Ho deciso di leggere Norwegian Wood quando l’ho visto delicatamente appoggiato sulla scrivania di un’amica. Due cose hanno catturato la mia attenzione, la copertina rossa e il fatto che avesse l’aria di uno di quei libri vissuti che, quando li guardi, ti chiedono di essere aperti e letti. Così me lo sono fatta prestare.
Norwegian Wood è un romanzo di Haruki Murakami, pubblicato nel 1987. Leggerlo è una sorta di rito di passaggio, quasi tutti i miei coetanei l’hanno fatto, chi più di una volta. I feedback sono vari, c’è chi lo ha amato, chi odiato, chi ha provato emozioni contrastanti avendolo letto in momenti diversi della propria vita. L’edizione che ho letto io era già passata in diverse mani, con pagine gialline, alcune frasi sottolineate e gli angoli della copertina consumati.
Per quanto mi riguarda, sono solidale con le recensioni positive, mi sono affezionata molto in fretta sia alla storia che ai personaggi.
Norwegian Wood è un lungo flashback, narrato in prima persona dal protagonista Watanabe. Il ragazzo, ormai trentasettenne, si trova su un aereo diretto in Germania quando sente “Norvegian Wood” dei Beatles uscire dagli autoparlanti del mezzo. La canzone lo porta a ricordare con nostalgia eventi e persone del suo passato, quando frequentava l’università a Tokyo. Watanabe era uno studente semplice e curioso, appassionato di letteratura americana. All’inizio del primo anno di università ritrova un’amica, Naoko, che non vedeva dal funerale di Kizuki, migliore amico di lui e fidanzato di lei, morto suicida a 17 anni. Naoko è una ragazza bellissima di cui Watanabe si innamora. Inizia così la loro storia, un amore lento, delicato e intenso: Naoko è pericolosamente fragile, ma più lei mostra i sintomi del disagio mentale che la tormenta, più Watanabe si fa coinvolgere. Nel momento in cui Naoko si allontana da Tokyo per curarsi, Watanabe conosce ed inizia a frequentare un’altra ragazza, Midori, che pur avendo anche sofferto molto in passato, è vivace, vitale e disinvolta.
Watanabe incontra numerose persone durante il racconto, tutte molto diverse tra loro. Ciò che mi ha colpito è come l’autore sia riuscito perfettamente nella descrizione dei personaggi; personalmente non mi riconosco in nessuno di questi, ma, in qualche modo, capisco i loro pensieri, le loro emozioni e i loro gesti come se fossero miei. Riesco a immedesimarmi in ognuno di loro pur essendo totalmente diversa ed estranea alla loro realtà. L’atmosfera della storia è così personale e introspettiva che è impossibile non farsi coinvolgere né non portarsi dietro qualcosa una volta terminata la lettura.
Probabilmente le due ragazze, Naoko e Midori, rappresentano i due lati della personalità di Watanabe, motivo per cui lui ama entrambe e non sa con chi vuole stare. La sua indecisione rispecchia ognuno di noi: la nostra personalità viene rappresentata sia da Naoko, timida, impaurita, sola e triste, sia da Midori, combattiva, estroversa e leggermente volgare. Siamo sempre sospesi tra il desiderio di compagnia e lo stare in solitudine, la voglia di affermare noi stessi, ma anche di venire accettati dagli altri.
Un altro aspetto incredibile del romanzo è come l’autore affronti temi molto intimi e delicati in maniera semplice, ma non superficiale. Argomenti che ancora oggi vengono considerati tabù, come ad esempio la sessualità o il suicidio, viaggiano liberi e con la volontà di essere raccontati. É anche vero che il romanzo trattando temi complicati, non può che trasmetter anche un forte senso di inquietudine e malessere. Più di una volta ho interrotto la lettura perchè mi sentivo triste e malinconica, eppure non vedevo l’ora che questo sentimento si
affievolisse per poter portare a termine il capitolo. Questo perchè la storia rivela speranza e ciò porta a sopportare questa sensazione di disagio, protagonista della vita dei personaggi.
La narrazione mi ha quindi portata a fare un viaggio tra i sentimenti, le emozioni e le oscurità che si incontrano tra l’adolescenza e i primi anni della vita adulta. Gli amori, le amicizie, lo studio, il sesso, la consapevolezza di se stessi. In ogni esperienza che vive, il protagonista appare talmente reale e vivo che si rivela essere tremendamente umano. Ci rivela tutto, ogni singolo pensiero o sentimento, da quello più timido e ingenuo a quello più spinto e perverso.
Uno dei miei passaggi preferiti è il discorso tra Watanabe e Midori, quando lei gli racconta del club di musica folk a cui si è iscritta all’università e della sua sensazione di non appartenenza e disagio perchè si sente giudicata e viene presa di mezzo perché considerata intellettualmente e culturalmente inferiore rispetto agli altri:
– “Come è possibile che non capisci queste cose? mi dicevano. Come pensi di vivere senza un’idea nel cervello? Ma io sono quella che sono. Non sarò una persona intelligente. Sono una persona comune. Ma sono anche le persone comuni quelle che sostengono la società, e quelle che vengono sfruttate? E sbandierare di fronte alle persone comuni parole che non possono capire me lo chiamate rivoluzione? Trasformazione della società? Io vorrei fare veramente qualcosa per migliorare le condizioni della società. E credo che se ci sono veramente persone sfruttate bisogna mettere fine a questa cosa. E non è proprio per questo che facevo domande cercando di capire?
–Sí, credo di sí.
–Allora pensai: questi sono solo una massa di mistificatori. Si compiacciono di usare paroloni difficili a effetto per suscitare l’ammirazione delle ragazze appena entrate all’università, e in realtà pensano solo a infilare le mani sotto alle gonne. Poi quando arrivano al quarto anno si tagliano i capelli, trovano un bell’impiego alla Mitsubishi, alla TBS, all’IBM o alla Banca Fuji, si prendono una moglie carina che non ha mai letto una parola di Marx e affibbiano ai loro bambini i nomi piú pretenziosi che trovano. Altro che «Distruzione della cooperazione università-industria!» C’è da piangere dalle risate. Gli altri appena iscritti come me neanche a parlarne. Anche se non avevano capito un bel niente facevano la faccia di chi ha capito perfettamente ed è dalla parte giusta. E poi in privato mi dicevano: «Non fare la scema, anche se non capisci basta che dici “sí, sí” o “ah, ma davvero!” e tutto andrà bene».
[…] Tutta l’università è piena di questi ipocriti. Passano la loro vita tremando, nel terrore che gli altri possano scoprire che non hanno capito qualcosa. E naturalmente leggono tutti gli stessi libri, si riempiono tutti degli stessi paroloni, ascoltano tutti John Coltrane e si esaltano con i film di Pasolini. Sarebbe questa la rivoluzione?
-Non chiedere a me. Non mi è mai capitato di vederne ”