La storia non insegna. La storia non mostra, non spiega, non chiarisce. È lo solo la pubblicità che sta dietro il nostro parlare troppo spavaldo davanti al mondo. La storia non ci fa sedere allo stesso tavolo, non ci fa vedere che anche noi possiamo sbagliare. Non mostra come ogni nostra azione può avere una conseguenza. O almeno, ci prova, ma invano. Sì, la storia la fanno gli uomini, ma non nel senso di compiere grandi imprese, conquistare nazioni, trovare vaccini. L’uomo fa la storia perché deve credere di poter imparare dalle proprie azioni, dagli sbagli che ha fatto. La guerra arabo-palestinese è solo uno dei tanti esempi di questa sorta di eterno ritorno. Sembra quasi di vedere un film già visto al cinema: conosciamo talmente bene il finale da non poterne godere la visione. Sappiamo a cosa la guerra porti, il suo epilogo infatti non cambia, eppure continuiamo imperterriti in questa direzione sperando che ci possa essere un qualche colpo di scena. Ma non esiste. Siamo noi, esseri umani, che continuiamo a farci guerre a vicenda nella speranza di arrivare ad un bene supremo, credendo di poter migliorare, di cambiare la situazione. Ma quale può mai essere questo bene supremo, se siamo noi a doverne pagare le conseguenze con le vite perse? Non c’è vittoria, non c’è pace, perché alimentiamo una guerra perenne, cerchiamo sempre una motivazione valida per poterci attaccare l’un l’altro e mostrare che valiamo di più, che c’è dell’altro da conquistare, ma poi? Nulla. Non rimane nulla, eppure noi continuiamo imperterriti quasi ci fosse un premio un premio, allontanandoci sempre di più da quello spirito di concordia che tanto auspichiamo dall’alba dei secoli.
Siamo noi la storia, e siamo noi la guerra, e non siamo “magistri” di nulla se non di come essere meschini. Proprio come diceva Bertolt Brecht, ci sarà sempre una guerra, e non sarà la prima, né l’ultima: non sapremo come sarà, ma sapremo che alla fine dei conti ci ritroveremo tutti ad “ammirare” le macerie di cosa abbiamo compiuto, sperando di trovare un piccolo fiore di Picasso in un’opera in bianco e nero. Siamo il secolo della guerra, siamo quelli che la vedono in TV e non si scandalizzano nemmeno più, che non provano emozione davanti al dolore del mondo ma anzi talvolta ci ballano sopra. La consapevolezza più amara sta nel conoscere i nostri limiti, la nostra ignoranza e nel temere di non poter migliorare, di non poter cambiare la situazione, di non capire che siamo tutti umani e che non c’è guerra che risparmi un cuore. Non c’è guerra giusta, non c’è una singola ragione per attaccare un nostro simile, un nostro fratello. Ma la terra è questa gabbia infernale, e cosa non sono gli uomini se non animali assetati di potere? Vogliamo tutti la “vita eterna” e pensiamo che veramente questa sia raggiungibile tramite una pistola o una bomba atomica? Dovremmo pensare che, per quanto la rabbia sia il motore dei nostri giorni, potremo, alla fine, migliorare. Ma dovremmo farlo davvero, senza scuse.
Bisognerebbe pensare a quale sarà la terra che verrà dopo di noi, a cosa dovremo andare incontro, quali vite potremo cambiare, quali principi dovremo abbattere. E anche quando la battaglia sembrerà inevitabile, cerchiamo, seppur disperatamente, un ultimo fiore, un dipinto, che ci possa far capire che non siamo solo uomini, siamo anche fratelli.