Il nome di Arthur Schopenhauer (1788-1860) è abbastanza noto per chiunque abbia avuto la possibilità di sfogliare, almeno una volta nella vita, un manuale di filosofia del liceo. Ma non per forza è richiesta una preparazione liceale per conoscerlo, data l’influenza detenuta dalle sue opere sul pensiero occidentale moderno e contemporaneo. Uno dei temi per cui viene maggiormente ricordato è indubbiamente il pessimismo, divenuto iconico, per certi versi, anche nella cultura di massa. 

Nel Mondo come volontà e rappresentazione, Schopenhauer introduce il concetto di Velo di Maya, mutuato dai Veda, complesso di testi sacri della religione induista. Con esso, il filosofo tedesco vuole riferirsi alla parete invisibile che divide noi, che stiamo in una realtà sensibile e illusoria (tecnicamente, fenomenica), dalla dimensione della verità che sta dietro a questo Velo, (noumenica, secondo la distinzione kantiana, ma non scenderemo in ulteriori dettagli teoretici), dove risiede l’essenza vera delle cose. Per Schopenhauer, la realtà in cui stiamo è ingannevole, non diversa da quella dei sogni. 

Il cinque aprile di quest’anno è uscito MĀYĀ, il secondo album in studio del produttore milanese Simone Benussi, in arte Mace, classe 1982.
Mace cresce nell’ambiente hip-hop del capoluogo lombardo, dove inizia a muoversi praticando l’arte del writing. Poco dopo, ha inizio la sua attività di produttore musicale, che lo porta a un sodalizio artistico con il rapper Jack The Smoker. Il duo, noto col nome di La Créme, rilascia nel 2003 il disco d’esordio L’alba, oggi considerato un caposaldo del genere in Italia. Successivamente, Mace si stacca dalla sfera hip-hop avvicinandosi ai generi funk ed elettronica. In un lungo percorso che lo porta anche fuori dallo Stivale (Gran Bretagna, Stati Uniti, Giappone, Australia), il produttore accumula una vastissima esperienza musicale e non, capace di incidere vistosamente sul suo immaginario e sul suo bagaglio artistico.
Una volta rientrato in Italia, Mace torna a collaborare con gli artisti della scena rap. Tra gli altri, meritano di essere citati almeno “Chic”, l’iconico singolo che ha lanciato la carriera di Izi, rilasciato nel marzo 2016 e prodotto con Shablo, oppure “Pamplona”, hit estiva del 2017 di Fabri Fibra con i Thegiornalisti. Dopo altre svariate collaborazioni, nel 2021 Mace si prepara a rilasciare il suo primo disco da solista, OBE, anticipato dal singolo, decisamente riuscito (ad oggi sei dischi di platino), “La canzone nostra”, con Blanco (letteralmente scoperto e lanciato nella scena da Mace) e Salmo. Il disco riscuote un buon successo in Italia, e verrà seguito, l’anno successivo, da Oltre, un progetto controcorrente, composto da sole strumentali che oscillano tra la musica elettronica e la musica psichedelica. 

Arriviamo quindi al 2024. Tra febbraio e marzo escono due nuovi singoli: “Non mi riconosco” (con Centomilacarie e Salmo) e “Ruggine” (con Chiello e Coez). Bisogna aspettare i primi di aprile perché veda la luce MĀYĀ, il nuovo album, composto da sedici tracce e arricchito da numerose collaborazioni del mondo urban e pop italiano.  

L’aspetto che va sottolineato, riguardo alle collaborazioni, è il modus operandi scelto dal produttore per lavorare insieme agli altri artisti. Puntando a uno spontaneo tentativo di musica comunitaria, Mace ha deciso di riunire, per diverse settimane, in una villa nei dintorni di San Gimignano (SI), un’équipe di quindici strumentisti, coinvolgendo anche più di venti autori. Il frutto di questa esperienza condivisa è un album in cui ogni artista riesce a calarsi perfettamente sia nella propria prospettiva che in quella della guida spirituale del gruppo (si guardino i video postati dall’artista sul proprio profilo Instagram ufficiale: @macemilano). Mace si fa così sacerdote di una comunità che, muovendosi come un singolo organismo, riesce ad attraversare il velo di esperienza sensibile che separa dal livello successivo di verità. Fuori dal riferimento alla filosofia, ciò che salta fuori dal disco è la genuina intenzione del suo creatore di andare oltre le logiche del mercato musicale – un mainstream corrotto nella sua inarrestabile tendenza all’omologazione – e portare con sé sia i suoi collaboratori che i suoi ascoltatori. Così Mace in un’intervista a Rolling Stones : «Volevo che la mia musica fosse un’esperienza collettiva, mangiavamo e dormivamo nello stesso posto. Avevo come riferimento la musica di fine anni ’60, primi anni ’70 e mi sono chiesto: come facevano i dischi in quel periodo? Perché un disco dei Funkadelic è così speciale, non solo a livello tecnico? Perché da come interagiscono gli strumenti tra di loro si capisce che hanno suonato tanto insieme e oggi questa cosa manca». 

E la ricerca di collettività arriva ad accordare ogni singolo filo del tappeto musicale cucito puntigliosamente dal produttore: nulla ha scampo, dai più fini dettagli strumentali alla scrittura dei testi. «Sono mezzo psicologo e mezzo compositore. Mi piace parlare molto con gli artisti prima di registrare, un po’ perché la parte bella del lavoro è conoscersi e un po’ perché quello che ci diciamo influenza il loro lavoro sui testi» ha affermato, sempre a Rolling Stones. Esemplari, a mia detta, possono essere i testi di “Solo un Uomo” (scioccante nella sua essenzialità, di mano dell’emergente Altea, la cui voce si inserisce sinuosamente nella melodia), o di “Meteore” (in particolare la strofa di Izi, ben ritrovato dopo un lungo silenzio musicale):

 

Solo un uomo (feat. Altea)

[Strofa 2]

La carne cede allo smarrimento

Preda indifesa dell’inganno

[Ritornello]

Sei solo un uomo

Sei solo un uomo

[Strofa 3]

Siamo caduti tutti nella tua trappola

Di giorno tessi, di notte poi fai pratica

E non ti volti a guardarmi annegare

Non sono offesa

Perché sarò piuma

E poi sarò pietra

Perché sarò piuma

E poi sarò pietra

 

Meteore (feat. Gemitaiz, centomilacarie, Izi)

 

[dalla strofa 3: Izi]

Siamo tutti fuori in ‘sta scatola ermetica

Oggi esco coi fiori e la tuta mimetica

Viviamo in guerra, l’amore ci uccide

Se mi ami davvero, ora abbassa il fucile

E invece che dirmi di essere felice

Piuttosto tu insegnami come si fa

‘Sta vita mi lascia il tuo buco nel petto

Se tu vuoi riempirlo, mo spara il proiettile, sparami in fronte

 

E’ interessante indagare il modo in cui i featuring e Mace si siano allineati lungo rette parallele, pur ognuno rimanendo nel proprio ambito e nel proprio stile musicale: In particolare, riguardo al tema della trascendentalità, intesa come elevazione da una condizione terrena, immanente – un superamento del velo di Maya, per riferirsi ancora alla filosofia; esso è uno dei filoni portanti del concept del disco: se da una parte troviamo le sonorità trap di “Praise the Lord”, che conducono l’argomento verso la sfera di alterazione dei sensi in contrapposizione alle pratiche della fede cristiana, dall’altra troviamo il ritornello di “Strano deserto”, cantato da Cosmo, che apre sontuosamente la strada a un drop elettronico dal sapore mistico, quasi ascetico. 

A chiusura del tutto, abbiamo “Il velo di Maya” – qui esplicitato nel titolo dallo stesso autore –, una traccia di otto minuti in cui un impasto di suoni, rumori e melodie si accolgono spontaneamente gli uni dentro gli altri, secondo le visionarie idee del maestro, trascinando l’ascoltatore in un panorama che sembra davvero essere al di là della illusoria percezione sensoriale (a riguardo, si veda anche l’uso delle sostanze psichedeliche, ammesso e giustificato in più occasioni da Mace stesso). 

Per concludere, cito il passo di una recensione ben riuscita di Rapteratura.it : “L’ascesi musicale di Mace buca il velo, l’arte conduce noi tutti oltre le parvenze illusorie”. A più livelli, il produttore sembra voler offrire ai suoi ascoltatori una vera direzione alternativa: al mercato musicale, alla superficiale quotidianità, alla realtà che spesso si fa troppo arida, cioè quando “Tutto ciò che ci rimane è fantasia / La mia pelle ricoperta è fantasia / Le pareti che si sciolgono è magia / Smetto di rеsistere, mi perdo” (Cosmo, in “Strano deserto”).