Linguaggio inclusivo? Quattro ragioni contro l’asterisco

Da un po’ di tempo si sta diffondendo l’uso di simboli per rendere il linguaggio scritto neutro rispetto al genere delle persone: così si scrive, ad esempio, tutt* oppure tuttə. Una scelta che mi ha sempre lasciato profondamente dubbiosa e molto critica, soprattutto perché, forse paradossalmente, io, donna, mi sento più inclusa dal termine tutti che dal termine tutt*, impronunciabile e quindi dal significato inimmaginabile. 

Occorre un ripasso della biologia umana. A livello biologico e genetico, il sesso degli esseri umani può essere o maschile o femminile: l’identità sessuale può quindi essere solo di due tipi, e caratterizza il corpo e i comportamenti della persona, dato che i livelli ormonali sono diversi nel maschio e nella femmina. Dunque il sesso è normalmente un dato di fatto, oggettivo e incontrovertibile. Ora sento già le voci di protesta di chi dice che invece nascono bambini e bambine il cui sesso non è chiaro: sono gli ermafroditi, e rappresentano casi di anomalie genetiche. Non sono la normalità e in nessun modo mostrano che esista un terzo sesso: sarebbe come dire che normalmente gli esseri umani possono essere indifferentemente ciechi oppure vedenti, dato che capita che nascano persone cieche. Detto ciò, la persona non è determinata solo dal sesso, ma anche dalla propria identità di genere. Il genere è la percezione, culturalmente influenzata, che ogni persona ha di sé: tendenzialmente sesso e genere coincidono («sono femmina e mi sento donna»), ma talvolta si delinea uno scarto che può essere doloroso e che può portare a operazioni chirurgiche e ormonali per cambiare il proprio sesso («ero femmina, ma mi sentivo uomo; ho deciso di cambiare il mio sesso per diventare maschio»). Ma il genere non è solo binario: ad esempio le persone androgine non si sentono né uomini né donne, e altre persone cambiano percezione di sé nel corso della vita. Ancora un chiarimento: l’ermafroditismo fa riferimento a un problema genetico sessuale, l’androginismo è un elemento culturale e sociale di genere. Qui un articolo de Il Post per capire meglio queste distinzioni: https://www.ilpost.it/2017/07/05/identita-di-genere/.

Ecco quattro ragioni che mi fanno dubitare di questa abitudine linguistica:

  1. Se si vuole rendere il linguaggio inclusivo di maschi e femmine, è sufficiente rivolgersi a una platea mista con tutti e tutte, ad esempio. È quindi evidente che l’operazione che si vuole portare a termine è includere non il sesso, ma i diversi generi. In altre parole: dato che alcune persone non si sentono incluse neanche da tutti e tutte in quanto non si sentono né maschi né femmine, occorrerebbe lasciare spazio a molteplici possibilità e parlare di tutt*. Il punto è questo: l’identità di genere è determinata, come abbiamo detto, dalla percezione di sé, che è qualcosa di profondamente intimo e privato, talvolta doloroso e inaccettabile. Ma è pur sempre una percezione di sé. Come può il linguaggio adattarsi alle emozioni e alle percezioni che le persone hanno di sé? Facciamo un esperimento mentale. Immaginiamo che esista un gruppo di qualche milione di persone che porta all’estremo il darwinismo e ritiene che non si possa parlare di esseri umani, ma solo di animali: quelle persone percepiscono sé e gli altri come animali, alla stregua dei cani e dei gatti. Rivendicano quindi che il linguaggio abolisca dai dizionari i termini essere umano, umanità, uomo ecc., e che per riferirsi agli uomini si usi solo il termine animale. Qualcuno li ascolterebbe? Io non credo. E perché? Innanzitutto perché il linguaggio non può essere cambiato a tavolino, sulla base di proposte di singoli gruppi; e poi perché, molto onestamente, sarebbe troppo complicato (seppure il fatto che l’essere umano sia un animale sia una questione oggettiva e non solo legata alla percezione di sé). E qualcuno riterrebbe che non ascoltarli sia discriminatorio? Probabilmente no.  
  2. Come comportarsi con tutti quei termini che di per sé indicano un maschio o una femmina in modo esclusivo? Pensate alle parole fratello, sorella, suora, prete: se la sorella di qualcuno si sente androgina, dovrei inventare ex novo una parola apposta, secondo questo ideale di linguaggio inclusivo. Ma perché, facendo riferimento sia al sesso femminile sia all’identità di genere, sarei politicamente scorretta se parlassi della «sorella androgina»? Pensate anche agli articoli determinativi, il, lo, la, i, gli, le: dovrei forse scrivere *l* oppure, per il plurale che sarebbe un misto impossibile tra i e le, direttamente *? E come pronunciare queste parole a cui non potrei semplicemente togliere la desinenza?
  3. C’è ancora una ragione per cui questo esperimento linguistico mi sembra ridicolo. La difficoltà, se non l’impossibilità, di riuscire in questo tentativo anche solo quotidianamente e in prima persona emerge da alcuni testi scritti sui social, che il più delle volte iniziano con un ciao a tutt* e proseguono con termini come qualcuno, giovani, adulti. Questo dimostra che è impossibile cambiare la struttura di una lingua già costituita. Impossibile. Per farlo si dovrebbe creare dal nulla una nuova lingua che ammetta il maschile, il femminile e il neutro, com’era in latino. Nel passaggio dal latino ai volgari italiani il neutro si è perso per volontà di semplificazione, in un modo graduale e molto spontaneo: nessuno ha imposto di eliminare il neutro. Così oggi non si può imporre una nuova regola che andrebbe a creare un terzo genere e che influenzerebbe tutta la lingua (si pensi appunto agli articoli determinativi e ad altre parole, come quelle analizzate prima). Diverso è il discorso sui nomi delle figure professionali: lì il mutamento sta accadendo perché è molto più semplice e non strutturale e perché nomi di figure professionali declinati al femminile e non solo al maschile ci sono sempre stati (maestra, professoressa, sarta). In quel caso si tratta quindi di rendere più diffusa un’abitudine linguistica già presente qui e là.

  4. Sembra che molte persone abbiano iniziato a usare l’asterisco più per moda entusiastica che per una ragione seriamente giustificata e ponderata. L’asterisco pare ormai un lasciapassare, un segno distintivo dell’inclusività, un segno di riconoscimento: «anche tu usi l’asterisco, allora sei inclusivo come me!». Forse è una difficoltà personale, ma la realtà mi ha sempre portato a diffidare delle mode nate sui social, soprattutto di quelle che portano a divisioni della massa in due fazioni, pro e contro.

Insomma, siamo di fronte a un’operazione folle e impossibile. Un’operazione che non tiene conto dei limiti cognitivi dell’essere umano, che non può avere successo in questa impresa titanica. Nel Novecento Ludwig Wittgenstein, grande filosofo del linguaggio, ragionò su quanto a fondo possiamo andare nelle ricerche delle cause che regolano il linguaggio e concluse che possiamo capire quali regole reggono il nostro gioco linguistico, ma non possiamo scendere fino alla causa prima per cui quelle regole sono state inventate. E così ha prodotto uno dei passi più belli e disarmanti dell’intera storia della filosofia:

Quando ho esaurito le giustificazioni arrivo allo strato di roccia, e la mia vanga si piega. Allora sono disposto a dire: «Ecco, agisco proprio così». (Ricordati che qualche volta chiediamo spiegazioni più per la forma della spiegazione che per il suo contenuto. La nostra è una richiesta architettonica: la spiegazione è un finto cornicione, che non regge nulla).

La mia vanga, a un certo punto, si piega. Effettivamente mi sentirei senza forze se dovessi produrre anche solo una frase con strani simboli, il che mi dispiacerebbe, perché baderei più alla forma che al contenuto. La forma è importante, si sa, ma in materia di discriminazione credo sia più importante il contenuto: se oggi il vocabolario ammettesse il termine ministre senza che le donne potessero esserlo o senza che avessero il diritto di voto, l’umanità avrebbe fallito; che le donne abbiano da quasi settant’anni il diritto di voto anche se si continua a dire ciao a tutti mi pare un successo. Se tra cinquant’anni gli androgini e i transessuali non saranno discriminati sul posto di lavoro o a scuola e avranno adeguati sostegni psicologici nei casi di sofferenza e di rifiuto della propria condizione, anche se si dirà ciao a tutti e tutte, penso che l’umanità avrà raggiunto un importante traguardo.

 

 

La sfortunata Stella Fortuna: quando erano gli italiani ad emigrare in America

Negli ultimi anni sul mercato editoriale hanno avuto e stanno avendo particolare successo alcune saghe familiari; si pensi ad esempio ai libri dell’italiana Stefania Auci, che spicca per la celebre Saga dei Florio. Sono saghe che raccontano di generazioni e generazioni di una famiglia, spesso povera, che cresce e matura nel tempo. Leggendo questi volumi si sente l’eco di alcuni grandi classici del passato, forse de I Viceré di De Roberto (anche se in quel caso si trattava di una famiglia nobile), ma anche dei libri di Isabel Allende.

Proprio il realismo magico della Allende si ritrova nelle pagine del romanzo d’esordio di Juliet Grames, che si situa in questo filone: Storia di Stella Fortuna che morì sette o forse otto volte, pubblicato in Italia da HarperCollins. La scrittrice è italo-americana, vive in Connecticut e si è documentata con precisione recandosi di persona in Calabria, a Ievoli, prima di narrare la bellissima epopea della famiglia Fortuna.

Ma procediamo con calma: l’arco cronologico della vicenda è alquanto ampio, perché va dai primi anni del secolo scorso fin quasi ai giorni nostri. La prima parte del romanzo è ambientata nella Calabria del primo Novecento, e in particolare in un paese sperduto in cima alle colline di nome Ievoli, dove i compaesani sono poverissimi, si conoscono tutti e si sposano tra cugini. 

La protagonista è una famiglia, quella dei Fortuna, creata da Assunta e Antonio, detto Tonnon e poi Tony. Dal loro matrimonio per niente felice nasceranno comunque quattro figli, due femmine e due maschi: Maria Stella detta Stella, Concettina detta Cettina, Giuseppe e Luigi. Antonio abbandona molto presto la famiglia per andare a cercare fortuna in America, lasciando Assunta da sola con quattro figli piccoli, senza nessun aiuto economico. 

Stella e Concettina sono le vere eroine di questa storia, dato che l’autrice esamina nel dettaglio il loro percorso di crescita, dalla più tenera infanzia alla vecchiaia. Il legame affettuoso tra le due sorelle si mantiene forte e solido per gran parte della loro vita: hanno pochissima differenza di età, sono due ragazze bellissime, gran lavoratrici e invidiate da tutta Ievoli, oltre che fortemente corteggiate. Stella tuttavia è particolarmente sfortunata, forse preda del malocchio, perché fin dall’infanzia è sopravvissuta a numerosi incidenti che l’hanno quasi uccisa (da qui il titolo del romanzo). 

La Grames si sofferma molto nel delineare la condizione della donna nella società del Sud Italia di quel periodo: senza voce in capitolo su ciò che riguarda la sua vita, viene data in sposa giovanissima con un matrimonio di pura convenienza ed è costretta a fare figli esaudendo tutti i desideri del marito-padrone. 

Tutto cambia quando, a ridosso dell’entrata in guerra dell’Italia durante la Seconda Guerra Mondiale, nel 1939, la famiglia Fortuna raggiunge Antonio in America, precisamente ad Hartford, nel Connecticut. L’America è tanto diversa da Ievoli, e i Fortuna vivranno anni estremamente difficili; poverissimi, ridotti a fare lavori faticosi e sottopagati, diventano “stranieri ostili” nel momento in cui anche gli Stati Uniti entrano in guerra. È impossibile non pensare all’evidente somiglianza dei Fortuna e dei loro simili con gli immigrati di oggi, che giungono in Italia nella stessa loro condizione ad inizio del secolo scorso. In America le sorelle Fortuna saranno alle prese con usi e costumi completamente nuovi, con più libertà e frivolezze, tra corteggiamenti, matrimoni, lavoro e figli.

Estremamente interessante è il modo con cui l’autrice tratteggia la personalità di Stella, che è totalmente opposta a quella delle ragazze e donne della sua età: Stella appare agli occhi degli altri come un’aberrazione, come una ragazza troppo cocciuta che andrebbe domata, ma in realtà rappresenta la donna indipendente, che non vuole sposarsi né avere figli, che vuole andare a vivere da sola, lontana dalla sua famiglia, per costruirsi la sua vita. La protagonista rappresenta un barlume di modernità in una società ancora estremamente ottusa, radicata negli ideali antichi dell’Italia del Sud, portati anche oltreoceano. 

Riuscirà Stella a imporre la sua personalità e la sua intraprendenza o dovrà, ancora una volta e per sempre, sottomettersi alla sua famiglia?

Storia di Stella Fortuna è un libro brillante, una sorta di grande documentario romanzato, che narra la storia di una famiglia più unita che mai, nonostante tutti i dissapori e i litigi. E alla fine si resta commossi, come spesso accade quando si concludono quelle grandi epopee che raccontano il trascorrere del tempo, il quale, lento e inesorabile, solca le linee degli alberi genealogici.

 

Cos’è davvero la “teoria del gender” (e perché non dovrebbe spaventarci)

Negli ultimi mesi si è sentito parlare parecchio di “questione di genere”, concetto spesso usato dalle parti politiche al fine di designare, da un lato, un problema di fondamentale importanza per una società che vuole essere sempre più inclusiva, e dall’altro, il vaso di Pandora contenente tutti i mali che possano colpire una società fondata sulla famiglia tradizionale, come se parlare di gender fosse non tanto un tentativo di ampliamento di conoscenza della sessualità, che vada oltre la classica divisione binaria tra uomo e donna, ma la vera e propria base per la fine dell’esistenza della sessualità tradizionalmente intesa. Poiché si ha paura di qualcosa solo finché questo resta ignoto, penso sia fondamentale capire perché la questione di genere non debba spaventare, ma si riveli imprescindibile per fondare nella società una solida base di rispetto dell’identità di tutte quelle persone che, nate biologicamente di un sesso, non si riconoscono nel genere che viene socialmente affidato loro, senza allo stesso tempo arrecare alcun vero danno alla cultura o alla morale tradizionale.

Il sesso non è il genere: il sesso si riferisce agli esseri umani in quanto “femmine” e “maschi”, ed è strettamente connesso a fattori biologici, mentre il genere si riferisce agli esseri umani in quanto “uomini” e “donne”, e dipende da fattori sociali. Dunque, nasciamo femmine (o maschi), ma le pratiche sociali ci impongono di diventare donne (o uomini) e di interpretare ruoli differenti all’interno della società. Il genere è un “tipo” sociale e, in quanto tale, non esiste indipendentemente da un sistema culturale di riferimento.

Il sesso biologico non è né sufficiente né necessario per definire l’appartenenza ad un genere, e per spiegare questo passaggio farò riferimento al caso di Thomas Beaties, il primo uomo transgender a portare avanti una gravidanza totalmente naturale: riconosciuto socialmente come uomo, ma con ancora un sistema riproduttivo femminile, egli rappresenta un caso evidente di discordanza tra genere e sesso, mettendo in discussione i metodi tradizionalmente utilizzati per distinguere uomini e donne: non solo il sesso non basta in generale a definire il genere, ma non è neppure necessario essere femmina (o essere maschio) per essere donna (o essere uomo). Non esiste qualcosa come “la natura delle femmine e dei maschi”, esistono tipi diversi di corpi umani e non c’è un unico modo per classificarli. In natura ci sono più distinzioni di quelle riconosciute dalla tradizionale dicotomia femmina/maschio, e non è facile nemmeno per la scienza stabilire in che cosa esattamente consista la differenza tra i due sessi. Ne è un esempio la storia di Maria Josè Martìnez Patino: negli anni ’80 l’atleta apprese di essere dotata di cromosoma XY (maschile) attraverso un test genetico, sebbene fosse anatomicamente femmina. 

La questione non si riduce al fatto che sia riduttivo definire la femmina come “individuo dotato di cromosoma XX e portatrice di ovuli” e il maschio come “individuo dotato di cromosoma XY e portatore di spermatozoi”, ma il punto è che il modello che riconosce solo due sessi non è sufficiente a render conto di tutte le differenze tra individui, poiché vi sono stadi intermedi o diversi e si rivela necessario introdurre altre forme di sesso. In The five sexes: why Male and Female are not enough (1993) Fausto-Sterling suggerisce di aggiungere tre sessi ai due formalmente riconosciuti con caratteristiche morfologiche, cromosomiche, anatomiche e ormonali specifiche (ferm, merms e herms).

Un approccio convenzionalista al genere, che riconosca dunque l’imposizione di un genere come una mera convenzione sociale, presenta un grande vantaggio: la possibilità di render conto del fatto che il modo in cui donne e uomini vivono la loro appartenenza al genere varia da società a società, poiché i nostri concetti di genere non hanno alcuna validità universale, ma riflettono un insieme di norme e prassi accettate, per cui non tutte le donne né tutti gli uomini vivono la loro condizione di donna o di uomo allo stesso modo. Un approccio convenzionalista propone un’analisi contestualizzata, mettendo in conto il fatto che l’identità di genere sia creata attraverso un percorso individuale che ha a che fare col mondo intimo delle proprie emozioni, affetti e fantasie.

Non c’è nulla che debba spaventare nella questione di genere: quest’ultimo è una convenzione, un costrutto sociale, e in quanto tale, per natura, solleva questioni e interrogativi. Se per anni si è data per scontata l’aderenza di sesso e genere, alla luce di esigenze differenti in persone transgender o non-binary, adottare una classificazione più inclusiva non va a minare alle radici di una società fondata sulla famiglia tradizionale, ma ad allargare la base descrittiva di un’identità di genere il cui essere binaria non ha vero fondamento scientifico e non permette un’inclusione davvero totale.

La caratterizzazione negativa del femminile

Da sempre la donna è soggetta a discriminazioni dal punto di vista sociale a causa della caratterizzazione negativa del femminile, una corrente di pensiero piuttosto comune non solo nel linguaggio ordinario, ma, purtroppo, anche nella storia della filosofia: in passato la mancanza di un punto di vista femminile in ambito filosofico poteva essere, in parte, giustificata dalla mentalità retrograda del tempo, che non permetteva alle donne di esercitare molti diritti fondamentali; purtroppo, però, ancora oggi il pensiero femminile è poco presente nei manuali. Da un certo punto di vista, la filosofia può essere considerata complice, se non colpevole, di tale caratterizzazione, avendo propagato la convinzione che la razionalità, intesa come capacità di produrre inferenze logiche valide, sarebbe una prerogativa esclusivamente maschile, ed escludendo in tal modo le donne dalle pratiche scientifiche e dalla sfera conoscitiva. 

Aristotele, nella Politica, afferma: «il maschio è per natura migliore, la donna peggiore, l’uno atto al comando, l’altra ad obbedire». Queste parole risultano ancora più discutibili alla luce della definizione aristotelica di essere umano come animale razionale: se a distinguere l’uomo dagli altri animali è essenzialmente l’uso ragione, allora la donna sarebbe da considerarsi alla stregua delle bestie. Anche secoli dopo, nell’ambito della filosofia medievale, vediamo pensatori come Tommaso d’Aquino esordire con: «la donna è un uomo mancato, un essere occasionale», o Agostino sostenere che «la donna è una bestia né salda né costante». Secondo queste definizioni, le donne non sarebbero portate per le discipline prettamente razionali, come la filosofia e le scienze matematiche, ma fortemente legate alla dimensione delle emozioni e, dunque, all’ambito privato della casa e della famiglia. 

Secondo Simone de Beauvoir il genere, a differenza del sesso biologico, sarebbe una costruzione sociale, strettamente collegata alle dinamiche e alle norme presenti nella comunità all’interno della quale ci si forma. Dunque, se la condizione di oppressione e discriminazione che caratterizza le donne fosse fondata sul loro sesso biologico, allora non si potrebbe intervenire, ma poiché si tratta di una discriminazione di genere, essa trova le sue radici, e insieme la sua correzione, all’interno della stessa società in cui si sviluppa. Nasciamo femmine (o maschi), ma le nostre pratiche sociali ci impongono di diventare donne (o uomini) e di interpretare, sulla base di ciò, ruoli differenti all’interno della società. 

«Donna non si nasce, piuttosto lo si diventa»

(S. de Beauvoir, Il secondo sesso, 1949)

Anche l’etica della cura è strettamente legata all’ontologia di genere e al pensiero femminista: Eva Kittay sostiene che la politica moderna sia caratterizzata dalla rimozione del carattere vulnerabile della nostra esistenza, portando così alla stigmatizzazione della persona bisognosa di cure, e relegando alle donne il compito di prendersi carico dell’assistenza di chi non è autosufficiente, in quanto considerate più portate sulla base di un rimando alla relazione di cura che si instaura naturalmente tra madre e figlio: una relazione assolutamente non reciproca e fine a se stessa, che per molti sarebbe addirittura da considerarsi segnale di un’inferiorità anche morale, oltre che razionale, della donna.  Sotto questo punto di vista l’etica della cura necessiterebbe di una teoria della giustizia, che la definisca moralmente e politicamente, poiché alimentando l’idea che la cura sia prerogativa femminile, si alimenta di conseguenza anche il pregiudizio. La questione del diritto dei soggetti più vulnerabili a ricevere delle cure, non può essere d’interesse esclusivo delle donne, ma dovrebbe essere una questione politica, riguardante ogni cittadino, e il fatto che non lo sia evidenzia una profonda problematica sociale: la disparità tra chi politicamente definisce i bisogni di cura (uomini) e chi abitualmente eroga questo servizio (donne, per lo più straniere). 

Occorre abbandonare il mito dell’uomo come individuo sufficiente a se stesso: Martha Nussbaum ritiene che per risolvere i problemi legati alla cura, si debba partire dallo scardinamento del pensiero che vede l’uomo come autonomo e non vulnerabile, portando all’esclusione delle persone bisognose di cure dal contratto sociale, in quanto inabili a restituire reciprocamente quanto ricevono. 

La cura è un bene fondamentale del cittadino. Occorre adottare una visione della persona che unisca la definizione Socratica di animale sociale a quella di Marx di uomo come creatura bisognosa di una pluralità di attività di vita, affrontando la questione della cura anche dal punto di vista della giustizia sociale, e, in questo modo, abbattendo gran parte dei pregiudizi che, ancora oggi, tengono la donna legata ad una dimensione privata e familiare.

 

Denise Arneodo

Un giornalista sportivo ai tempi del Coronavirus: quattro chiacchiere con Riccardo Mancini

FOTO: Riccardo Mancini con Francesco Guidolin allo stadio di Wembley prima della finale di Carabao Cup 2017/18

Il Coronavirus, oltre che essere un dramma collettivo ed umano, ha generato per noi appassionati sportivi anche (e più banalmente) una conseguenza ben precisa: la totale assenza delle partite di calcio!

Ecco perché poter ripartire ha scatenato la “fame” dei tifosi, incollati ormai quotidianamente alla tv per assistere alle tante partite in programma. Proprio per questa ragione, molti di noi avranno ormai più familiari le voci di alcuni telecronisti che non quelle dei nostri genitori, fratelli e amici. Sono uomini e donne “appollaiati” negli stadi vuoti ad accompagnarci con le loro parole, ad “immergerci” (come direbbe Fabio Caressa) nell’atmosfera di sfide giocate sino all’ultimo respiro.

Tra questi, c’è sicuramente Riccardo Mancini. Giovane sì, ma anche esperto telecronista di DAZN, che per gli appassionati rappresenta il canale ideale per poter seguire da vicino non solo il calcio italiano ma anche e soprattutto il calcio estero. Proprio Riccardo ci ha concesso qualche minuto tra i mille impegni che in questo periodo affliggono anche lui, per raccontarsi e raccontarci il calcio che conta visto un po’ più da vicino. Buona lettura!

Ciao! Partiamo dalle basi: chi è Riccardo Mancini?

È un ragazzo a cui piacciono le cose semplici, che sa adattarsi più o meno a tutte le situazioni che gli si presentano di fronte, che ama il calcio sin da quando era piccolo, che non può restare troppo tempo senza il mare perché è cresciuto lì, che si sente a proprio agio quando intorno ha il calore delle persone che ama e che lo amano.

Chi è, invece, Riccardo Mancini il giornalista?

È un ragazzo che ha fatto tanti sacrifici per provare ad arrivare ad alto livello. Che è andato via da casa a 23 anni, senza punti di riferimento, che ha tentato la fortuna in una città in espansione ma totalmente sconosciuta come Milano. Che cerca di svolgere il proprio lavoro in modo professionale, che a volte è un po’ troppo pignolo con se stesso ma che non si pone limiti nelle ambizioni.

Chi non è “del settore” spesso immagina il giornalista come un silenzioso osservatore, un po’ “intellettualotto”, sempre con il taccuino in mano. È “solo” questo? Che cosa significa oggi esserlo, tra sacrifici, trasferte e tutto ciò che comporta?

Assolutamente no! Il giornalista è un silenzioso osservatore ma anche un pensatore e uno che cerca di farsi spazio in questo mondo con le sue idee. Poi chiaramente ognuno è fatto a modo proprio e interpreta la professione a seconda del background e degli insegnamenti che ha avuto, ma un giornalista di base è una persona curiosa, che vuole sapere, che ha fame di conoscenza e di cultura. E poi è anche una persona che conosce il valore del termine sacrificio: non è così facile arrivare a svolgere questo mestiere con continuità, per farlo devi essere bravo ma anche molto caparbio e fortunato.

Raccontaci la tua giornata-tipo a ridosso di una partita da commentare.

Durante la settimana precedente, preparo schede di ogni singolo giocatore, oltre a quelle di attualità sulle squadre coinvolte. Capita di commentare 2/3 partite a settimana (in questo periodo anche di più!) e il tempo è relativamente poco, ma, per come sono abituato io, non bisogna mai lasciare nulla al caso o dare qualcosa per scontato. Una ripassata al nuovo regolamento, per esempio, ogni tanto ci sta. È giusto non farsi trovare mai impreparati.

Da giornalista sportivo sei anche stato testimone diretto del calcio post-lockdown. Che effetto ti ha fatto tornare a commentare? Com’è il calcio senza tifosi?

È un calcio diverso, sarei un bugiardo a dire il contrario. Il calcio è dei tifosi e della loro passione, sono loro che portano avanti questa giostra coi loro sacrifici e i loro investimenti. Chiaro che è sempre bello veder rotolare un pallone su un prato, ascoltare i dialoghi in campo, ma il calore della gente è qualcosa che non può e non deve mai mancare. Speriamo torni presto.

Chi, forse, aveva più di tutti voglia di tornare in campo era il Liverpool, alla ricerca di quel titolo mancato per moltissimi anni e che rischiava di sfumare per la pandemia. Tu, da grande appassionato ed esperto di calcio inglese, come hai vissuto trionfo della banda di Klopp?

Il Liverpool e i suoi tifosi meritavano questa gioia. È stato un campionato straordinario, una stagione, seppur interrotta, portata a casa in modo totalmente meritato, per la forza tecnica, fisica, emotiva che il gruppo di Klopp ha dimostrato di avere, oltre che naturalmente per la qualità dei singoli. A memoria ricordo poche squadre forti come questa nell’era della Premier League. Credo che grazie a Klopp e ai suoi ragazzi, ad Anfield, possano pensare di aver aperto un ciclo vincente che durerà per diversi anni.

Dal Liverpool al Benevento. Spesso a Dazn ti è capitato di commentare la Serie B, dove le Streghe hanno vissuto una stagione da schiacciasassi proprio come i Reds. Potranno fare bene in A? Inzaghi saprà finalmente consacrarsi nel calcio dei grandi come tecnico?

A entrambe le cose ti rispondo sì! Perché il presidente Vigorito, oltre che un padre per tutto l’ambiente Benevento, è anche uno che è pronto a investire per allestire una squadra che sia paragonabile al Verona di quest’anno. Che non faccia quindi solo da comparsa ma che sappia anche recitare un ruolo da protagonista. Chiaramente per il Benevento il prossimo anno l’importante sarà mantenere la categoria ed evitare figuracce come quella di qualche anno fa. E poi credo che Inzaghi sia garanzia di continuità. Ogni suo giocatore ne parla benissimo, il suo essere “martello” è la sua vera forza. Credo proprio che Benevento sia l’ambiente ideale per lui: passionale al punto giusto e rappresentato da un gruppo di ragazzi eccezionale. Vedo un Inzaghi in rampa perché questa stagione può davvero rappresentare per lui l’ascensore per i prossimi anni.

La Serie A 2019/20, invece, ti è piaciuta? Chi ti ha colpito?

Forse scontato dire Atalanta ma devo fare i complimenti, oltre che ai giocatori e a Gasperini, anche ai preparatori dei nerazzurri. È una squadra che gioca un calcio intenso da diversi anni, non da qualche mese. Sembra quasi una squadra inglese. A livello di singoli mi ha colpito molto Kulusevski. Commentai una delle sue prime partite in A, quella contro il Cagliari, in cui il Parma perse 1-3, era settembre. Lui, nonostante la sconfitta, brillò. Credo sia destinato ad arrivare lontano.

Atalanta, Napoli e Juventus: quante possibilità dai loro in Champions?

Il compito più difficile spetta al Napoli. Al Barcellona sono ancora arrabbiati per aver perso in quel modo la Liga e non faranno sconti. L’Atalanta deve fare attenzione a non sottovalutare il PSG. È vero che da mesi non gioca una partita ufficiale, ma è comunque una delle squadre più forti del pianeta. La Juve è quella che vedo un po’ più avanti a livello di pronostico ma la squadra di Sarri dovrà essere brava a riconquistare una condizione fisica migliore rispetto a quella attuale.

In ultimo, domanda banale ma mai troppo: in un’intervista in passato hai svelato che il tuo sogno “professionale” sarebbe quello di commentare una finale dei Mondiali. Confermi? Magari, Italia-Inghilterra?

Sarebbe un sogno! Ma anche commentare una partita decisiva per il titolo, stile City-QPR di qualche anno fa, non sarebbe male.