“Non ce la faccio, ti prego.”

“Fallo.”

“Non ci riesco.”

“Fallo, ho detto.”

“Non posso”

“Devi.”

“E’ la mia famiglia.”

“Dimenticala.”

…C’è un momento nella nostra vita in cui capiamo chi siamo, chi siamo sempre stati, chi continueremo ad essere. Ma a volte, in un momento possiamo perderci per sempre, sprofondando negli abissi più profondi… Sentiamo la terra cedere sotto i nostri piedi, il baratro spalancarsi, e cadiamo, giù, sempre più in fondo. E speriamo con tutto il cuore che qualcuno ci porga la mano, ci afferri, ci tragga in salvo. Ma quella mano adesso non c’è.

Uno sparo. Due. Tre. Dieci. Non si contano più. Il tonfo della caduta. Un urlo. Una lacrima.

“Bravo.”

Khamal, bambino soldato

 

Cara mamma, caro papà,

Stasera ripenso a voi dopo tanto tempo. Saranno le stelle che mi fanno questo effetto: le vedo brillare da una fessura nella mia capanna, e sono così belle che mi fanno pensare a quando ero ancora a casa con voi e le osservavo con Pariah mentre nonna ci raccontava le Storie degli eroi. Penso spesso a quelle storie, soprattutto mentre sono giù in miniera. A volte temo di non farcela, ma poi penso a voi, al debito da saldare per il quale mi hanno portato qui, e allora non mi fa paura niente e riprendo subito il lavoro. Perché mamma, papà, io diventerò un eroe, proprio come quelli delle storie della nonna! Salderò il vostro debito, e allora mi toglieranno questa catena e potrò tornare a casa da voi, riabbracciare Pariah, ascoltare ancora le storie della nonna sotto le stelle. Sì, tornerò da eroe! E allora nel villaggio si racconteranno le mie imprese, come sopravvissi ai mostri più crudeli, come non piansi neanche quando persi i miei compagni, come imparai a non avere paura del buio.

Ecco, le stelle si spengono, proverò a dormire un po’. Fra non molto verranno a prendermi e dovrò essere in forze per affrontare un’altra impresa! Ce la farò, sarò il vostro eroe! Buonanotte mamma, buonanotte papà. Non dimenticatemi. Tornerò.

Youssef, bambino lavoratore

 

Ti ho sempre amato, oh mare. Da piccola eri il mio compagno di giochi e di avventure; mi affascinavi con la tua potenza, mi spaventavi con la tua immensità, ma solo con te mi sentivo al sicuro. Sono cresciuta assieme a te, avvolta dalla melodia delle tue onde e trovando sulle tue sponde sempre conforto in ogni momento. E adesso, ora che sono una donna, ora che sono una madre, ancora una volta, oh mare, mi affido a te. Sono qui, su questa fragile barca, con il mio bambino, come tanti altri uomini e donne: la nostra vita è nelle tue mani. Cullaci come cullavi me da bambina, donaci quel conforto che ho sempre percepito nell’abbraccio del tuo vento, tieni accesa la nostra speranza come tante volte hai fatto nella mia vita. Portaci all’altra sponda, mare mio, portaci lontano dalla guerra che ha distrutto la nostra terra, lontano dalla morte che ha rapito i nostri fratelli, lontano da tutto quel dolore che ogni cuore spera non dover mai più provare. Portaci verso la libertà, verso la pace. Non ti dimenticare, mare, di una tua vecchia amica fedele. Io mi affido a te.

Farzana, migrante clandestina

 

A volte mi chiedo chi sono. Se conto ancora qualcosa. Se sono più di un numero su un tesserino, se valgo più di quel che produco, se ho ancora un’anima o se sono solo un ingranaggio di una macchina che di me ha bisogno finché funziono. Non ci penso spesso a queste cose, ma quando lo faccio ho paura. Ho paura perché ciò che dovrei temere è invece una tremenda normalità. Sì, è normale. Qui a Tokyo si chiama karoshi, “morte da troppo lavoro”, ed è considerata una morte dignitosa, un onore, una gloria: la vita che ci abbandona va ad alimentare ciò per cui l’abbiamo perduta, e di ciò dobbiamo essere grati. Ho 42 anni, lavoro per 18 ore ogni giorno in una fabbrica alla periferia della città. La mia vita, se mai ne abbia una, mi sfugge senza che io possa fare nulla. Non ho tempo né forza per vivere, sono solo, e probabilmente lo sarò sempre. Nei rari momenti in cui ho il coraggio di pensare, ho paura: mi vedo in gabbia, ma non ho nessuna chiave per liberarmi. Ma esiste forse un modo per liberarsi della normalità?

 Shoan, operaio

 

 

Annamaria De Lilla