Il pensiero creativo

“ Tutti i bambini sono degli artisti nati, il difficile sta nel fatto di restarlo da grandi”
Pablo Picasso

Quando siamo piccoli ci fidiamo ciecamente della nostra immaginazione, ci buttiamo in ogni situazione senza aver paura di sbagliare, almeno ci proviamo. Crescendo e diventando adulti la maggior parte di noi perde questa fiducia nella creatività, abbandoniamo la capacità di lasciarci andare. Come dice Picasso, tutti i bambini nascono artisti, il problema è rimanerlo anche quando si diventa grandi. Forse disimpariamo ad esserlo o ci insegnano a non esserlo.

Nel sistema educativo, le arti vengono spesso considerate futili, meno importanti di altre discipline. Invece, io credo che la matematica sia importante tanto quanto la danza o la musica. Molti genitori continuano a ripetere ai loro figli: “non fare arte, non diventerai mai un grande artista, guadagnerai poco”. La carriera artistica non è sicuramente facile ma tutte le strade che decidiamo di percorrere presentano degli ostacoli. Così tante persone creative, per il sistema in cui sono inserite, pensano che non lo siano e finiscono per non scoprire mai il loro potenziale.

La società ci spinge a chiuderci in schemi di riferimento e ad adeguarci alla realtà che ci circonda. Siamo terrorizzati di sbagliare, stigmatizziamo gli errori. Insomma siamo schiavi dei giudizi degli altri. Ma se non siamo preparati a sbagliare, non ci verrà mai in mente qualcosa di originale. Essere creativi significa generare idee che vadano oltre le strade battute e possiamo farlo solo se siamo pronti ad andare fuori dal nostro cammino abituale. Il pensiero creativo consiste nel compiere dei tragitti sconosciuti.

Fino al secolo scorso prevaleva l’idea che la creatività fosse simile al genio, una dote raramente posseduta ed esplicitata in campi ristretti come, ad esempio, l’attività artistica. Ancora oggi se si chiedesse a qualcuno chi potrebbe essere la personificazione della creatività, si penserebbe subito ad un tipo bizzarro, stravagante e insolito. Ma in realtà tutti siamo creatori. Tutti abbiamo un’infinità di intuizioni che spesso non abbiamo il coraggio di seguire fino in fondo, continuando così a costruire una realtà lontana da ciò che intimamente sentiamo.

Buona parte delle persone sembra pensare che la vita sia un percorso lineare, che le nostre capacità scemino con l’età e che le opportunità perdute non si ripresenteranno mai più. Forse molte persone non hanno trovato la loro strada perché non comprendono la costante capacità di rinnovamento. Questa visione limitata di noi stessi dipende sia dai nostri simili e dalla nostra cultura ma anche dalle nostre aspettative. La creatività è un modo per sconfiggere questa paura costante di sbagliare, è la capacità di mettere in discussione quello di cui gli altri non dubitano mai, quello che si reputa ovvio. È un modo per creare un senso di scopo e per non sentirsi impotenti davanti alla vita.

La tecnologia può copiare la nostra razionalità ma quando siamo creativi sentiamo emozioni che non sono esprimibili in linea retta. La creatività porta bellezza e incentiva l’innovazione. Infatti, molti studi confermano che uno degli aspetti fondamentali dell’intelligenza è proprio il pensiero creativo che ci permette di vedere le cose diversamente, di trovare nuove soluzioni e andare oltre gli ostacoli.

Per essere creativi ognuno deve individuare il suo rituale, il suo personale approccio. Bisogna praticare il pensiero creativo come una sorta di allenamento per irrobustire la nostra creatività, ad esempio, in cucina, nel giardinaggio per poi trasferirla dove ci occorre, come sul lavoro. L’immaginazione si può educare anche ascoltando l’altro oppure osservando chi ci circonda. Perfino le parole di uno scrittore possono evocare immagini nella nostra mente e guidare il processo creativo. Tuttavia essere creativi vuol dire prima di tutto entrare in contatto con sé stessi. Infatti molte attività creative vengono utilizzate spesso in ambito terapeutico proprio perché creare ci riporta a noi stessi. In fin dei conti, il pensiero creativo è ciò che ci permette di andare al di là delle cose scontate, ci permette di trovare delle risposte diverse a domande che pensavamo avessero già una risposta definitiva e universale.

Albert Einstein diceva: “L’immaginazione è più importante della conoscenza. La conoscenza è limitata, l’immaginazione abbraccia il mondo, stimolando il progresso, facendo nascere l’evoluzione.”

 

L’IMPRESSIONISTA: BERTHE MORISOT

Nell’articolo di oggi parleremo di Berthe Morisot, pittrice troppo spesso relegata alla semplice definizione di “donna dell’impressionismo”. Un’accezione, quest’ultima, che pone in primo piano il suo essere donna e poi  successivamente esponente di uno dei momenti salienti dell’arte del XVIII secolo nel quale ebbe un ruolo di estrema rilevanza.

Berthe nasce nel 1841 in una ricca famiglia della borghesia francese. Fin da bambina i genitori ne riconoscono la vocazione artistica e ne supportano la carriera. Berthe e la sorella Edma, anch’essa pittrice già in giovane età, si formeranno entrambe presso lo studio di Jean-Baptiste-Camille Corot e in seguito il padre affitterà loro un piccolo studio in cui portare avanti la passione per la pittura. 

La Morisot apparteneva ad una società in cui il ruolo della donna era ancora fortemente relegato alla dimensione domestica e, pur condividendone alcuni ideali, si pone controtendenza ad essa. Ricerca la sua indipendenza attraverso la pittura e non rispetta nel suo lavoro i canoni imposti dai colleghi che come lei appartengono all’impressionismo. Le sue pennellate non sono quelle di Monet, di Pissarro o di Degas. Il suo tratto è molto più frammentario, interrotto e indefinito rispetto a questi ultimi. Come è ben visibile nell’opera Giovane donna in grigio sdraiata il corpo dipinto sembra svanire, mescolarsi con l’arredo e con altri elementi della scena in una nuance omogenea che ne offusca i lineamenti.

I suoi soggetti prediletti sono le donne, protagoniste della tela non per la loro sensualità o  per i loro corpi ammalianti, ma per il loro semplice essere donne. Quelle della Morisot sono femmes comuni, madri e mogli, ma il suo modo di rappresentarle pone l’osservatore, o forse dovremmo dire l’osservatrice, in diretta relazione con esse innescando una sorta di immedesimazione. È come se guardando l’opera lo spettatore diventasse doppiamente protagonista, colui che osserva e colui che viene osservato. Si tratta di pitture intime, ricche di profondità dove la donna non esiste nella sua dimensione di oggetto dello sguardo maschile, ma come animo.

Uno dei soggetti preferiti della pittrice fu la sorella Edma. Quest’ultima si sposò nel 1869 abbandonando definitivamente la carriera artistica. Edma sarà sempre un punto di riferimento per Berthe, il  suo metro di paragone e modello. Nella società ottocentesca avere una sorella era un’occasione di socializzazione, di creazione di un forte legame di amicizia e la separazione era spesso fonte di dolore. È proprio questo ciò che accade a Berthe quando, lontana dalla sorella, inizia a dipingerla sempre più spesso, in ogni occasione d’incontro possibile. La raffigura come donna elegante, raffinata, come madre, moglie. Tutte qualità a cui aspirare. Sappiamo che Berthe si sposerà solo nel 1874. Con il passare degli anni, Edma diventerà sempre più una figura evanescente, un qualcosa di perso. Con il matrimonio e la successiva nascita della figlia Julie Berthe abbandonerà questa sua parentesi pittorica.

Fu apprezzata dai suoi stessi colleghi, in particolar modo da Manet, suo cognato, che ne conserverà in camera da letto tre opere; fin da subito sarà fonte di ispirazione per molte altre pittrici come Joan Mitchell che ne seguì le orme divenendo esponente della seconda generazione dell’espressionismo astratto. Troppo spesso dimenticata, Berthe Morisot è una figura che ancora oggi ha molto ancora da raccontare.



L’arte della fotografia

Nella società odierna fare le foto è diventato alla portata di tutti. Che sia col cellulare o con una macchina fotografica professionale a molti piace catturare dei momenti di vita. Spesso scattiamo delle foto a quello che mangiamo o ai posti che visitiamo. Ma in questa marea di gente che fa foto per immortalare un ricordo, c’è anche chi della fotografia fa la propria professione.

Come fa Platon, fotografo nato in Grecia da una famiglia di artisti: la madre è infatti una storica dell’arte, mentre il padre è un architetto. Platon considera la macchina fotografica uno strumento di comunicazione attraverso il quale può raccontare delle storie. Ed è proprio quello che fa: tramite le foto comunica dei messaggi potentissimi. Per Platon infatti la cosa più importante è il sentimento, il messaggio che vuole fare arrivare alle persone. Attraverso le sue fotografie, anche mediante i ritratti, riesce a trasmettere l’anima dell’oggetto immortalato.
Platon ha iniziato la sua carriera fotografando non miti e celebrità, ma scattando in strada, fotografando la gente povera. Ma grazie alla sua maestria e alla sua capacità di arrivare al cuore dell’osservatore, Platon è diventato un fotografo di fama mondiale: così ha fotografato le persone più importanti e potenti degli ultimi vent’anni, da Bill Clinton a Gheddafi. Mantenendo sempre una grande semplicità, si caratterizza per uno stile audace che arriva dritto alle persone. Nella fotografia cerca risposte, analizza la condizione umana e costruisce un legame tra il soggetto della foto e l’osservatore. La dignità dei soggetti si evince dal loro sguardo, forte e provocatorio.

Platon può essere definito un provocatore culturale perché attraverso l’arte porta alla luce le situazioni difficili dell’umanità, come la violenza e la guerra; riesce a inserire nei suoi scatti una magia e un’intimità che creano un opera d’arte.
Nel proprio lavoro Platon cerca non il bello, ma il vero: coglie i dettagli più nascosti dell’uomo e li rende accessibili a tutti. Avverte una grande responsabilità nel raccontare le storie nel modo più adeguato per far arrivare il messaggio giusto. Lo fa con delicatezza e determinazione.
Per vedere con i vostri occhi l’arte di Platon potete visitare la sua pagina: http://www.platonphoto.com/

Alice Taricco

MONACO 1937. Una mostra d’arte “degenerata”

In questi giorni di inizio anno, quando spinti dalla volontà di ricordare quanto avvenne nei campi di sterminio nazisti ripensiamo agli scempi commessi meno di 100 anni fa nella nostra Europa, dobbiamo fermarci e riflettere su quali furono le cause, ma soprattutto i mezzi che portarono una nazione colta ed istruita come la Germania ad appoggiare e condividere una tale disumanità. Come i sociologi contemporanei bene spiegano, una delle macchine che permette il funzionamento di un tale regime è spesso la propaganda. Questo fu certamente quanto avvenne in Germania dove il Ministro per l’istruzione e la propaganda, Joseph Goebbels mise a punto un piano di esaltazione del regime che comprendeva la stessa arte.

L’arte, che noi tutti siamo abituati ad associare all’idea di libertà, di espressione dell’essere, fu spesso nel corso della storia ingabbiata e strumentalizzata divenendone un mezzo di propaganda. Proprio quella disciplina, ci verrebbe da dire priva di regole, fu sovente sfruttata per fini vili come appunto l’istigazione all’odio. Il regime nazista se ne adoperò per incitare attraverso le immagini il popolo alla celebrazione della razza, ma per fare ciò dovette tagliare le ali alla libertà d’espressione di questa disciplina millenaria e come lo fece? Eliminando tutte quelle opere considerate degenerate e allontanandone gli artisti. 

Ma vediamo gradualmente quali furono i passi che portarono a tutto ciò. Nel 1936 il pittore Adolf Ziegler, simpatizzante del regime, venne posto da Goebbels a capo della Reichskammer der Bildenden Künste ovvero la “Camera del Reich per le Arti Visive”, un’istituzione che aveva come fine la promozione dell’arte tedesca considerata conforme ai principi del Reich.  Ziegler non era l’unico ad appoggiare questa strumentalizzazione del linguaggio visivo, bensì era appoggiato da molti teorici e pittori, ad oggi di poco conto, come Wolfgang Willrich, autore del testo “Kunsttempels“ ovvero “Pulizia del tempio dell’arte”. Per Willrich questa disciplina sarebbe dovuta diventare un mezzo di espressione della pura razza tedesca. Instaurò quindi una profonda critica all’arte contemporanea, che venne gradualmente sottoposta alla censura. Ziegler impose un controllo che, esteso agli stessi musei, causò il sequestro delle opere non ritenute conformi ai principi del Reich. I direttori dei musei consegnarono le opere e i pochi che tentarono la strada dell’opposizione vennero successivamente privati della loro carica. Hitler ordinò che alcune delle opere confluissero in una grande mostra, la tristemente conosciuta “Mostra di Arte degenerata” che venne inaugurata a Monaco il 19 luglio 1937. L’ingresso fu gratuito per attirare una vasta fetta di pubblico a cui inculcare l’idea che quell’arte dei più grandi maestri contemporanei del ‘900, fossero opere degenerate, rifiuto della società nonché “corruzione dello spirito”. Monaco fu la prima tappa d’approdo per l’esposizione che successivamente arrivò in 11 città tedesche come Francoforte, Amburgo, ma anche austriache Vienna. I visitatori furono migliaia al punto che ancora oggi può essere ricordata tra le mostre storiche con maggior numero di visitatori di tutta Europa. 

Vi starete domandando dove finirono quadri e statue dopo l’esposizione; ebbene furono nascoste in un deposito di Berlino nel quale restarono fino al 20 marzo 1939, per poi essere bruciate. Possiamo contare oltre 1300 capolavori andati perduti di artisti del pari di Pablo Picasso, Piet Mondrian, Amedeo Modigliani, Otto Dix, Marc Chagalle, Paul Klee, Vasilij Kandiskij, Umberto Boccioni e Carlo Carrà e moltissimi altri.

Il regime nazista cercò non solo di annientare l’uomo internandolo nei campi di concentramento, limitando la sua libertà fisica, non lasciando spazio all’opposizione, alle idea non conformi alla regola dettata dal Reich ma tentò tanto nel mondo dei prigionieri che in quello dei liberi di annientare la facoltà intellettuale, la spiritualità dell’uomo facendo dell’arte e di tutti i suoi mezzi un rogo.

Oggi più che mai è importante ricordare, come lo stesso Primo Levi ci insegna, che «questo è stato» e che nonostante il recente passato ci risulti lontano più che mai, ancora ad oggi ci sono esempi di regimi che limitano la libertà dell’uomo, fisica e d’espressione.

 

La filosofia e i problemi ontologici dell’arte contemporanea

«Il fine e la realizzazione della storia dell’arte sono la comprensione filosofica di che cosa sia l’arte, una comprensione che si ottiene nello stesso modo in cui si può raggiungere la comprensione in ciascuna delle nostre vite, cioè dagli errori che commettiamo, dai falsi sentieri che seguiamo, dalle false immagini che abbiamo finito per abbandonare finché non abbiamo imparato ciò in cui consistono i nostri limiti, e poi come vivere al loro interno».
(Arthur C. Danto, After the End of Art)

L’ontologia dell’arte nasce nel corso del ‘900 per applicare gli strumenti filosofici dell’ontologia (che studia ciò che è) all’ampio dominio della realtà delle forme d’arte, tentando di rispondere in maniera esaustiva alla domanda «che cos’è un’opera d’arte?» in un mondo in cui gli artisti avevano cominciato a produrre non solo tanta arte, ma anche un’arte particolare e completamente altra rispetto a quella del canone tradizionale descritto dal Vasari: come si può giustificare la presenza all’interno dello stesso dominio ontologico di opere tanto eterogenee, come la Venere di Botticelli e l’Orinatoio di Duchamp? 

Nel ventesimo secolo si presenta nel mondo dell’arte un problema nuovo, un problema di concettualizzazione, di riconoscimento ontologico delle opere d’arte, per cui gli strumenti del senso comune non bastano più, e viene dunque chiamata in aiuto la filosofia. Questa nuova tipologia di produzione artistica richiede infatti un cambiamento alla radice della definizione stessa del concetto di arte, che renda possibile l’inclusione o l’esclusione normativa di un determinato oggetto dalla categoria ontologica che contiene gli oggetti artistici. 

Il problema del riconoscimento ontologico delle opere d’arte non è però soltanto un problema teorico. Nella sua opera scultorea Bird in Space Constantin Brâncuși rappresenta un oggetto, ma non lo imita: la struttura affusolata riporta all’idea di qualcosa di aerodinamico, ma non rappresenta affatto un uccello come si enuncia nel titolo, ed è alla dogana per il trasporto dell’opera negli Stati Uniti che si presentano i primi problemi ontologici. I doganieri non riconoscono l’oggetto come un’opera d’arte, bensì come utensile, e lo classificano come tale, con tutti i problemi di tipo fiscale che ne conseguono: le opere d’arte, infatti, nel loro trasporto, sono soggette a tassazioni più basse rispetto agli oggetti d’uso quotidiano. Anche Andy Warhol, con le sue celebri Brillo Boxes, è andato incontro ad un inconveniente simile. Dopo la sua prima importante esposizione a Manhattan, nel 1965 decide di esporre le sue opere anche in Canada, ma alla dogana la situazione si presenta simile e allo stesso tempo opposta a quella di Brâncuși; se in Bird in Space i doganieri non avevano visto nulla che rimandasse all’imitazione di un vero uccello, in questo caso, invece, vedono qualcosa che erano abituati a vedere tale e quale ogni giorno sugli scaffali dei supermercati, e basando la loro idea di arte sui canoni tradizionali non potevano considerare una creazione artistica qualcosa che non solo non era originale, ma una vera e propria copia in serie di qualcosa di già esistente, con limitate modifiche alle proprietà esteriori dell’oggetto. Secondo la tradizione romantica l’artista era caratterizzato da genio e originalità, e di conseguenza un’opera d’arte non poteva essere uguale a nient’altro. Le Brillo Boxes, infatti, non erano state un’invenzione di Warhol, ma di un designer che le aveva create in maniera funzionale alla pubblicità e all’utilizzo che se ne sarebbe fatto. 

Il problema ontologico dell’arte è stato posto per la prima volta da Arthur Danto: l’ontologia dell’arte va ripensata sulla base del fatto che nella classe dell’arte gli artisti chiedono di inserire oggetti che al senso comune non sembrano arte, deviando irrimediabilmente dal corso narrativo che prima la definiva. Il filosofo si focalizza in una critica della filosofia dell’arte che si trova costretta a venire a patti con la caratteristica forse più imbarazzante dell’arte contemporanea, che ogni cosa è possibile, intervenendo, ma solo in maniera descrittiva, e fornendo agli artisti gli strumenti per giustificare le loro opere. Le categorie tradizionali dell’arte difficilmente riescono a dare ragione di simili produzioni: le uniche soluzioni sono creare un’impostazione normativa (complicata e limitante) che regoli in maniera netta l’appartenenza di un determinato oggetto alla categoria artistica o la sua esclusione, oppure allargare i confini del mondo dell’arte, affinché in esso vi possano rientrare anche opere che al senso comune tradizionale possono non apparire come tali.

In un secolo in cui le produzioni artistiche generano allo stesso tempo stupore e incredulità, portando gli osservatori a pensare «potevo farlo anche io!», la filosofia si rivela fondamentale risolutrice di problematiche concrete del mondo moderno, e non un mero contenitore di concetti obsoleti.

Denise Arneodo

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