14 Dicembre 2017 | universalMente
Cuneese, italiano, europeo.
Belgo-libanese con residenza negli Emirati Arabi Uniti.
Egiziano di madre tedesca, studente negli Stati Uniti.
Ecuadoregna ma metà italiana, una vita tra sette nazioni.
Le identità affascinano e si nascondono. Come un piccolo gatto di Schroedinger escono dalla loro stanza nei momenti più inaspettati e rivelano aspetti inaspettati (vivo, morto o ?). Come un istinto froidiano approdano nel nostro inconscio e ridisegnano la prospettive.
Al-Ghajar è un paese al confine tra Siria, Libano e Israele.
Siriano, libanese o israeliano? Questa è la domanda che ha forgiato la coscienza dei duemila abitanti nel cuore del Medio Oriente.
1932: gli abitanti di al-Ghajar possono scegliere se diventare libanesi o siriani, scegliendo quest’ultima opzione.
1967: prima dell’occupazione israeliana in seguito alla Guerra dei Sei Giorni, al-Ghajar è un territorio siriano al limite della valle Hasbany.
1978, al-Ghajar si espande verso Nord, in Libano.
17 aprile 2000: il primo ministro israeliano Ehud Barak, seguendo la sua promessa, annuncia il ritiro delle truppe israeliane dal Sud del Libano. 25 maggio: Tzahal (le forze di difesa israeliane) lasciano il Sud de Libano dopo 22 anni di occupazione, in conformità con la Risoluzione 425 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.
Sotto l’occupazione israeliana questo piccolo villaggio diviso tra il Libano del Sud e le Alture del Golan era governato dalle stesse autorità, ma non dalle stesse leggi.
Ma, sì c’è un ma in questa storia e non è quello che state pensando (discutere della legittimità dell’occupazione israeliana sarebbe troppo scontato), più di un semplice conflitto diplomatico e legale, al-Ghajar è il teatro di scontri tra identità radicalmente diverse.
Siriano, libanese o israeliano? Siriano, libanese e israeliano allo stesso tempo, questa è la risposta che potrebbe calmare gli animi.
Ciò che rende la loro vicenda così curiosa non è lo scenario di guerra e diplomazia internazionale, ma il fatto che essi siano alawiti in una zona circondata da villaggi per la maggior parte sunniti, drusi e cristiani.
E sono proprio loro stessi a chiedere di essere annessi ai territori occupati piuttosto che al Libano dopo le tensioni del 1967, affinchè potessero difendere la loro identità siriana come gli altri territori del Golan sotto il controllo israeliano.
A questo punto, una domanda sorge spontanea: cos’è un’identità? Se guardiamo da vicino questo termine, scopriamo che è una nozione polisemica che racchiude i temi della similitudine, dell’unità, dell’identità personale, dell’identità culturale e della tendenza all’identificazione.
«I confini sulle carte incoraggiano questi sentimenti d’identità» afferma a proposito John Agnew. Ma, cosa si nasconde dell’inconscio degli abitanti di al-Ghajar? Come possono interpretare un’identità che non ha nome, né patria?
«È proprio questo che caratterizza l’identità di ognuno: complessa, unica, insostituibile, non si confonde con nessun’altra» afferma Amin Maalouf nel suo capolavoro del 1998 Identità Omicide (dal titolo originale Les identités meutrières). «Spesso è il nostro sguardo a imprigionare gli altri nelle loro strette origini, ed è sempre il nostro sguardo a poterli liberare» continua l’autore libanese.
Il XXI mette in scena il ritorno (o la definitiva non-scomparsa?) dei sentimenti nazionalisti, intenti a difendere la loro identità dalla paura dello straniero. Dove poseremo allora il nostro sguardo? Sulle cartine politiche di secoli passati o sui fenomeni di integrazione che abbattono le frontiere culturali?
Potremmo accorgerci che il ruolo dell’identità è più complesso di un semplice discorso populista e che i nostri sentimenti di appartenenza coincidono con un territorio a cui siamo legati. E come coniugare le nostre identità con i diritti e i doveri del territorio a cui apparteniamo per un momento? Le migrazioni non si fermeranno con un muro o un accordo illegale con un paese come la Libia. L’integrazione sarà un processo inevitabile per evitare altri conflitti.
Per questo l’Italia ha deciso di fare un primo passo verso una comprensione civile e politica delle identità dei cittadini che popolano il suo suolo, riconoscendo ai propri cittadini i loro diritti con lo Ius soli…
Ah già.
16 Settembre 2017 | Frammenti di storia
Nel 1974 l’ONU attribuisce all’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) lo status di “garante del popolo palestinese”, e il conseguente diritto ai palestinesi di far valere la propria sovranità con ogni mezzo. Dopo numerose risoluzioni poste in chiave anti-israeliana, l’OLP dichiara la sua volontà di cancellare lo Stato Ebraico, impedendo così ogni possibilità di dialogo tra l’establishment israeliano e il leader dell’OLP Yasser Arafat.
Nel settembre del 1982 l’esercito d’Israele non ferma un gruppo di maroniti libanesi, lasciandolo libero di massacrare indisturbato la popolazione palestinese dei campi profughi di Sabra e Shatila (quartieri di Beirut sotto il controllo militare d’Israele). Muoiono 700 civili indifesi e la reputazione dello Stato di Israele è macchiata indelebilmente.
Seguono anni burrascosi e nel 1988 il movimento integralista palestinese HAMAS dichiara il Jihad contro Israele, dando inizio alla Prima Intifada.
Lo scenario sembra distendersi solo nel 1993 con gli accordi di Oslo in cui Arafat, a nome del popolo palestinese, riconosce lo Stato Ebraico accettando il metodo del negoziato, rinunciando all’uso della violenza e impegnandosi a modificare lo stesso Statuto dell’OLP in tal senso. Parallelamente, il Primo Ministro israeliano Rabin riconosce l’OLP come rappresentate del popolo palestinese.
La pace dura poco in quanto Israele, nel 1994, contravvenendo ai precedenti accordi, inizia la costruzione del muro di separazione con la Palestina, sostenendone l’utilità contro gli attacchi kamikaze palestinesi. L’ONU nello stesso anno dichiara illegale la barriera in quanto aperta violazione dei diritti umani. Come riportato dal primo rapporto sul muro di Gaza, stilato da parte delle Nazioni Unite,«il tracciato del Muro corrisponde ad un’annessione de facto di territorio palestinese, e costituisce una misura sproporzionata rispetto alle legittime esigenze di autodifesa di Israele, peggiorando ulteriormente le condizioni di vita dei Palestinesi».
Il 1995 vede la firma della seconda parte degli Accordi di Oslo, con la nascita dell’ANP (Autorità Nazionale Palestinese) e della polizia palestinese. Il 4 novembre dello stesso anno Rabin viene assassinato da un estremista conservatore israeliano e al posto di Primo Ministro subentra Ruben Peres. Gli scontri e gli attentati continuano anche quando dalle successive elezioni viene eletto come Primo Ministro Benjamin Netanyahu.
Nel 1997 in attuazione degli Accordi, Israele si ritira dai territori palestinesi occupati e il 95% della popolazione palestinese si ritrova sotto il controllo dell’ANP. Netanyahu non rispetta però gli accordi per quanto riguarda la politica di insediamento di coloni israeliani nei Territori Occupati, favorendo uno stato di continua tensione.
Ehud Barak viene eletto Primo Ministro nel 1999; egli continuerà il processo di pace con Siria e Palestina, ma questo comporterà le sue dimissioni nel 2000: Ariel Sharon diviene capo del governo. Sharon dichiara subito che non continuerà le trattative con Arafat, in quando uomo non più in grado di esercitare alcun controllo sui gruppi terroristici palestinesi, segnando l’inizio di una nuova escalation di violenze che prenderà il nome di Seconda Intifada.
Arafat muore nel 2004 e gli succede Abu Mazen come Primo Ministro palestinese.
Israele adotta, nel 2005, il Piano di Disimpegno Unilaterale, e abbandona tutte le proprie colonie nella Striscia di Gaza. Il partito palestinese di Al-Fatah si ritrova così a governare sull’intera regione. Israele continua comunque a controllare la Striscia di Gaza dal cielo e dal mare, insieme alla maggior parte degli accessi via terra.
Per l’ONU, quindi, la Striscia di Gaza resta territorio occupato e lo Stato Ebraico, limitando agli abitanti di Gaza la possibilità di pescare, ne aumenta la disoccupazione e la fame, contribuendo a rendere i palestinesi dipendenti dall’aiuto umanitario.
Nel 2006 Ariel Sharon entra in coma per emorragia cerebrale e la sua carica viene assunta da Ehud Olmert.
Dopo quasi 2 anni di controllo da parte di Al-Fatah, in Palestina vengono indette nuove elezioni, vinte dal partito integralista Hamas.
Gli USA e l’Unione Europea, nel 2007, condannano Hamas come organizzazione terroristica, imponendo alla Palestina un boicottaggio generale del partito, congelando tutti i fondi al governo palestinese e interrompendo l’invio di aiuti umanitari nella Striscia. Inizia contestualmente una nuova fase del conflitto tra Hamas ed Israele che vede, da parte israeliana, un embargo verso la Striscia, e da parte palestinese il lancio di razzi e tiri di mortaio contro installazioni e città israeliane.
Il 27 settembre del 2008 Israele lancia la prima grande offensiva a Gaza, con l’operazione Piombo Fuso, i cui effetti sono evidenti ancora oggi.
Siamo giunti così alla fine della Storia e all’inizio della cronaca recente, che continua a segnare implacabile le stesse dinamiche di tensione e conflitto. E’ inutile ormai parlare di buoni contro cattivi, le radici del conflitto Arabo-Israeliano sono troppo profonde per essere risolte facilmente in modo semplicistico. Bisogna comunque rimanere fiduciosi che un giorno, la Terra Santa, potrà dirsi “santa” per davvero. Perché sta scritto nella ciclicità della Storia Umana, che ad ogni periodo di conflitto, segue sempre un periodo di pace.
15 Aprile 2017 | Frammenti di storia
Per guerre Arabo-israeliane si intendono quei conflitti che videro il contrapporsi di due schieramenti. Le popolazioni arabe da una parte e gli israeliani dall’altra. Questa serie di conflitti copriranno un arco temporale che va dal 1948 al 1973 sconvolgendo lo scacchiere internazionale, con molte ripercussioni sulla nostra storia recente.
II primo di questi conflitti nacque dal rifiuto della popolazione araba di accettare la spartizione della Palestina decisa dalle nazioni unite con la risoluzione del 29 novembre 1947. Il 15 maggio 1948, esattamente il giorno dopo la proclamazione dell’indipendenza israeliana, le forze armate di Iraq, Libano, Siria, Egitto e Transgiordania invasero lo Stato Ebraico, venendo respinte. Le neonate forze armate d’Israele, dimostrandosi efficienti e tecnologicamente superiori al nemico, riuscirono ad invadere la penisola del Sinai mettendo fine alle ostilità. La tregua del luglio 1948 permise ad Israele di appropriarsi della Galilea orientale, del Negev e di una sottile striscia di territorio fino a Gerusalemme che occupò per metà. In seguito, nel 1949 vennero siglati una serie di armistizi separati tra Israele e l’Egitto, la Siria, Giordania e il Libano.
II secondo conflitto ebbe come causa scatenante la nazionalizzazione del Canale di Suez voluta dal presidente Egiziano Nasser il 26 luglio del 1956. L’esercito israeliano, sfruttando la difficile situazione internazionale generata dalla decisione del presidente Nasser, compi tra il 29 ottobre e il 5 novembre di quell’anno una veloce avanzata nel Sinai fino al Canale. Il contrasto si complicò ulteriormente con l’ingresso nella guerra della Francia e del Regno Unito. Le due potenze europee vedevano infatti i loro interessi colpiti dalla nazionalizzazione di Suez. Il loro intervento fu duramente condannato dall’ONU. soprattutto dagli Stati Uniti e dall’Unione Sovietica. Le Nazioni Unite, al termine delle ostilità, inviarono un corpo di spedizione costringendo le forze anglo-francesi e israeliane di ritirarsi. Allo Stato Ebraico veniva tuttavia riconosciuto il diritto di accedere, per fini commerciali, al porto di Elat sul Golfo di Aqabah.
Il terzo iniziò quando Nasser, nel maggio del 1967, chiese il ritiro dei contingenti dell’ONU dalla frontiera del Sinai. Non trovando risposta decise di bloccare gli stretti di Tîran impedendo il traffico navale nel Golfo di Aqbah. Dal 5 al 10 giugno del 1967, durante quella che prenderà il nome di Guerra dei Sei Giorni, l’esercito israeliano dispiegò la sua intera aviazione distruggendo quasi totalmente le forze aeree egiziane. La fanteria israeliana invece occupò Gaza, il Sinai, la Cisgiordania, la parte araba di Gerusalemme e gli altopiani del Golan. La Guerra dei Sei Giorni si concluse con l’importantissima risoluzione 242 (databile il 22 novembre 1967) del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Da questa risoluzione avrebbero fatto riferimento tutti i successivi tentativi di pace nella regione.
L’ultimo dei conflitti si originò il 6 novembre 1973, giorno in cui l’Egitto e la Siria sferrarono un attacco coordinato contro Israele durante la festa dello Yom Kippur, festività di cui la guerra prenderà il nome. La controffensiva israeliana fu di nuovo efficace e portò alla fine delle ostilità sancite dalla risoluzione 338 del 22 ottobre 1973. Con la risoluzione in questione il Consiglio di Sicurezza riuscì ad ottenere degli accordi di disimpegno fra Israele, Egitto e Siria, che garantirono la riapertura del Canale di Suez, rimasto chiuso dopo la guerra dei Sei Giorni.
Successivamente la pace separata tra Egitto e Israele del 1979 e l’invasione del Libano da parte dello Stato Ebraico, modificarono sostanzialmente il conflitto arabo-israeliano. Esso entrò in una nuova fase, con tensioni localizzate sul fronte siro-libanese e nei territori palestinesi occupati da Israele nel 1967, senza più registrare momenti di scontro generalizzato. Ma tutto questo, si vedrà nel terzo e ultimo capitolo.
14 Febbraio 2017 | Frammenti di storia
L’idea di “muro”, nell’essere umano, assume i connotati di separazione, divisione, chiusura e difesa. I muri fin dall’antichità hanno avuto la funzione di proteggere le comunità dagli assalti di qualche nemico e hanno sempre svolto molto bene il loro compito. L’idea odierna di muro risente invece degli spiacevoli esempi che il passato e il presente ci pongono davanti agli occhi, facendoci subito storcere il naso e dandoci l’impressione di parlare di qualcosa che, ormai, è un concetto superato, una separazione inutile. Questo perché ci troviamo in un universo umano sempre più connesso e sempre più alla portata di tutti, in cui le guerre sono fatte perlopiù dalle intelligence dei paesi, in cui non si sfrutta neanche più il cielo per combattere, ma lo spazio dove agiscono i satelliti. Allora ci si chiede davvero che senso abbia un terrapieno spinato nel salvaguardare la sicurezza di un popolo.
L’uomo però, in quanto uomo, non ci regala soltanto bellissimi atti d’amore, ma anche peculiari e anacronistici esempi di decadenza. Il titolo dell’articolo si rifà al nome del muro più famoso del mondo d’oggi, quello che gli Stati Uniti hanno costruito al confine con il Messico, il muro di Tijuana. Linea di separazione fisica nata per contrastare il contrabbando di droghe pesanti e l’immigrazione clandestina provenienti dal confine sud della “Terra dei Liberi”. La costruzione è iniziata nel 1990 durante la presidenza di George H. W. Bush, in seno alla “Prevenzione attraverso la deterrenza”, adottata dalla polizia di frontiera nei confronti degli illegali che mettevano piede sul suolo statunitense. Il primo tratto di 22 km fu completato nel 1993. Nel 1994, sotto l’egida di Bill Clinton, la barriera fu sviluppata ulteriormente, principalmente come “linea umana di poliziotti”. Questa, composta da lamiere seghettate, filo spinato, illuminazione ad alta intensità, sensori elettronici, copertura militare terrestre, aerea e satellitare, ha causato la morte, tra il 1998 e il 2004, di ben 1.954 persone.
Analizzando l’universo-mondo ci accorgiamo però che l’insieme di lamiere, filo spinato e telecamere di sorveglianza in questione non è affatto un caso unico. Sono presenti sulla Terra molte altre divisioni materiali che si fregiano dell’amaro appellativo di “Muri della Vergogna”. Di seguito alcuni esempi.
Il Muro Marocchino, iniziato nel 1983, separa i territori occupati dal Marocco da quelli sotto il controllo della Repubblica Democratica Araba dei Sahrawi (RASD). Come riportato dal Governo Marocchino il muro ha una ragione strategico-difensiva, mentre secondo la popolazione Sahrawi serve per mantenere il controllo su un territorio particolarmente redditizio e strategico. La parte interna al muro racchiude infatti le miniere di fosfati del Sahara Occidentale e la costa marocchina sull’oceano Atlantico, considerata una delle più pescose al mondo. Un’importante ricchezza è anche quella dei giacimenti petroliferi costieri, sebbene le Nazioni Unite permettano solo la ricerca scientifica e non lo sfruttamento di essi. La piccola zona controllata dalla Repubblica Democratica Araba dei Sahrawi, invece, non ha alcuna importanza economica. I principali obiettivi del muro marocchino hanno perso la loro ragion d’essere nel 1991, quando la RASD scelse la strada della legalità internazionale e dell’azione non violenta. Attualmente lo scontro avviene prevalentemente sul piano politico, nel quale i Saharawi cercano di arrivare ad un “referendum di autodeterminazione” mentre il Marocco ne ostacola la realizzazione al fine di consolidare lo status quo e annettere così il territorio della RASD attualmente sotto il suo controllo.
Le Barriere di separazione di Ceuta e Melilla si trovano, invece, lungo la frontiera tra le due enclavi spagnole e il Marocco. Il loro proposito è quello di ostacolare e impedire l’immigrazione illegale e il contrabbando. Progettate e costruite dalla Spagna alla fine degli anni ’90, sono costituite da filo spinato e muri di cemento armato. Il prezzo, di 30 milioni di euro, è stato pagato quasi interamente dalla Comunità Europea, anch’essa non priva di peccati.
Ulrimo esempio: la Barriera di separazione israeliana in Cisgiordania, iniziata nel 2002, che divide Israele dalla Cisgiordania, conseguenza dell’annessione di fatto a Israele dei territori palestinesi occupati, a cui, per storia e trascorso politico, verrà dedicata un’analisi futura che avrà per oggetto la Palestina.
Come si può notare da questi quattro esempi le ferite del mondo sono tante, troppe, e la nostra generazione sarà chiamata all’arduo compito del dissolverle, memore degli sbagli e dell’inadempienza di chi ci ha preceduto. Fiduciosi in un avvenire privo di queste assurde e insensate opere di divisione che invocano la morte dell’umana misericordia.
15 Ottobre 2016 | Frammenti di storia
Le radici del conflitto che imperversa in Siria da ormai 5 anni trovano la loro linfa vitale nei processi politici che hanno caratterizzato lo stato siriano nel corso di tutto il XX secolo.
Il 7 aprile 1947 nasce il Partito Ba’th, che veicola le spinte di due correnti politiche emergenti nel panorama medio-orientale, il socialismo arabo, di matrice espressamente laica, e il panarabismo. La neo forza politica è la risultante di un processo interconfessionale che prende ispirazione appunto dai suoi ideatori: un alawita, un cristiano ortodosso ed un musulmano sunnita.
Il Ba’th trova, nella dissoluzione della Repubblica Araba Unita (RAU), avvenuta nel 1961 e nel successivo caos politico, il terreno fertile per consolidare le sue posizioni all’interno del panorama politico siriano.
Il 1962 è un anno di forti tensioni sociali che sfociano in una serie di colpi di stato militari. Al fine di impedirne altri il fragile governo dichiara lo stato d’emergenza. La maggior parte dei diritti costituzionali dei cittadini è sospesa e viene a definirsi una nuova classe dirigente all’interno della società siriana.
L’8 marzo 1963 un nuovo colpo di stato, sotto il sostegno del neonato “Comando Rivoluzionario del Consiglio Nazionale”, composto da ufficiali dell’esercito e funzionari civili, porta Hafiz al-Asad, massimo esponente del Partito Ba’th, ad una posizione di rilievo nella politica del paese. Questo permette ad Hafiz di esercitare molte pressioni sul governo fino al 1966, anno in cui un nuovo golpe pone il Ba’th come forza politica dominante eliminando di fatto gli altri partiti. al-Asad diventa così il nuovo ministro della Difesa.
La debolezza del governo viene amplificata dalla sconfitta da parte di Israele durante la guerra dei 6 giorni. Il 13 novembre 1970 Hafiz, approfittando della perdita di popolarità nel vecchio ordinamento politico, conquista la guida del Partito e la conseguente presidenza della repubblica.
Gli anni che seguono sono segnati da un relativa stabilità politica, sociale ed economica, lo stato è ormai retto da un sistema verticistico, monopartitico e repressivo con il progressivo instaurarsi di un vero e proprio culto della personalità del presidente. La stabilità nazionale e internazionale, garantita dall’appoggio dell’URSS, permette notevoli riforme infrastrutturali e il Ba’th si pone come garante della laicità e della libertà religiosa permettendo il fiorire di numerose comunità confessionali di minoranza. Nel 1982 però al-Asad si trova ad affrontare una grande insurrezione di matrice islamica capeggiata dai Fratelli Musulmani che si conclude con l’assedio di Hama e la repressione degli insorti. Secondo le stime dell’epoca riportate dal New York Times 10.000 civili vennero uccisi, mentre il Comitato siriano per i Diritti Umani riporta nei sui dossier ben 40.000 vittime di cui 1.000 soldati.
Gli anni 90, successivi alla caduta del blocco sovietico, portano la Siria ad un avvicinamento all’occidente. Questa propensione viene dimostrata nei fatti dal sostegno di Hafiz nei confronti dell’operazione Desert Storm ,messa in atto dagli Stati Uniti contro l’Iraq di Saddam Hussein, e dal tentativo di pace con Israele.
Il 1999 è un altro anno di tensioni, al-Asad designa come successore il figlio Bashar. Violente proteste scoppiano nella località di Lattakia tra la polizia di stato e i sostenitori del fratello di Hafiz Rifa’at al-Asad che più che mai era intenzionato ad ottenere la presidenza. Dopo la conseguente sconfitta di Rifa’at, e la morte di Hafiz per malattia, succede alla presidenza, come da programma, Bashar al-Asad che viene eletto con il 99,7 % dei voti.
Il neo presidente inizia il suo mandato nel 2000 e si trova già da subito a gestire la difficile situazione dell’indipendentismo curdo. Nel 2004 scoppiano una serie di rivolte al Nord della Siria. La più grave è quella avvenuta nella città di Kamichlié, ove la violenta repressione della polizia fa almeno una trentina di vittime tra i manifestanti curdi. La protesta così dilaga in molti altri centri urbani coinvolgendo anche una larga parte della comunità araba. Il capo di stato non modifica la struttura di controllo della popolazione, rimane in vigore la censura e non viene ripristinata la libertà politica di creare nuovi partiti. Vi è anche un progressivo riallontanamento dalle politiche occidentali. Questo a causa del sostegno di Bashar a Saddam Hussein durante la guerra all’Iraq nel 2003, il conseguente suo appoggio a movimenti di ispirazione terroristica come Hezbollah e Hamas insieme al coinvolgimento nell’assassinio dell’ex primo ministro libanese Rafiq Hariri.
Bashar comunque dichiara che lo stato Siriano sarebbe rimasto immune dalle proteste di massa che si stavano manifestando in Egitto in quegli anni.
Non poteva prevedere che di li a poco, nel giro di circa 7 anni, la somma delle proteste degli indipendentisti curdi, l’insofferenza della comunità islamica sfogatasi attraverso le primavere arabe e la continua repressione dei propri avversari politici, avrebbe portato ad una serie infinita di scontri armati e di morti. Che il 2011 sarebbe stato l’anno l’inizio di un conflitto internazionale che dura ancora oggi e che ha portato ad un acuirsi delle tensioni tra gli stati, soprattuto sul fronte USA-Russia. Producendo una crisi umanitaria che ha inghiottito migliaia di civili. Crisi che ha condotto più della metà della popolazione siriana ad un esodo forzato verso quella che ai loro occhi pareva essere un porto sicuro. L’Unione Europea.