Accadde una domenica qualunque di un qualunque febbraio in cui dal cielo piovve neve; era carnevale, ma non in quell’ospedale. Da una porta della stanza in cui riposava una ragazza, scappò via con le lacrime agli occhi e il nodo in gola un ragazzo, che si scontrò con l’infermiera del cambio-flebo. Trovò una lettera d’addio appoggiata al vaso del comodino di quella stanza, la lesse: erano parole dolci, incisive, pensate ma, si vedeva, riscritte mille volte. Accadde il coraggio di consegnarla a lei, in una busta gialla. Poco dopo nel pronto soccorso di quello stesso ospedale accadde che arrivò un’ambulanza: un ragazzo, incidente in moto, travolto da un vecchio in auto, il ragazzo non andava veloce, il vecchio era troppo vecchio, ma c’erano la neve, il freddo e la fretta. E poi l’emozione di aver lasciato una lettera alla donna della sua vita, che era ormai in fin di vita. I medici lo stavano rianimando quella domenica di quel febbraio nevoso, che non sapeva di festa né di domenica. Stanza quindici letto tre, e accadde che una donna stava scoprendo di star per morire, l’ordinaria morte ormai accettata per qualunque ospedale, ma non per quello. Nel piano sopra, stessa stanza, stesso letto, una donna stava partorendo: era arrivata da poco, le contrazioni erano appena incominciate, ma dolorose. L’aveva portata il marito in macchina, l’altra figlia dal nonno. Ma le cose non funzionarono come avrebbero dovuto, la donna fu esaminata accuratamente. C’erano altre tre donne nella stanza, che stavano per partorire, ma in lei c’era qualcosa che non andava. Se ne accorsero i medici, dopo che scoprirono che quel nuovo essere aveva il cordone ombelicale attorno alla gola, ma niente di grave. Se ne accorse quel nuovo essere che appena uscì inizio a strillare e piangere. Chiamatelo sesto senso, ma tutti sapevano che c’era qualcosa che non andava. Eppure gli esami erano tutti in regola, non c’era nulla di evidente, e nessuno disse più niente. Accadde dunque che in una qualsiasi domenica nevosa di febbraio che non sapeva di festa, ma di un misero giovedì, nacque una bambina, aveva il cordone ombelicale attorno al collo, aveva urlato appena aveva potuto, si era accorta anche lei che c’era qualcosa che non andava. Neppure lei disse niente. Passò alla storia come una giornata qualunque in cui nacque una comune bambina, in un ospedale con nulla di straordinario.

 

Il primo pianto della storia di ognuno. Tu che nasci, svuotati di ogni lacrima che ora hai, altrimenti ti marciranno dentro. Nessuno ti rimprovererà per questo tuo primo pianto, perché oltre l’abbandono, nascere sarà l’esperienza più traumatica della tua vita. E dovrai ricordartelo per il resto della tua esistenza, quando piangerai per altri motivi. Quando davvero rinascerai, capirai tutta la sofferenza, il pericolo e la fatica di questo tuo primo nascere. Ti verrà in mente il ricordo di questo tuo primo dolore che ti ha fatto quasi morire, dopo essere riuscito a nascere tra mille sforzi. È il primo ossigeno nei polmoni come la prima pugnalata alle spalle da chi non ti aspetti. No, l’aria che ora respiri non è più fatta di acqua. Dedurrai con una logica che fila, che per nascere e per rinascere è stato necessario far morire un pezzo di te. Ora penserai magari ad altre vite prima di questa iniziata con un laconico pianto, ma chi lo sa, nessuno lo sa, al di fuori di te, che sei appena nato. Tu che sei forte e guerriero, hai superato la prima prova perché il fatto che sei qui vuol dire che sei capace a piangere e sei disposto a soffrire, e morire e rinascere decine e decine di volte.

Di Ylenia Arese