Da un po’ di tempo si sta diffondendo l’uso di simboli per rendere il linguaggio scritto neutro rispetto al genere delle persone: così si scrive, ad esempio, tutt* oppure tuttə. Una scelta che mi ha sempre lasciato profondamente dubbiosa e molto critica, soprattutto perché, forse paradossalmente, io, donna, mi sento più inclusa dal termine tutti che dal termine tutt*, impronunciabile e quindi dal significato inimmaginabile.
Occorre un ripasso della biologia umana. A livello biologico e genetico, il sesso degli esseri umani può essere o maschile o femminile: l’identità sessuale può quindi essere solo di due tipi, e caratterizza il corpo e i comportamenti della persona, dato che i livelli ormonali sono diversi nel maschio e nella femmina. Dunque il sesso è normalmente un dato di fatto, oggettivo e incontrovertibile. Ora sento già le voci di protesta di chi dice che invece nascono bambini e bambine il cui sesso non è chiaro: sono gli ermafroditi, e rappresentano casi di anomalie genetiche. Non sono la normalità e in nessun modo mostrano che esista un terzo sesso: sarebbe come dire che normalmente gli esseri umani possono essere indifferentemente ciechi oppure vedenti, dato che capita che nascano persone cieche. Detto ciò, la persona non è determinata solo dal sesso, ma anche dalla propria identità di genere. Il genere è la percezione, culturalmente influenzata, che ogni persona ha di sé: tendenzialmente sesso e genere coincidono («sono femmina e mi sento donna»), ma talvolta si delinea uno scarto che può essere doloroso e che può portare a operazioni chirurgiche e ormonali per cambiare il proprio sesso («ero femmina, ma mi sentivo uomo; ho deciso di cambiare il mio sesso per diventare maschio»). Ma il genere non è solo binario: ad esempio le persone androgine non si sentono né uomini né donne, e altre persone cambiano percezione di sé nel corso della vita. Ancora un chiarimento: l’ermafroditismo fa riferimento a un problema genetico sessuale, l’androginismo è un elemento culturale e sociale di genere. Qui un articolo de Il Post per capire meglio queste distinzioni: https://www.ilpost.it/2017/07/05/identita-di-genere/.
Ecco quattro ragioni che mi fanno dubitare di questa abitudine linguistica:
- Se si vuole rendere il linguaggio inclusivo di maschi e femmine, è sufficiente rivolgersi a una platea mista con tutti e tutte, ad esempio. È quindi evidente che l’operazione che si vuole portare a termine è includere non il sesso, ma i diversi generi. In altre parole: dato che alcune persone non si sentono incluse neanche da tutti e tutte in quanto non si sentono né maschi né femmine, occorrerebbe lasciare spazio a molteplici possibilità e parlare di tutt*. Il punto è questo: l’identità di genere è determinata, come abbiamo detto, dalla percezione di sé, che è qualcosa di profondamente intimo e privato, talvolta doloroso e inaccettabile. Ma è pur sempre una percezione di sé. Come può il linguaggio adattarsi alle emozioni e alle percezioni che le persone hanno di sé? Facciamo un esperimento mentale. Immaginiamo che esista un gruppo di qualche milione di persone che porta all’estremo il darwinismo e ritiene che non si possa parlare di esseri umani, ma solo di animali: quelle persone percepiscono sé e gli altri come animali, alla stregua dei cani e dei gatti. Rivendicano quindi che il linguaggio abolisca dai dizionari i termini essere umano, umanità, uomo ecc., e che per riferirsi agli uomini si usi solo il termine animale. Qualcuno li ascolterebbe? Io non credo. E perché? Innanzitutto perché il linguaggio non può essere cambiato a tavolino, sulla base di proposte di singoli gruppi; e poi perché, molto onestamente, sarebbe troppo complicato (seppure il fatto che l’essere umano sia un animale sia una questione oggettiva e non solo legata alla percezione di sé). E qualcuno riterrebbe che non ascoltarli sia discriminatorio? Probabilmente no.
- Come comportarsi con tutti quei termini che di per sé indicano un maschio o una femmina in modo esclusivo? Pensate alle parole fratello, sorella, suora, prete: se la sorella di qualcuno si sente androgina, dovrei inventare ex novo una parola apposta, secondo questo ideale di linguaggio inclusivo. Ma perché, facendo riferimento sia al sesso femminile sia all’identità di genere, sarei politicamente scorretta se parlassi della «sorella androgina»? Pensate anche agli articoli determinativi, il, lo, la, i, gli, le: dovrei forse scrivere *l* oppure, per il plurale che sarebbe un misto impossibile tra i e le, direttamente *? E come pronunciare queste parole a cui non potrei semplicemente togliere la desinenza?
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C’è ancora una ragione per cui questo esperimento linguistico mi sembra ridicolo. La difficoltà, se non l’impossibilità, di riuscire in questo tentativo anche solo quotidianamente e in prima persona emerge da alcuni testi scritti sui social, che il più delle volte iniziano con un ciao a tutt* e proseguono con termini come qualcuno, giovani, adulti. Questo dimostra che è impossibile cambiare la struttura di una lingua già costituita. Impossibile. Per farlo si dovrebbe creare dal nulla una nuova lingua che ammetta il maschile, il femminile e il neutro, com’era in latino. Nel passaggio dal latino ai volgari italiani il neutro si è perso per volontà di semplificazione, in un modo graduale e molto spontaneo: nessuno ha imposto di eliminare il neutro. Così oggi non si può imporre una nuova regola che andrebbe a creare un terzo genere e che influenzerebbe tutta la lingua (si pensi appunto agli articoli determinativi e ad altre parole, come quelle analizzate prima). Diverso è il discorso sui nomi delle figure professionali: lì il mutamento sta accadendo perché è molto più semplice e non strutturale e perché nomi di figure professionali declinati al femminile e non solo al maschile ci sono sempre stati (maestra, professoressa, sarta). In quel caso si tratta quindi di rendere più diffusa un’abitudine linguistica già presente qui e là.
- Sembra che molte persone abbiano iniziato a usare l’asterisco più per moda entusiastica che per una ragione seriamente giustificata e ponderata. L’asterisco pare ormai un lasciapassare, un segno distintivo dell’inclusività, un segno di riconoscimento: «anche tu usi l’asterisco, allora sei inclusivo come me!». Forse è una difficoltà personale, ma la realtà mi ha sempre portato a diffidare delle mode nate sui social, soprattutto di quelle che portano a divisioni della massa in due fazioni, pro e contro.
Insomma, siamo di fronte a un’operazione folle e impossibile. Un’operazione che non tiene conto dei limiti cognitivi dell’essere umano, che non può avere successo in questa impresa titanica. Nel Novecento Ludwig Wittgenstein, grande filosofo del linguaggio, ragionò su quanto a fondo possiamo andare nelle ricerche delle cause che regolano il linguaggio e concluse che possiamo capire quali regole reggono il nostro gioco linguistico, ma non possiamo scendere fino alla causa prima per cui quelle regole sono state inventate. E così ha prodotto uno dei passi più belli e disarmanti dell’intera storia della filosofia:
Quando ho esaurito le giustificazioni arrivo allo strato di roccia, e la mia vanga si piega. Allora sono disposto a dire: «Ecco, agisco proprio così». (Ricordati che qualche volta chiediamo spiegazioni più per la forma della spiegazione che per il suo contenuto. La nostra è una richiesta architettonica: la spiegazione è un finto cornicione, che non regge nulla).
La mia vanga, a un certo punto, si piega. Effettivamente mi sentirei senza forze se dovessi produrre anche solo una frase con strani simboli, il che mi dispiacerebbe, perché baderei più alla forma che al contenuto. La forma è importante, si sa, ma in materia di discriminazione credo sia più importante il contenuto: se oggi il vocabolario ammettesse il termine ministre senza che le donne potessero esserlo o senza che avessero il diritto di voto, l’umanità avrebbe fallito; che le donne abbiano da quasi settant’anni il diritto di voto anche se si continua a dire ciao a tutti mi pare un successo. Se tra cinquant’anni gli androgini e i transessuali non saranno discriminati sul posto di lavoro o a scuola e avranno adeguati sostegni psicologici nei casi di sofferenza e di rifiuto della propria condizione, anche se si dirà ciao a tutti e tutte, penso che l’umanità avrà raggiunto un importante traguardo.