L'alba del pescatore solitario. Foto di Paolo Julius Sceusa

L’alba del pescatore solitario. Foto di Paolo Julius Sceusa

Il pescatore stava allamando delle larve di mosca alla lenza secondaria.

Ormai sono 17 giorni che non riesco a catturare una preda che mi soddisfa. L’unica ragione che mi spinge ad alzarmi tutte le mattine all’alba, a prendere i pochi attrezzi che mi servono e a partire alla volta del blu ignoto era il ricordo della sensazione provata quando ho catturato il mio primo pesce impegnativo. Ahhhhhh che bel ricordo. La sensazione di sentirsi capaci. Mi ricordo quando dopo un’ultima tirata ero riuscito ad issare il pesce a bordo. La sua bellezza era rara: le squame riflettevano la luce del sole ad intervalli irregolari, che seguivano il confuso dimenarsi del pesce fuori dall’acqua. Quel giorno sono tornato col sorriso cucito sul viso e il cuore pieno di soddisfazione.
Ma mentre penso al passato mi pungo con l’amo. Accidenti che scemo. Mi metto il dito in bocca e continuo a trafficare con la lenza secondaria. Ma non sono concentrato, perché il desiderio di riavere a che fare con un avversario all’altezza mi porta continuamente a lanciare sguardi curiosi alla lenza primaria. La guardo con attenzione e mi immagino di vedere la punta della canna incurvarsi verso il mare. Una volta, due volte, quasi come fosse un inchino fra la canna e il pesce prima dell’inizio di una danza mortale. Ma all’improvviso realizzo: non me lo sto immaginando! La canna si sta muovendo! Dannazione, al diavolo la lenza secondaria! La getto lontana da me e mi fiondo sulla canna primaria. La punta si è mossa varie volte già, ma sono state tutte toccate molto leggere. Ci vuole un affondo più marcato per poter cominciare a combattere con il pesce. Ma il pesce non si fida, ha visto numerose volte i suoi simili venir ingannati e distrutti in quella maniera.

Gli occhi del pescatore brillavano mentre scrutavano la punta della canna.

Finalmente la punta si inchina con violenza e come risposta io do un bello strattone alla canna, portandola verso di me. Ora io e il pesce siamo connessi, siamo una cosa sola. L’emozione inizia a salire, come sarà? Riuscirò a vincerlo? Riuscirà a raggiungere le mie aspettative?

Tolgo la canna dal suo sostegno ed inizio a girare la manopola del mulinello. Diamine se è forte! Mi tocca allentare la frizione, altrimenti tutto questo suo tirare finirà per spezzare la lenza. E’ pieno di energie e sento che si prende metri e metri di lenza. Ma ad un certo punto si ferma, forse stanco e lì capisco che è il mio turno. Inizio ad avvolgere la lenza col mulinello e ci metto il massimo dell’impegno. Passano i minuti, le decine di minuti, le quarto d’ore: la lotta è fantastica, l’adrenalina più alta che mai. La sensazione di essere in sintonia con esso è rinfrescante.

Sono di nuovo io a tirare, ad avvolgere il filo così che la distanza fra me e lui diminuisca, ma ad un certo punto la canna si inceppa e un’improvvisa virata del pesce fa curvare l’attrezzo così tanto che per pochi centimetri non graffia il pelo dell’acqua. Riesco a raggiungere la leva della frizione e la sgancio; il pesce prende corda e tutto si salva.

La paura che la lenza si spezzasse allagò il cuore del pescatore: non voleva perdere questo pesce.

Piano piano con più tenerezza, il nostro scontro continua. La mie gambe si sono fatte molli; mi ricordo che devo respirare e con calma espiro ed inspiro. Cautamente inizio a riserrare lentamente la frizione, sempre cercando di non bloccarla troppo. Non vorrei che la lenza si spezzasse. Ormai è il mio pesce. La mia immaginazione lo dipinge come una perfetta macchina da nuoto, col corpo affusolato, la linea centrale nera e le squame argentate come gioielli reali. Tramite la tensione della lenza posso percepire i suoi movimenti che sono affascinanti, potenti. Fra tutti i pesci, sono contento, anzi felice di aver allamato proprio questo.
Ormai la nostra danza continua da qualche ora e sento che non siamo più distanti. Forse ci separano cinque metri, forse dieci.

L’angolo che il filo forma con la superficie del mare inizia ad ampliarsi e questo significa solo una cosa: il pesce si sta sta stancando e sta cominciando a risalire verso il pelo dell’acqua. Ricomincio ad avvolgere il mulinello e poi succede. Il pesce fa un balzo fuori dall’acqua. E tutta la mia fantasia si concretizza in quel momento. Il pesce esiste, è lì. So quanto dista da me. Ho scambiato uno sguardo con lui. Voleva vedermi e mi ha visto. Forse mi ha detto “Complimenti bella lotta” o magari mi ha insultato. Poco importa.
Il nostro legame è saldo e io lo voglio portare a casa. Riavvolgo, riavvolgo.

Lui si gira, scoda. La lenza si tende all’estremo..

La lenza si spezzò e il pescatore cadde sulla sua schiena.

Apro gli occhi e vedo il cielo. Dico “Sì stai tranquillo capita”. Ma questo pesce significava molto per me. Mi sento come un bambino a cui è caduto il gelato appena comprato. Spiazzato, triste e anche un po’ arrabbiato. Ma è colpa mia? O è colpa sua? Non mi sembrava di aver esagerato con la tensione della lenza. Dannazione era importante per me. Poco fa ero immerso in un duetto soddisfacente, ora sono solo e confuso e dolorante. Chi me lo fa fare di rialzarmi e riprovare se è probabile che tutto ciò riaccada? Il cielo diventa sfocato, la barca va alla deriva e io, immobile, raccolgo i pezzi che si sono rotti.

Domani sarò di nuovo a pescare.

 

Stefano Lomartire