Ogni persona, così come ogni società, è testimone di una scala di valori, più o meno consciamente; queste scale di valori si traducono in priorità che vengono date ora al lavoro ora alla famiglia, ora all’ascetismo ora alla relazionalità, ora a una missione mondiale ora a un lavoro silenzioso, e così via. La scala di valori è l’espressione di una morale personale, che inevitabilmente viene messa in discussione durante un qualsiasi tipo di emergenza, individuale o collettiva: così in un periodo di lutto probabilmente si cercherà innanzitutto una dimensione intima e introversa più che una sociale e rumorosa. Analogo discorso per un periodo di guerra, quando la sopravvivenza alle bombe diventa più essenziale di un momento di svago.
Lo stesso sta avvenendo da un anno: la scala di valori della società mondiale è stata rovesciata da un momento all’altro. È fisiologico, certo, ma bisogna fare attenzione alla resistenza spirituale e mentale dell’umanità e, soprattutto, occorre porsi una domanda: è eticamente giusto rovesciare per molto tempo il modo di vivere proprio dell’uomo, che è animale sociale?
Una premessa: è importante che in questo non si avverta una provocazione. È un punto serio, su cui riflettere con serenità e apertura. Come in ogni questione latamente o strettamente filosofica, non è rilevante che si risponda «sì» o «no»: ciò che più conta sono piuttosto l’analisi, il dialogo, la riflessione, e il modo in cui la questione è posta.
Giorgio Agamben in questi mesi è scivolato in affermazioni che spesso hanno saputo di vergognoso estremismo, ma in un suo articolo del 2 maggio 2020 (La medicina come religione) ha scritto qualcosa di interessante: a proposito dell’essenza dell’insegnamento evangelico, ha sottolineato che ci siamo dimenticati che «il santo di cui l’attuale pontefice ha preso il nome abbracciava i lebbrosi, che una delle opere di misericordia era visitare gli ammalati». Di nuovo: al di là dell’intenzione dell’autore, qui si propone questa frase senza volontà di provocazione. Certo, è spontaneo pensare che in una situazione come questa sarebbe stupido abbracciare gli ammalati; d’altronde san Francesco, si potrebbe dire, non si è preso la peste perché non abbracciava davvero i lebbrosi, è un aneddoto. Qui si replica che al di là della realtà o meno di quegli abbracci ai lebbrosi, noi ci crediamo, o comunque la Chiesa ci crede. Quello che conta non è se Francesco sia stato contagiato o meno, ma il fatto che la scala di valori di san Francesco, evidentemente, non venne scardinata nemmeno dalla pestilenza: per lui, la vicinanza al prossimo è rimasta il primo valore assoluto; la vita dello spirito precedeva la sopravvivenza della carne. Qui non si intende esortare i lettori ad andare ad abbracciare tutti i malati nel reparto di malattie infettive, perché sarebbe impopolare data la nostra impostazione mentale sempre più razionale e matematica che calcola continuamente il rapporto tra rischio e beneficio.
Ma uno spunto san Francesco e Agamben ce lo possono dare: senza andare ad abbracciare i positivi al Covid-19, forse sarebbe etico già solo accorciare la distanza da chi si ama e da chi si è amati. Forse sarebbe cristiano, per una società occidentale fondata sul cristianesimo, rischiare qualcosa pur di esprimere pienamente l’amore. Questo va fatto con coscienza, responsabilità, e verosimilmente usando quella ragione benedetta e maledetta a cui a volte siamo troppo affezionati. Ma va fatto. Va fatto per evitare di trasformarci in animali del buio, che hanno paura di tutti e di tutto, che non rischiano più per nulla e per i quali l’unico valore assoluto è la vita biologica. La nostra scala di valori dev’essere un po’ ritarata, ma non va rovesciata. Soprattutto, non per un periodo lungo due anni.
Se però si storce il naso davanti a questo invito all’altruismo e alla relazione d’amore, è onesto porsi seriamente un’altra domanda: se in una situazione di epidemia (infinitamente meno grave di quella vissuta da san Francesco) tralascio quasi del tutto la relazione umana, a che cosa serve l’esempio di san Francesco? Resta una metafora? Ma di che cosa? Forse della carità? Troppo facile, perché Francesco abbracciava precisamente i lebbrosi, non genericamente persone povere.
L’alternativa è semplice: si può relegare l’opera di san Francesco a immagine romantica e retorica e, quindi, buttarla a mare. Oppure si può tentare di avvicinarsi a quella santità, almeno un po’, per sgusciare da questo vuoto utilitarismo e vedere com’è il mondo fuori dalla capsula di egoismo dell’uomo moderno.