.
Ci raccogliamo in un cerchio ed occupiamo tutto il salone. Al centro, come protetti, gli strumenti musicali ci osservano.
Scopro più avanti, parlando con gli organizzatori, che il momento del cerchio è un momento fondamentale. È lì che ci si conosce, è lì che ci si guarda tutti in faccia per la prima volta. Quella sera ognuno deve gridare il proprio nome e dar vita a un ritmo con mani, piedi, voce, in qualsiasi modo gli venga in mente. Si crea così una specie di armonia musicale di ritmi diversi. Quando tocca agli ultimi quasi non ci si sente più. È un caos ordinato in cui ognuno ha modo di presentarsi agli altri.
Finite le presentazioni, si torna nel primo salone e si mangia cena. Il cibo viene preparato e portato dai partecipanti per poi essere condiviso con tutti gli altri.
Il momento della cena è quello in cui si fa conoscenza, il clima è positivo e propositivo. I partecipanti sono italiani e non, cuneesi di origine cuneese e cuneesi di origine africana o mediorientale. Ci si conosce, si parlano lingue diverse, inglese, arabo, italiano. In quel momento ci si scopre e ci si riconosce tutti simili. E lo sottolineo perché in realtà non è così scontato. L’integrazione, che poi è l’obiettivo ultimo di Arte Migrante, prevede la conoscenza. E mi stupisce il fatto di non sapere, ad esempio, che cosa fanno il venerdì o il sabato sera i miei coetanei marocchini o egiziani a Cuneo. Invece quella sera eravamo tutti lì, facevamo la stessa cosa, avevamo voglia di scoprirci.
Mi trovo in difficoltà nell’esprimere l’atmosfera che si è creata perché sarebbero parole molto banali. Ma c’era un grande desiderio di incontro vero. Probabilmente perché non si hanno altri spazi in cui poterlo fare.

Solitamente siamo abituati a incontrare le persone che stanno ai margini della società soprattutto nelle istituzioni: a scuola o allo sportello del volontariato. Invece, quello che si vuole creare con Arte Migrante è uno spazio in cui le persone si possono incontrare senza filtri.

La seconda parte della serata si svolge nel salone degli strumenti musicali. Formiamo nuovamente un cerchio, ma questa volta ci sediamo sulle sedie o su alcune coperte stese per terra. È il momento in cui l’arte prende il sopravvento. Durante la cena, un paio di ragazzi passavano tra i presenti con un foglio di carta chiedendo chi voleva prenotare un momento in cui manifestare la propria arte.
E così quel momento arriva. Molti ragazzi africani si esibiscono in pezzi rap in qualche dialetto arabo. Le donne africane presenti, la maggior parte di loro proveniente dalla Nigeria, danza sulle note di canzoni in lingue mai sentite prima. Alcuni leggono delle poesie o dei pezzi di romanzi. Una ragazza legge un pezzo tratto da un libro di Harry Potter. Un ragazzo recita un pezzo di teatro. Poi, un canto piemontese si spande nell’aria. Infine, la serata si chiude con un’esibizione di jambè e percussioni di un gruppo di ragazzi che vive in un centro di accoglienza a Festiona: si fanno chiamare “I Valle Stura”. Ci si butta tutti in mezzo e si balla cercando di tenere quei ritmi così africani, così vivi.
La serata termina intorno alle 23. Ci salutiamo dandoci appuntamento al 23 dicembre e poi all’ultimo venerdì del mese a partire da gennaio.
Un grande punto di forza di Arte Migrante è proprio la sua contagiosità.

A Torino si sta espandendo in mille altre iniziative. Ad esempio, da Arte Migrante è nato un gruppo di teatranti amatoriali che si ritrovano e preparano dei pezzi da recitare durante la serata. Si è formato anche un gruppo di cantanti. Sono nati anche i pomeriggi migranti, grazie a un suggerimento sulla bacheca migrante. Nelle serate in via Ormea c’è infatti una bacheca con due colonne: CERCO e OFFRO. Ognuno può scriverci e lasciare un proprio contatto. Così si fa rete. Molti ragazzi hanno espresso la necessità di incontrarsi anche in momenti diversi dalla serata del venerdì. Così sono nati i pomeriggi migranti, in cui ci si trova a casa di qualcuno di noi, si parla italiano, si gioca, si beve un tè in compagnia. L’idea che c’è dietro è quella di aprire le case e incontrarsi nell’informalità e nella vita di tutti i giorni.

Questo percorso è appena iniziato a Cuneo ma è assolutamente promettente. Molte associazioni presenti nel territorio si sono rese disponibili nell’organizzare la serata. Un’idea per il futuro è quella di organizzare degli incontri di Arte Migrante in tutta la Provincia Granda. Un passo alla volta, ma con grande entusiasmo.
Concludo con le stesse parole con cui si è conclusa la mia chiacchierata con Giorgia e Ayoub, due degli organizzatori della prima serata di Arte Migrante a Cuneo:

Chiunque creda che sia essenziale per una comunità avere degli spazi liberi di espressione e ha voglia di spendersi per crearli è il benvenuto perché Arte Migrante è proprio uno di questi spazi.

Per rimanere aggiornati sui prossimi eventi, cercate su Facebook il gruppo “Arte Migrante Cuneo”.

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