Aggrapparsi a un racconto con le mani sporche di terra. Non conosceva altra ispirazione che i granelli tra le dita sporche, di chi ha appena smesso di falciare un campo o di accarezzarne l’erba. Quando si sedeva e davanti scopriva la macchina da scrivere, sentiva i brividi camminargli sulla pelle scura. Non aveva bisogno di fare lo scrittore per sentirsi uomo, si diceva: possedeva la campagna, con i suoi ritmi, le sue promesse, la terra bagnata e la nebbia di certe mattine, a ricordarglielo. La macchina da scrivere lo spaventava, invece, di un silenzio indolenzito, di quelli che promettono parole che già dimenticano. Gli sembrava di non aver più nulla di cui scrivere, ora che non stringeva in mano niente della sua terra, nemmeno un frutto ammaccato o un taglio profondo e ormai secco.
Ogni giorno scoprì la terra fra le dita, i granelli gocciolanti sulla scrivania abbandonata e la storia che si muoveva dentro al ritmo di un aratro.
Aveva una nipote, ne aveva quattro. La più grande scriveva, per quello a volte si scopriva ad osservarla. Prima di scrivere con la penna, lei componeva nella mente e raccontava con espressioni del viso, che talvolta incutevano terrore. Lui la guardava e segretamente indagava ciò che si celava oltre il fitto aggrovigliarsi di muscoli, dietro la deformazione di un viso gentile.
Lei guardava lui mentre mieteva, o puntava verso il cielo, a un uccello o al sole tiepido (lei non capiva), il fucile. Lo vedeva camminare con calma schiva e attenta, guardare oltre i limiti di un cortile disordinato, oltre la cancellata che si usava da piccoli per giocare a pallavolo tra cugini. Il nonno in cammino l’arricchiva di realtà sconosciute, che mai le raccontava, ma che lei leggeva muoversi nei suoi passi misurati, mai uno più lungo dell’altro, come contati minuziosamente, per non perderne nessuno sulla strada. Eppure il senso, quella verità assoluta e vertiginosa che avvertiva nella ghiaia sotto i piedi di lui, le restava celato, in un grido d’aiuto mai lanciato. E così guardandosi e arrendendosi, si invidiavano e vicendevolmente provavano una venerazione che aveva il sapore dolciastro del desiderio.
Lei voleva macchiarsi di terra, lui di inchiostro. Lei nella terra si sporcava con violenza, lui nell’inchiostro sprofondava per sfogo. Ma a nessuno dei due apparteneva il profumo dell’altro. Senza saperlo sognavano una terra più scura e un inchiostro più denso, percorso da granelli di sabbia. Sognavano di scrivere di campagna, ma a volte taceva la scrittura, a volte la campagna. Se intuivano quel legame segreto di pienezza e mancanza nel loro non dire, nel loro osservare, nessuno seppe mai. Loro mai chiedevano, o spiegavano.
A volte, però, dalla finestra al primo piano, seduta al tavolino rigato su cui scriveva, lei si scopriva a guardare lontano, un paese, le case, terra secca e frutteti, e più in basso, da un orto in bilico su di un piano inclinato, lui guardava lo stesso. Poi si voltava e lei abbassava gli occhi. Si incontravano allora, e entrambi capivano, in un tremolio delle labbra, un sorriso inespresso.
Poi lei riafferrava la penna, lui riprendeva l’aratro.
Simona Bianco