Avete mai letto Station Eleven di Emily St. John Mandel? Bene, se non lo aveste fatto, non fatelo in questo momento. La scrittrice canadese racconta le dinamiche di una società che viene distrutta da un’epidemia per la quale non vi è rimedio. Non è un libro leggero: è angosciante. Quando l’ho letto, qualche anno fa, l’ho reputato surreale. Mai avrei pensato che una situazione simile potesse succedere nel 2020.
È come vivere in un film, una serie TV stile The Walking Dead. La cosa più assurda è che fino a poco fa il problema sembrava confinato in Cina, ma nel giro di un mese l’Italia è diventata zona rossa. Non si può uscire di casa se non per le emergenze, si deve mantenere la distanza di sicurezza, moltissime persone sono in quarantena da settimane. Mio nonno dice che gli sembra di rivivere il periodo precedente alla guerra, quando ancora era un ragazzino e non si capiva esattamente cosa stesse succedendo. Le persone facevano finta di nulla, c’erano incertezza e una nube di confusione che ricopriva il paese.
Sembra una situazione irreale, eppure i dati forniti sugli infetti e sui morti sono elevati, fanno paura. Più persone si ammaleranno e meno gli ospedali saranno in grado di prendersene cura. Il numero di unità di terapia intensiva, pur potenziato, non è dimensionato all’emergenza che stiamo vivendo. La priorità sarà per i giovani, per gli under 60. I miei genitori sarebbero tagliati fuori dalle cure.
A Wuhan dal giorno alla notte hanno chiuso le stazioni della metro, bloccato le strade, cancellato treni e voli aerei, imposto un coprifuoco assoluto. E nonostante ciò ci sono voluti due mesi per uscirne.
Imporre delle regole del genere, così rigide, in Italia è più complicato, basta pensare a coloro che sono scappati a gambe levate da Milano non appena c’è stato l’allarme di blindare la città. Centinaia di persone hanno raggiunto le stazioni per cercare di salire sugli ultimi treni, senza rispettare gli appelli e le raccomandazioni dei medici e delle autorità sull’importanza di restare a casa ed evitare gli spostamenti per cercare di contenere il contagio. Chi ha preso il treno per tornare a casa ha permesso al virus di viaggiare per il paese, facendolo arrivare ovunque.
Tutto ciò però mi ha fatto ragionare. La gente è salita sui vagoni senza biglietto, disposta a pagare una multa salata pur di tornare a casa. Tutti ammassati, stipati, seduti persino per terra. Il personale ferroviario non è riuscito a farli desistere, neanche per ragioni di sicurezza. Code in biglietteria infinite, clima di angoscia e panico generale e la polizia ferroviaria ha dovuto intervenire per mantenere la calma. C’è chi spera di riuscire a partire, chi ha paura di non tornare a casa, chi non sa bene come comportarsi.
Così i treni sono partiti, strapieni di persone che hanno messo a rischio loro stessi e gli altri, pur di abbandonare il nord e le sue difficoltà.
Ho pensato al dramma dei migranti, anche se il contesto è ben diverso. Questo dovrebbe farci riflettere.
Da anni intere famiglie sono costrette a fuggire dal proprio paese. Scappano da guerre o fame e si ritrovano dall’altra parte del mondo senza saper parlare la lingua, senza conoscere usi e costumi, senza la minima idea di ciò che sarà di loro. E spesso non sono ben accette, vengono escluse, prese di mira, considerate “infette”.
È facile far finta di nulla quando le disgrazie non ti toccano in prima persona. Siamo semplicemente stati fortunati ad essere nati dalla parte giusta del mondo, dove bene o male le cose funzionano, abbiamo da mangiare, un tetto sulla testa e non siamo perseguitati per la nostra religione o il colore della pelle. Non dovremmo approfittare di questa fortuna ed estraniarci da queste realtà. L’egoismo non aiuta.
Adesso stiamo vivendo un momento storico in cui siamo noi gli infetti, ci sentiamo deboli e abbiamo paura. Chi non ha mai dovuto scappare lo sta facendo, chi non è mai stato discriminato lo sta provando.
Non appena si è diffusa la notizia che l’Italia era soggetta al virus molti stati hanno chiuso le frontiere e altri hanno imposto la quarantena agli Italiani. Essere discriminati non è piacevole.
Marco Cesario è un giornalista e scrittore di origini napoletane che da anni vive a Parigi e la settimana scorsa ha detto «I giorni scorsi abbiamo vissuto una vera e propria psicosi contro di noi. Da quando sono stati registrati nuovi casi anche qui, i toni si sono leggermente abbassati, ma continuano a mantenere le distanze dagli Italiani. Ieri parlavo con un collega italiano, tutti ci guardavano storto. A un certo punto abbiamo deciso di cominciare a parlare in francese, per evitare di farci riconoscere».
Ad oggi il virus è diffuso in tutta Europa, anche gli stati che prima facevano finta di nulla stanno prendendo le misure di sicurezza per cercare di contenere la pandemia.
Il Coronavirus è una calamità che ci ha colpiti all’improvviso. In giro si percepisce un’aria diversa, affaticata e confusa. Le persone sono attente, scettiche e preoccupate, stiamo vivendo una routine quotidiana completamente diversa da quella a cui siamo abituati. L’atmosfera è surreale.
Non dovremo dimenticare ciò che stiamo provando ora. Dobbiamo capire cosa significhi non poter viaggiare liberamente, non essere accettati a prescindere ed esser visti con diffidenza.
Pensiamo a tutte le persone che stanno vivendo queste realtà da anni e, da ora in poi, impariamo ad accoglierle invece che escluderle.