«No man is an Island» («nessun uomo è un’isola») scriveva saggiamente John Donne nel 1624. Al contrario, l’epoca attuale è profondamente segnata da un pericolosissimo individualismo, come dimostrano i muri che si vogliono erigere, le minacce da parte di emergenti potenze mondiali, l’enorme sfiducia diffusa nei confronti delle unioni internazionali, la diffidenza nei governatori. Tuttavia, è dannoso credere che si possa andare avanti ognuno per la sua strada, perché, come ci insegnano l’essenzialità dell’esportazione volta al progresso economico, l’importanza delle collaborazioni politiche in campo commerciale e ideologico e l’arricchimento portato da miscele di diverse culture, viviamo negli e degli altri. Per natura, per l’essere umano è fondamentale vivere nella collettività ed essere dipendente dai suoi simili. Per spiegare l’interdipendenza tra i membri di una società, Hegel, massimo esponente dell’idealismo tedesco, identificava nel desiderio di riconoscimento un bisogno primitivo dell’uomo: l’essere umano, in effetti, cerca senza sosta non tanto l’approvazione, quanto la considerazione dell’altro. Come un bambino, egli mendica attenzioni, talvolta lo scontro, perché ciò che gli preme è essere visto. L’io si fa nel tu e la rinuncia, per orgoglio, indifferenza o convinzione di autosufficienza, a questo desiderio elementare produce infelicità, una delle principali cause della chiusura in se stessi.
La costruzione di relazioni personali e internazionali è un’impresa soprattutto in questo tempo, in cui l’altro è presentato come un pericolo e non come una miniera d’oro. Non ci si illuda, però, di bastare a se stessi, perché ognuno è parte di un insieme. Siamo figli per tutta la vita, mai siamo creatori di noi stessi.