(Foto: Bruno Neri rifiuta il saluto romano nel corso dell’inaugurazione dello Stadio “Giovanni Berta” di Firenze, 1931)
C’è Armando, che morì con la tessera della Fiorentina nella tasca della divisa. C’è Carlo, che preferì immolarsi, pur di non veder morire il padre. C’è Rino, che con la banda più multietnica che si potesse immaginare al tempo fece tremare la Francia occupata, prima di essere giustiziato.
È lunga, la lista dei calciatori che quasi ottant’anni fa scelsero di non omologarsi e di dire no, forti anche del loro ruolo di esempi (non ancora così marcato come oggi, ma certamente già rilevante). Preferirono morire per la libertà, nonostante lo status raggiunto garantisse loro, in molti casi, la tutela da parte del regime.
L’elenco dei campioni morti perché in dissenso, più o meno accentuato, con il regime fascista è molto ampio, ma le storie che racconta sono tutte a modo loro eccezionali.
Quella di Bruno Neri, ad esempio, è la storia di un antifascismo lungo vent’anni, maturato sui campi di calcio e giunto a compimento sulle montagne tosco-emiliane. Nato a Faenza nel 1910, Bruno fu un mediano di qualità, molto apprezzato per lo spirito al sacrificio. Collezionò quasi 200 presenze alla Fiorentina, che lo aveva acquistato per 100mila lire, prima di trasferirsi a Lucchese e Torino, con cui riuscì anche a guadagnarsi la convocazione nella nazionale italiana in tre occasioni.
La storia, però, la fece come “Berni”, il nome di battaglia assunto una volta entrato nel Battaglione Ravenna. Morì in uno scontro a fuoco con i fascisti il 10 maggio 1944, presso l’eremo di Gamogna. Il seme dell’antifascismo, però, Bruno lo aveva già gettato nel 1931, quando di fronte ad una folla estasiata per l’inaugurazione del nuovo stadio di Firenze rifiutò di alzare il braccio per il saluto fascista alle autorità. Un gesto immortalato in una foto che divenne da subito simbolo di lotta.
Nella sua breve parentesi a Lucca, “Berni” conobbe Arpad Weisz, ungherese di origine, ebreo di famiglia, che negli anni Trenta aveva fatto molto parlare di sé come allenatore del Bologna, vincitore di due scudetti e di cui si disse “che tremare il mondo fa”. Arpad fu vittima delle persecuzioni razziali, si rifugiò nei Paesi Bassi ma fu catturato e morì ad Auschwitz il 31 gennaio 1944. La sua grandezza sportiva, però, ne ha reso eterno il mito.
Fu un sacrificio, invece, quello di Carlo Castellani, forse fra i più noti calciatori caduti per la libertà, essendo il suo nome legato allo stadio di Empoli. Proprio dell’Empoli degli anni Venti e Trenta fu attaccante simbolo, realizzando 61 reti in maglia azzurra. Simpatizzante socialista, Carlo aveva ereditato la passione politica dal padre e prima ancora dal nonno David, dichiaratamente socialista e, secondo i repubblichini, mente dello sciopero generale indetto dal Cln nel 1944.
In risposta a quello sciopero le Brigate Nere organizzarono un rastrellamento, che aveva lo scopo di raggiungere e giustiziare lo stesso David. Alla retata, però, si presentò il nipote Carlo, autoaccusandosi al posto del nonno e del padre. Fu arrestato e deportato al campo di concentramento di Gusen, dove morì di dissenteria pochi mesi dopo, l’11 agosto 1944.
Carlo amava il calcio, a cui dedicò la sua breve vita, proprio come Armando Frigo, centrocampista, nato negli Stati Uniti da famiglia italiana e morto per combattere il nemico nazista. Giocò per Vicenza, Fiorentina e Spezia, prima di diventare ufficiale del Regio Esercito. Dopo l’8 settembre 1943, Armando, che si trovava in Dalmazia, combatté da eroe insieme ad altri 39 soldati per difendere la città di Crkvice: resistette per un lungo mese, favorendo l’avanzata della Brigata Alpina Taurinense, prima di soccombere alla Wermacht, che lo fucilò il 10 ottobre 1943, dopo un processo sommario.
Nel portafoglio sottratto al suo cadavere fu rinvenuta, come primo oggetto del caduto, la tessera da calciatore della Fiorentina di Armando. Armando amava il calcio, simbolo di libertà.