Ha la faccia di uno che si chiama Marco, e quindi lo chiamerò così, anche se il suo nome è un altro. La prima cosa che noti, del suo piccolo volto, sono gli occhi enormi che vedi attraverso gli occhiali da miope. Capelli scuri, barba folta, ma con la parvenza di essere lavata. Sorride, a volte, quando finisce una frase. I denti tutti separati e piccoli. Ma sorride, alle sue battute, dopo averci visto ridere. Indossa qualcosa che sembra un pigiama, infatti è notte ormai, ma dice di non aver freddo. Ci avviciniamo al suo letto fatto di coperta, scatoloni smontati e pavimento. La sua stanza è il portico di via Roma. Pochi passi a destra e il suo soffitto è il cielo. Ci accoglie con le gambe incrociate, a piedi scalzi. C’è puzza, ma lui lo sa. Sui polsi, sulle caviglie e sul collo si intravedono dei tatuaggi. Dice di averne un’ottantina, su tutto il corpo. Ne va fiero. Punk Rock, dice quello sulle nocche della mano sinistra. Marco è un artista. Lui sa suonare la chitarra, sa cantare. Faceva parte di una band, che si è sciolta poi, dice, per colpa sua. Marco stava avviando un’impresa agricola. Lui è perito, ha studiato. Marco è giovane, ha trentadue anni, ma è padre da dieci: Anna. Le vuole bene, e dice di lei che ha una passione per l’arrampicata. E che è già grande per la sua età, ma diventerà ancora più grande. Non ci ha detto in che senso, ma era sottinteso. Andava tutto bene, ma poi ad un certo punto un eccesso di responsabilità – dice sempre lui, senza cambiare tono di voce– ha provocato il declino. Si chiama eroina. All’inizio era una cosa diversa da provare, poi è diventata una possibilità di evasione dal mondo. L’eroina lo ha salvato, all’inizio. Ma dal sollievo poi è stata la merda. Scusate i toni poco poetici, ma senz’altro autentici. Quella merda ha rovinato tutto – dice lui.
Marco aveva paura di crescere. E forse, non sapendo come fare, ha tentato nell’unico modo che si è trovato tra le mani. Con una siringa tra le dita e uscendo di casa per sempre. Quanto con le nostre mani possiamo farci del male, nella più totale convinzione e volontà di cercare di stare meglio. C’è silenzio tra una sua frase e l’altra, un silenzio che lo spinge a parlare, non di qualcuno che non sa più che dire, e che spinge noi ad ascoltare. L’incastro perfetto che combina i nostri animi che in quel momento senza tempo diventano luogo fisico di scambio e di sfogo.
Siamo cinque noi, questa sera. Anche se è la terza volta che scendiamo in strada, è la prima volta che abbiamo di fronte Marco. Gli chiediamo se ci ha provato a cambiare vita, se non sente la voglia di ricominciare. Se non esistono delle comunità che aiutano ad uscire dalla droga, dalla dipendenza, dalla strada. Se non ha mai chiesto aiuto. E io la sento la vita che scorre nelle domande dei miei compagni, scoppia proprio nei punti di domanda, perché siamo giovani – dice lui- e ci ostiniamo a non arrenderci di fronte ad una vita marcita in dieci anni di droga. Marco non è finito lì, noi lo sappiamo bene questo. Marco ci dice di aver provato ad andare in quelle comunità. Per qualche mese resiste, ma poi non ce la fa più. Ci dice di non essere fatto per questo mondo, se non quello che pulsa sotto ai portici di via Roma. Ora è fuori dalla droga. Quando gli viene voglia di farsi prende il metadone che gli danno i medici. Ma a volte non basta, così ne prende una dose in più. La compra quella. Il metadone, come l’eroina, la trovi per strada, lo spacciano. Lui a volte lo vende, si fa dieci euro così. E quando gli serve ruba scatolette di tonno al supermercato, e poi le rivende per comprarsi quella dose di metadone in più che lo salva da certe sere. O dalla sua mente.
Ride quando sparla del suo dirimpettaio pugliese senza dimora pure lui, che esalta le sue doti canore, ma Marco dice di cantare meglio di lui. Improvvisamente la sua voce si fa seria quando ci confessa che in realtà lo stima, perché vorrebbe anche lui credere così fortemente in qualcosa, così come il pugliese crede nella sua voce.
Chiede se qualcuno di noi fuma. Vale gli dà qualche cartina, del tabacco e dei filtri. Noi altri non fumiamo. Lui se ne gira una e se l’accende. Aspetta il suo compagno di letto, che è stato sbattuto fuori di casa, così Marco si è offerto di condividere con lui la sua camera che dà sul cielo.
Marco ci dice che dentro sente quella voglia di ricominciare, rispondendo ad Andrea. Ma si conosce: i limiti e le regole, il nostro mondo, al quale lui stesso appartiene, lo faranno impazzire. E da lì, poi è un passo il bucarsi. E poi alla fine gli risponde che in fondo sta bene così com’è.
Marco, trentadue anni, una figlia da dieci, la strada come casa, un amico con cui condividere il pavimento, buchi nelle vene, senza credere in niente, lui sta bene così. Marco dice di stare bene così, ma con voce che per la prima volta si incrina, allontanando un po’ lo sguardo. Sembra quasi vergognarsi.
E Andrea che non capisce come un uomo così giovane certamente non ancora finito possa non trovare la forza di vivere davvero. Andrea che c’ha il sole dentro, che crede fermamente in tante cose, lui che è fatto non di sangue e carne ma di forza d’animo e fiducia e le vede ovunque le cose belle, ma rimane senza fiato alla dichiarata rassegnazione di Marco. E Diana che sa che lui può ricrearsi dalle sue ceneri –tutti possono- partendo dal suo essere artista, dal suo talento che è ciò che più lo valorizza. Lei, artista pure lei, conosce il potere curativo della creatività.
Siamo giovani e siamo pieni di vita, e vogliamo farla vedere a lui, proporgli un ventaglio di possibilità, per ricordargli appunto che non è finita. Lui deve ricordarsi delle cose belle che ha dentro, che dentro non ha solo il putrefatto della droga e delle responsabilità, che la vita è anche altro, anche se forse, in trentadue anni non l’ha mai visto. Eppure noi, che strabordiamo di ingenua energia, rimaniamo senza domande quando ci dice che lui sta bene così.
Perché la verità, è che nemmeno nelle nostre tristezze più buie, nelle nostre più dolorose lacrime, nei nostri lutti inaccettabili e nelle nostre giornate prive di senso, noi quella melma non l’abbiamo mai provata. Forse è questo nostro non sapere davvero com’è, ciò che ci fa conservare questa energia, questa voglia di non stare mai fermi, di darci da fare, di scegliere ogni giorno di essere felici, nonostante i se e i ma, senza arrenderci di fronte alle delusioni e alle responsabilità.
Sono ritornata a casa con la vita di Marco appesa allo stomaco, chiedendomi fino a che punto uno possa stare male per capire di non stare bene. Un po’ mi spavento, di come a lui sia toccata una vita Borderline, come porta scritto sul piede, al posto delle scarpe, e a me, del tutto casualmente, un futuro, che in un modo o nell’altro, mi è comunque garantito.
Non ho saputo rincuorare l’incredulità dei miei compagni, mi piomba in mente forse il motivo, sulla strada di casa.
Perché se io fossi Marco, trentadue anni, una figlia da dieci, la strada come casa, buchi nella pelle, senza credere in niente, forse, anche a me, dopo un po’ andrebbe bene così. Mi chiedo se davvero avrei la forza, un motivo per risollevarmi. È che quando una dipendenza ti prende, te la tieni per tutta la vita. Anche se ne esci, anche se l’accetti, anche se non sei finito e lo sai. Si fa viva nei momenti in cui abbassi la guardia, in certe sere, nella tua mente. Un momento di debolezza, e lei ti rende forte. Ed è cosa reale, si vede nei buchi nella pelle. Perché quello è il tuo modo, anche se sbagliato, di cercare di stare meglio: siamo uomini e vogliamo sempre il bene per noi stessi, anche se ce lo procuriamo facendoci del male.
Ho la vita di Marco appesa allo stomaco perchè penso che qualche biscotto, un succo di frutta, una sigaretta, una maglietta, una chiacchierata con degli sconosciuti non bastino a risolvere una vita. Prego che però magari non sia così, forse con la stessa ingenuità che mi fa conservare l’energia. Mi obbligo a pensare che una sera possa fare qualcosa. Almeno una scintilla. Un piccolo seme che un giorno possa cambiare le cose. Che possa cambiargli la vita.