La necessità di sopravvivere e secondariamente la curiosità del vedere cosa c’è oltre hanno spinto l’uomo a migrare. È sbagliato sostenere che le migrazioni sono un’emergenza attuale: sono un fenomeno naturale e da sempre presente, sostenuto da ragione scientifiche dimostrabili.
1000miglia ha avuto l’occasione di porre alcune domande a Telmo Pievani, professore di Antropologia ed esperto di Filosofia delle Scienze Biologiche dell’Università degli Studi di Padova, in occasione della manifestazione ScrittorInCittà 2016.
Secondo lei quali misure devono essere prese perché si possa andare nella direzione di una politica delle migrazioni universalmente sostenibile?
Secondo me bisogna iniziare a lavorare su diversi livelli. Le migrazioni sono un fenomeno che ha delle cause prossime che molto spesso sono legate a motivi politici, a conflitti o discriminazioni. È chiaro che in questo momento siamo in una situazione particolare: abbiamo una cintura attorno all’Europa che va dall’Ucraina al Medio Oriente, senza dimenticare l’Africa Settentrionale che è in una situazione di emergenza unica. Per queste ragioni milioni di persone sono obbligate a spostarsi, in virtù dunque di queste cause prossime. Ma non dobbiamo trascurare il fatto che il fenomeno migratorio è sostenuto anche da cause remote: per esempio spesso dimentichiamo che il conflitto siriano ha tra le sue concause il clima, in quelle terre c’è una siccità fuori ogni misura dovuta al riscaldamento climatico. Per intervenire in modo sostenibile bisogna iniziare a ragionare sulle cause profonde, che richiedono dei provvedimenti politici i cui effetti non possono essere misurati in tempi rapidi ma in tempi piuttosto lunghi. Quindi per esempio lavorare seriamente sul surriscaldamento climatico significa anche lavorare per mitigare il fenomeno migratorio. Se non agiamo in questo senso non possiamo aspettarci che il fenomeno migratorio migliori.
Per lei i confini istituzionali che si sono creati con il progresso sono sinonimo di limitazione o di stabilità?
Dipende, i confini istituzionali non sono positivi o negativi, sono ambivalenti. Sono retaggio storico, però oggi i confini vanno sdrammatizzati, sono un valore se diventano permeabili e motivo di confronto. Se diventano invece identitari e chiusi, a questo punto sono incompatibili con i fenomeni globali cui siamo di fronte. Inoltre dobbiamo ricordarci che le migrazioni vanno in tutti i sensi. Gli ultimi dati ci dicono che in Italia abbiamo perso 100 mila persone, siamo più ad uscire che ad entrare. Va via gente giovanissima, con un tasso di istruzione altissimo, siamo di fronte ad un’emorragia delle nostre intelligente migliori, senza che venga riequilibrata da un rientro equivalente. La mobilità umana è un fiume inarrestabile. Dipende da ogni paese difendere al meglio la propria identità in senso inclusivo, non in senso esclusivo. Quali sono i paesi che hanno saputo far fruttare al massimo l’immigrazione? Gli Stati Uniti per esempio, in certi periodi il Brasile. Sono Paesi che l’hanno regolamentata, che l’hanno gestita, l’hanno valorizzata e l’hanno fatta diventare un’occasione di sviluppo. Bisogna muoversi in questa direzione. La migrazione non va di certo fermata, né devono essere generate paure o costruiti muri. Va gestita sapendo che il migrate ha diritti e doveri. La migrazione di per sé è anche un fenomeno destabilizzante, ed anche per questo motivo va regolamentata.
Esistono prove a sostegno del fatto che il patrimonio genetico dei soggetti di diverse nazionalità presenta omologie sorprendenti, tali da dimostrare che proveniamo tutti da una sorta di comune antenato. A fronte di queste rilevanze scientifiche, come si può spiegare l’esigenza di patriottismo, di segregazione razziale che sembra essere un sentimento proprio dell’uomo?
Secondo me sul patriottismo potremmo discutere. Di recente ho fatto un convegno con Ivo Diamanti, un noto sociologo che ha fatto un’indagine sociologica sugli italiani proprio a questo riguardo: ha cercato di capire quanto il patriottismo è associato ad un atteggiamento di accoglienza. Paradossalmente è emerso come le persone con un senso patriottico forte quindi orgogliose di essere italiane erano anche quelle che non avevano paura del diverso, né di gestire l’arrivo del diverso. Sono rimasto sorpreso, non me l’aspettavo: in genere si pensa che il patriottismo sia un sentimento di difesa dei propri valori, invece non è propriamente così. Si pensi ai Paesi arcobaleno: hanno un senso patriottico ma è costituito dalla diversità incredibile di afflussi e contributi.
L’opinione comune conosce i cardini fondamentali della storia dell’uomo preistorico, che l’hanno fatto evolvere fino ad Homo Sapiens. L’uomo ha cambiato fisionomia, connotati, meccanismi biologici, alterano parametri fisiologici. Ma come sarà invece l’uomo del futuro dal punto di vista evolutivo?
È difficilissimo da dire perchè i motori dell’evoluzione classici non sono più attivi. Ormai siamo diventati globali: separarci geograficamente dando origine a nuove specie non è più possibile. La selezione naturale lavora su di noi più debolmente, perché la medicina, l’igiene, il welfare hanno reso i suoi meccanismi molto meno forti. L’evoluzione che ci aspettiamo è di tipo culturale e tecnologica, che però non è da sottovalutare perché cambia l’ambiente che poi retroagisce su di noi. Quello che stiamo vedendo attualmente per esempio nell’evoluzione della mente umana è come i bambini di oggi sono nativi digitali nel senso che nascono in un ambiente che è diverso da quello dei loro genitori e quindi pensano diversamente. Questa è un evoluzione da tutti i punti di vista: il loro cervello è fisicamente e biologicamente diverso da quello delle generazioni precedenti. Dobbiamo aspettarci questo.
Con la collaborazione di Tommaso Marro