Anna Banti: allieva, moglie e custode della memoria longhiana

Nell’articolo di oggi parleremo di una figura molto importante nel panorama italiano del secolo scorso: Anna Banti. Anna Banti, nota al secolo come Lucia Lopresti, fu dapprima allieva e poi sposa del celebre storico dell’arte Roberto Longhi, suo professore di storia dell’arte al liceo Tasso di Roma.

Fu proprio su quei banchi di scuola che la Banti scoprì l’amore per l’arte, un interesse che però decise di accantonare in favore della letteratura. Vediamo il perché di questa scelta: nel 1924 la Banti e Longhi si sposarono e fu proprio il matrimonio, e lo stesso Longhi, a spingerla nella direzione della scrittura, sebbene lei avesse dedicato i primi anni da laureata (in Lettere) alla storia dell’arte.  Al tempo Longhi era già un affermato storico dell’arte conosciuto in Italia e all’estero per i suoi studi sui caravaggeschi, quindi, venuto il momento per la Banti di impostare la propria carriera, la paura di essere seconda al marito nel campo la scoraggiò. Accantonò quindi la sua passione per l’arte dedicandosi energicamente alla letteratura. Spesso nelle interviste dirà: «…non ero fatta per la storia dell’arte. Non è stato un male cambiare campo. Anche perché, visto che c’era già Longhi a fare il critico così bene, non mi pareva ci fosse bisogno di un’altra a fare la stessa cosa molto meno bene. Lui era un genio della critica d’arte, io sarei stata una normale storica dell’arte. Anche se qualche intuizione, in questo campo, l’ho avuta…».
Insomma, vicino a Longhi, nella stessa stanza, non era facile proseguire. La Banti non avrebbe mai sopportato neanche lontanamente l’idea di poter essere considerata seconda rispetto al marito o che qualcuno potesse considerare la sua bravura in quel campo come dettata da Longhi. Per evitare ogni tipo di problema tentò di diventare prima nella scrittura. Ciò nonostante realizzò alcune pubblicazioni in campo artistico su Artemisia Gentileschi e Lorenzo Lotto. Tutto il suo corpus di opere si accentra intorno alle figure di donne che, a causa di una concezione del mondo notoriamente maschile, furono escluse dalla memoria popolare. Questo le permise di ridar vita e voce a personaggi meritevoli inghiottiti dall’oblio del tempo, caratteristica che certamente la accomuna a Longhi.
Spesso le fu attribuita l’etichetta di “femminista”, che sempre rifiutò in quanto tutto ciò che lei stessa e le protagoniste dei suoi romanzi reclamavano era una condizione di parità guadagnata con l’intelletto.

Mi piacerebbe ora soffermarmi su un romanzo in particolare: Artemisia. L’opera ha una storia piuttosto travagliata poiché la Banti scrisse una prima versione del testo nel 1939 e vi lavorò per molto tempo (all’epoca la coppia si trovava a Firenze dove si era trasferita per passare gli inverni di guerra in Borgo San Jacopo). La notte del 3 agosto 1944 i tedeschi in fuga fecero saltare i ponti di Firenze e i quartieri adiacenti a Ponte Vecchio, e sotto le macerie di quel borgo si persero le tracce di due manoscritti bantiani: Artemisia e quello che poi diventerà Il bastardo. Presa da un iniziale sconforto e ritrovati sotto le macerie solo alcuni dei quaderni preparatori all’opera, la Banti abbandonò il testo per poi riprenderlo solo qualche tempo dopo apportando modifiche consistenti alla narrazione. La nuova versione di Artemisia diventa un dialogo tra la scrittrice e l’artista. Non possiamo qui ora dilungarci molto sulla figura di Artemisia, ma fu una pittrice del ‘600, figlia di Orazio Gentileschi, affermato pittore del tempo. La vita di Artemisia fu sconvolta da uno stupro in giovane età e questo ed il suo temperamento la renderanno un modello di coraggio femminile. Si dedicò per tutta la vita alla pittura, e, stanca della sua condizione, abbandonò un figlio ed il marito per viaggiare verso l’Inghilterra, dove il padre era pittore di corte. Insomma una figura piuttosto rivoluzionaria per i tempi.
Nel romanzo la Banti ricrea un legame tra sé e la Gentileschi rafforzato da alcuni elementi biografici in comune. Entrambe le donne sono rispettivamente figlia e moglie di due grandi personalità nel campo dell’arte che amano, ma dalle quali allo stesso tempo in qualche modo si sentono oscurate. Per entrambe vige il costante tentativo di conciliare l’essere donna con il fatto di essere anche un’artista. La scrittura per l’una e la pittura per l’altra rappresentano l’unico mezzo per elevarsi ad una condizione di parità. Questo non vuol dire che la Banti non amasse Longhi, al quale peraltro l’opera è dedicata, ma spesso si sentì soffocata dalla figura di un uomo così conosciuto e stimato da tutti. La componente autobiografica del romanzo è evidenziata dall’affermazione che la stessa Banti fa:  «Quello che si scrive bisogna viverlo».

Il testo è un estratto del discorso preparato dall’autrice in occasione della conferenza in memoria di Roberto Longhi tenutosi nella chiesa di san Giuseppe di Alba il 17 settembre 2020.

 

Hemingway e Hopper: quando arte e letteratura si incontrano

Edward Hopper – “Nighthawks”

 

Arte e letteratura. Due discipline che corrono come rette parallele e che ad intervalli regolari, scardinando ogni principio geometrico, si incontrano. La loro unione è da sempre simbolo di potenza, rivoluzione. Un qualcosa di eccezionale insomma, che testimonia la convergenza di idee, posizioni di artisti e scrittori di ogni epoca.

È questo il caso di Ernest Hemingway e Edward Hopper. Il primo noto scrittore e giornalista americano, autore di numerosi romanzi e racconti; il secondo artista, esponente del realismo americano.

Leggendo un racconto dello scrittore “Un posto pulito, illuminato bene”, si forma nella mente del lettore l’immagine di una caffetteria in piena notte, la cui atmosfera molto intima, ma solitaria, ricorda qualcosa di già visto. Ma qual’è l’immagine familiare che si nasconde tra quelle righe? ll più famoso quadro di Hopper “Nighthawks”.

Il racconto di Hemingway e il quadro si arricchiscono vicendevolmente. Ambientato in una caffetteria il racconto ci restituisce la descrizione di un uomo solo, quello che nell’opera di Hopper vediamo rappresentato di schiena, mentre si attarda nel locale ormai vuoto in compagnia di un caffè.

Alcuni critici hanno visto in molte opere di Hopper un completamento di quegli scenari urbani che affollano le pagine dallo scrittore. Ciò che li accumuna è l’attenzione alla forma e alla semplicità. Qualità che permisero ad entrambi di rendere epica ed interessante la quotidianità della vita nelle loro opere. Vite che, in una tarda sera autunnale, nel chiarore notturno di un bar, si accompagnano con un caffè.

Hopper fu appassionato lettore di Hemingway e pur non condividendone a pieno le idee, commentò spesso e di buon grado i suoi testi. In una lettere del 1927, dopo aver letto l’ennesimo racconto dello scrittore su Scribner’s inviò una lettera al suo direttore per complimentarsi “per l’onestà e per l’assenza della sia pur minima traccia di compiacimento, assenza di indorature, nessun epilogo scontato, e verità e verosimiglianza innanzitutto”.

Finestre sul mondo

In questi mesi di estrema difficoltà dove un’emergenza epidemiologica inaspettata ci costringe a rimanere chiusi in casa, la nostra visuale sul mondo è di certo cambiata. Abituati a vite frenetiche, ad una costante corsa contro il tempo, sono pochi i momenti che nella normale quotidianità riusciamo a dedicare all’osservazione, alla riflessione. Ma quando tutto si ferma, quando non è più possibile muoversi nemmeno per una passeggiata, per un caffè con un amico o per una semplice giornata di lavoro, ecco che la nostra prospettiva cambia. Con molto più tempo a disposizione e con il desiderio di poter evadere anche solo per qualche minuto da quest’apparente “prigionia”, ci ritroviamo ad osservare dal vetro delle nostre finestre il mondo. Un mondo che certamente vediamo con occhi diversi, ma che fuori dalla nostra porta continua ad andare avanti nonostante tutto. È proprio a questa nuova visuale che ognuno di noi ha fuori dalla propria finestra che voglio dedicare questo articolo. Sono molti gli artisti che negli anni hanno lavorato a questo tema realizzando opere estremamente simili per l’intimità che sottintendono, ma diverse nello realizzazione.

“La fenêtre” di Pierre Bonnard è un opera del 1925, anno in cui l’artista viveva nel suo piccolo appartamento di La Cannet nelle Alpi Marittime. Attraverso la finestra si intravedono i tetti rossi delle case della piccola cittadina e gli alberi che occupano le sue strade. I colori del paesaggio sono molto vividi e luminosi quasi come se tutto là fuori risplendesse di luce propria. In primo piano Bonnard raffigura l’interno della stanza, il suo punto di vista: un tavolino sul quale si trova un libro dalla copertina rossa, “Marie” di Peter Nansen per il quale realizzerà alcune illustrazioni.

“Le coin de l’atelier” è un altra opera con soggetto un paesaggio francese. L’artista Madge Oliver la realizza tra il 1920 ed il 1924 dal piccolo studio che aveva ricavato in una delle stanze della dimora. Attraverso la piccola finestra vediamo un cortile fiorito, una siepe ed una bellissima casa sullo sfondo. La composizione calda ed avvolgente rimanda ad una dimensione di tranquillità, di pace. Il cielo limpido e di un azzurro intenso ricorda un luogo sicuro in cui quotidianamente trovare quotidianamente ispirazione.

In “La strada entra nella casa” Umberto Boccioni raffigura una donna di spalle che appoggiata alla ringhiera di un balcone osserva un mondo in movimento. Le case, i cantieri, le strade del dipinto sono sfalsate, distorte quasi come se la visione avvenisse per mezzo di un caleidoscopio. Affacciandosi al balcone la donna diventa complice del movimento esterno della città e partecipa alla vorticosa umanità che la anima. La tela rappresenta molto bene il pensiero futurista, a cui  Boccioni aderì, per il quale “l’artista deve celebrare il movimento, la velocità, il dinamismo e tutto quanto rappresenta la forza e l’energia”.

Questi sono solo alcuni degli esempi di opere che cercano di mostrarci il mondo visto da una finestra, una visuale che nella sua banalità può in realtà essere molto espressiva.  A volte ciò che vediamo ci trasmette calma, senso di pace e ci fa sentire protetti, altra volte affacciandoci sul mondo lo cogliamo in movimento e ne rimaniamo ammaliati, intrappolati nell’osservare una semplice macchina che attraversa la strada, un cane che corre in un giardino, un bambino che gioca; quella semplicità di cui spesso ci scordiamo.

Eros e Thanatos nelle opere di Berlinde de Bruychere

Nell’articolo di questo mese prenderemo in considerazione la giovane artista belga Berlinde de Bruychere e la sua nuova personale Altheia negli spazi della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino. Berlinde (Gand,1964) si avvale del mezzo scultoreo per narrare argomenti quali il dolore, la solitudine ed il corpo sofferente. Particolarmente attenta alla mitologia e alla storia dell’arte, in modo privilegiato a quella Rinascimentale, l’artista crea legami tra elementi del passato e suggestioni che trae da eventi presenti al fine di creare un terreno psicologico dove eros e thanatos ovvero amore e morte, passione e sofferenza si scontrano ed incontrano convergendo nelle sue opere. I materiali di cui generalmente si avvale sono: cera, pelle animale, tessuti, metallo e legno che Berlinde manipola rendendole distorsioni di forme organiche. In occasione della personale Altheia negli spazi della Sandretto, l’artista ha creato un corpus di lavori ad hoc che con un’intensa drammaturgia si sviluppa a partire da sculture monumentali per culminare in una grande installazione ambientale. La mostra riprende un luogo fortemente impresso nella memoria di Berlinde, ovvero un laboratorio per la lavorazione di pelli di Anderlecht in Belgio. Qui le pelli animali vengono impilate su bancali e ricoperte di sale. L’immagine violenta di questi bancali di carne prossima alla putrefazione hanno fatto scattare nell’artista una profonda riflessione sulle tematiche di Eros e Thanatos qui bellezza e angoscia. Un luogo sacro dove riposano i resti del corpo ma che al contempo rappresenta un luogo dove il dolore regna sovrano. Le pelli che compongono le opere sono sottoposte dall’artista a una serie di differenti operazioni quali calco e riproduzione in cera, piegatura, drappeggiatura, costrizione e deformazione che compongono volumi monumentali che rimandano ad un atto di crudeltà dove i resti animali prendono il posto della figura umana per veicolare il tema della sofferenza degli esseri viventi. La riflessione di Berlinde è dunque legata a più temi che non devono forzatamente trasparire nelle sue opere la cui interpretazione è libera nei confronti dello spettatore. Egli, il più delle volte, percepisce di fronte ad esse un senso di solitudine, sentimento che l’artista ha vissuto sin da giovane ed è espressa nelle opere per mezzo di figure senza volto, cavalli ed alberi accostati gli uni agli altri si prendono cura vicendevolmente gli uni degli altri. L’esposizione è visibile negli spazi della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo in Via Modane 16 a Torino.

Giulia Pelassa

Modigliani et ses femmes

Amedeo Modigliani (1884-1920), noto al secolo come il pittore dell’anima, è in realtà, ad uno sguardo più attento, l’artista del XX secolo che pose maggiormente attenzione sulla figura femminile, rendendola il centro del proprio lavoro.

Dedo, questo il soprannome affidatogli da amici e familiari, si trasferisce a Parigi a partire dal 1906; in quella città dove dolce come un respiro d’amante volò per la prima volta la parola maudit rivolta a quegli artisti sconvolgenti le cui vite erano all’insegna di alcool, droghe e donne. Quell’ambiente fecondo per la produzione del pittore, gli permetterà non solo di incontrare molti colleghi ed artisti dai quali trarre ispirazione ma anche le giovani donne che diverranno le famose femme fatales dai colli lunghi che caratterizzano la sua arte.Tutta la produzione di Modì è una riflessione sull’uomo, anche se spesso quell’uomo è una donna, che secondo la religione ebraica a cui apparteneva, è la creatura più bella di tutte e racchiude nella sua carne un duplice soffio divino. Jeanne, Simon, Elvira, le tante donne che popolarono la vita di Modigliani. Le loro anime furono colte e riversate dall’artista nei suoi ritratti in un’intimità quasi infantile. Prendendo in considerazione le due donne con le quali ebbe i rapporti più intensi e sconvolgenti, Simone Thiroux e Jeanne Hebuterne, ecco che si ha un’analisi più precisa del suo rapporto con le donne. Simone arriva a Parigi come studentessa di medicina all’età di diciannove anni ed incontra Modigliani per le vie di Montparnasse, dove il pittore era solito trascorrere tutto il suo tempo al Cafè de la Rotonde. Il loro amore: breve ma estremamente devastante. Simone rimase incinta e contrasse la tubercolosi, malattia di cui Modigliani soffriva dalla nascita. Questo italiano affascinante che la ritrasse in molte opere rendendone il ricordo immortale nei secoli, la condannò ad un’esistenza infelice e breve. L’amore di cui fu improvvisamente privata portò Simon ad infinite suppliche al pittore che non voleva sapere nulla di lei e del figlio illegittimo Sorge venuto alla luce nel settembre 1917. Jeanne Hébuterne, l’unica donna di cui riuscì a capire fino in fondo l’anima, sarà la sua ultima compagna di vita e morte. Conosciutisi durante il carnevale 1916, i due frequentavano la stessa accademia Colarossi, Jeanne aveva 19 anni, Amedeo 33. Magra, pallida, occhi grandi e a mandorla, lunghi capelli rosso castani in contrasto col viso pallido, caratteri per i quali fu chiamata noix de coco, noce di cocco. Il loro rapporto fu di immediata intesa tanto che i due affittarono un appartamento insieme ed iniziarono una breve ma intensa convivenza durante la quale per la prima volta dopo anni Modì trovò stabilità e sicurezza che gli permise di lavorare notevolmente soprattutto sulla figura dell’amata. La stabilità portò alla nascita di una figlia, subito dopo però il pittore si ammalò terribilmente e dopo giorni di agonia morì all’ospedale della Carità nel 1920. Due giorni dopo Jeanne si toglierà la vita gettandosi di spalle dall’ultimo piano dell’edificio in cui i due abitavano, incinta all’ottavo mese di un secondo bambino. In questo lasciarsi cadere di spalle, c’è chi vi legge un ultimo tentativo della donna di negare lo sguardo ad un mondo in cui il suo amato Modigliani non esisteva più. Più di altre donne Jeanne fu la musa di Modì, colei la cui anima fu resa immortale sulla tela. L’evolvere della figura di questa donna nelle opere del pittore dal 1916 al 1920 mostrano l’approfondimento della conoscenza dell’anima di questa giovane ragazza, che diventa sempre più chiara tramite gli occhi dell’artista di dipinto in dipinto.

I ritratti spogliano queste femmes fatales, ne mettono a nudo l’anima con pennellate passionali, cariche di forza e ardore. Modigliani più di chiunque altro fu in grado di instaurare un legame profondo con i propri soggetti la cui anima fu messa a nudo sulla tela.

Giulia Pelassa

 

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