Perché è importante, anzi, necessario, raccontare? Che senso ha, di fronte a tutto ciò che accade nel mondo, andare alla ricerca di una storia, che è una vita, con un registratore in mano e un po’ di imbarazzo in volto, per mettere per iscritto quello che è accaduto a qualcuno?
Mi è sempre sembrato che fosse da fare, che ce ne fosse bisogno.
Ed è mentre ero alla ricerca di risposte che ho conosciuto il nuovo progetto di Gabriele Del Grande.
Mio figlio mi tradirà.
La prima volta me lo disse un partigiano siriano ad Aleppo. Era una notte di Settembre di tre anni fa. Chiusi dentro uno scantinato di Ashrafiyya durante un bombardamento, ingannavamo il tempo con una buona bottiglia di araq, mentre fuori, feroce, infuriava una guerra sempre più insensata. Insieme, condividevamo molto di più del rischio della vita. Condividevamo il sogno della rivoluzione e della fine dalla dittatura. Un sogno che però stava prendendo la piega di un incubo.
“Facile giudicare da fuori. Facile scappare all’estero e dire che dovevamo continuare con le manifestazioni. Hanno ammazzato migliaia di persone nelle manifestazioni e altrettante le hanno fatte fuori in prigione! Cosa dovevamo fare ancora? Lasciarci ammazzare tutti? Andare con le rose davanti ai carri armati? Ditelo a chi ha perso i figli sotto le bombe! A chi è stato torturato per mesi! A chi ha perso gli amici più cari! La lotta armata era l’unica cosa giusta da fare. Eppure, guarda dove ci ha portato…”
Quella sera, il partigiano non era sceso al fronte. Né ci sarebbe andato l’indomani. “Quando ho impugnato le armi contro Asad sapevo di andare incontro alla morte. Ma ho sempre pensato che sarei morto felice, che sarei morto combattendo per la libertà, che il sacrificio della mia vita sarebbe servito a dare un futuro migliore a mio figlio.”
Sulla parola figlio andò in crisi. Mordersi il labbro inferiore fu inutile. Gli occhi erano già pieni di lacrime. Con un gesto di stizza buttò la pistola sul tavolo e si abbandonò ai singhiozzi coprendosi il volto con le mani nude. Quindi, dopo un lungo respiro, mi fissò finalmente sincero e disse:
“La verità, Gabriele, è che morirò invano. Perché mio figlio mi tradirà! Sarà solo a piangere sulla mia tomba e per vendicare il mio sangue e il sangue di mezzo milione di morti di questa guerra maledetta, verrà a seminare la morte in Europa. E quando si farà esplodere in un aeroporto e ucciderà i tuoi figli, tu non potrai biasimarlo perché siete rimasti indifferenti per anni mentre qua massacravano noi.”
Avrei voluto rispondergli qualcosa, fare dei distinguo… Invece niente. Mi scolai il bicchiere e rimasi in silenzio a pensare. Nelle sue lacrime leggevo la sconfitta di un intero popolo. E intuivo che quella sconfitta sarebbe presto diventata la mia e la nostra. Era soltanto una questione di tempo. Perché tutto è legato in questo piccolo mare.
Una questione personale.
Un mese dopo, di ritorno in Italia, mi improvvisai contrabbandiere. Insieme ai miei fratelli Antonio Augugliaro e Khaled Al-Nassiry, insieme alle nostre compagne e ad un gruppo di carissimi amici mettemmo in piedi un finto corteo di nozze per portare in Svezia cinque amici palestinesi e siriani da poco sbarcati a Lampedusa. Filmammo tutto e ne venne fuori “Io sto con la sposa”, una delle più grandi avventure formative della nostra storia e della storia delle migliaia di persone che ci aiutarono a produrre e a distribuire il film.
Era la mia personale risposta al partigiano di Aleppo. Non eravamo tutti indifferenti. Potevamo ancora fare qualcosa. Potevamo vivere insieme e insieme ridere e piangere e lottare. Fu un successo insperato: centinaia di migliaia di spettatori nei cinema di cinquanta Paesi e milioni di telespettatori sul satellite in tutto il mondo. Un successo che fin dall’inizio mal sopportavo. Perché sapevo che non avremmo salvato una sola vita.
Non basta una sposa.
Il mio senso di impotenza cresceva col passare del tempo. L’uscita del film nelle sale coincideva con la fase di massima espansione dello Stato Islamico in Iraq e in Siria. Mentre sfilavamo sul red carpet di Venezia, erano ancora fresche le notizie dei massacri degli yazidi in Iraq. Gli Stati Uniti, presto seguiti da Francia e Gran Bretagna e da una coalizione di paesi arabi, si decisero a bombardare Mosul e Raqqa.
La reazione dell’Isis fu brutale.
La profezia del partigiano di Aleppo si era avverata. La guerra era uscita dai confini della Siria. Il sangue aveva portato altro sangue.
Ma guai a scomodare la storia, a parlare della sporca guerra, dei suoi eserciti e delle sue tattiche. I commentatori nostrani sanno soltanto sciorinare a memoria il verbo dello scontro di civiltà e il rassicurante quanto vuoto racconto della lotta del bene contro il male, dell’umanesimo contro la barbarie. D’altronde nessuno di loro ha mai messo piede in Siria, nessuno ha mai visto la guerra né ha mai parlato con i diretti interessati.
Salvare una storia.
(…) Da quel viaggio sono tornato con un registratore pieno di interviste, un centinaio di pagine di sbobinature, un mare di domande nella testa e l’urgenza, mai così forte, di tornare a scrivere.
Mi sembra l’unica cosa sensata da fare. Dopotutto con “Io sto con la sposa” non avremo salvato una sola vita, ma è pur vero che abbiamo salvato una storia. E col senno di poi ha lo stesso valore. Perché abbiamo contribuito a tenere in piedi un orizzonte verso cui camminare, a tramandare un discorso sull’umanità di questo nostro Mediterraneo, sulle sue sfumature, la sua storia e il suo futuro possibile, in cui riconoscerci. Adesso si tratta di fare lo stesso.
Il libro che ho in mente racconterà la guerra in Siria e la nascita dello Stato Islamico attraverso un grande progetto di giornalismo narrativo che intrecci l’epica della gente comune alla storia di questi vent’anni di guerre e terrorismo.
Perché di Isis si parla ogni giorno, ma in pochi ci hanno davvero capito qualcosa. Chi sono gli uomini e le donne che a migliaia si arruolano per difendere il Califfato? Chi sono i civili rimasti nelle loro città? Ma soprattutto: come si è arrivati a tutto questo?
È quello che mi chiedo ed è quello che vorrei provare a raccontare nel libro, mischiando geopolitica e storytelling, analisi e ritratto in una sorta di romanzo del reale.
Grazie alla campagna di crowdfunding che ha lanciato online per il suo libro, Gabriele ha raccolto 47908€ con 1341 sostenitori.
Ho dovuto tagliare alcune parti della sua presentazione, ma se vi restano dieci minuti trovate tutto qui https://www.produzionidalbasso.com/project/un-partigiano-mi-disse/