Crodini, succo alla pera, bottiglie di Coca-Cola e di tè al limone. Bibite da aperitivo. Li tengo lì di riserva così quando passa qualcuno ho qualcosa da offrire.
Il formaggio, gli affettati e i Crodini li ho comprati io, al resto ha pensato mio papà.
Ho preso questo elenco con leggerezza nel momento in cui Giorgia l’ha pronunciato, perché avevo davanti a me quei prodotti accuratamente riposti nei vari ripiani. Mi sembrava così scontato dire: questo l’ho comprato io, questo invece me l’ha portato mio padre, la minestra nella pentola mia madre. Non ho pensato, lì per lì, che lei stava andando a memoria perché davanti ai suoi occhi aveva soltanto la sagoma di un frigo con, forse, un po’ di luce attorno.
Il frigo è abbastanza vuoto perché sono ancora in un periodo di transizione. Giorgia ha ventotto anni, è non vedente da dieci e vive da sola da circa un anno. Mi confida che ultimamente sta cercando di diventare più autonoma in cucina, ma non è per niente facile. Ecco perché il frigo è vuoto. Succede spesso che mangi con i suoi genitori. Ma la voglia di poter gestire la sua cucina c’è e lo dimostrano gli esperimenti che sta facendo.
Cucino la pasta, sì. Ma il problema non è la pasta in sé, è il passaggio dalla pentola al piatto. Bisogna riuscire a centrarlo. Se sono da sola mi aiuto anche con le dita, toccando il mestolo per capire se c’è ancora pasta dentro, ma so che non è un’abitudine da prendere, soprattutto quando ho ospiti a cena.
Ridiamo. Non ci avevo mai pensato.
Il problema delle bistecche è girarle. Quello delle verdure è pelarle. La difficoltà è che chi ti insegna una ricetta te la spiega come la cucina vedendo quello che fa. E tu quindi devi cercare di immaginarti come la puoi fare tu non vedendo. In questo periodo sto cercando di trovare un modo per riuscire a dividere i cavolfiori in ciuffetti. La prima volta che ho provato è stato un disastro, ho distrutto completamente il cavolfiore, alla fine mi chiedeva pietà. A volte tutto questo è stimolante. Ad esempio non credevo di riuscire a cucinare la pizza, e ce l’ho fatta. Altre volte invece è difficile. Parto io prevenuta oppure i miei genitori, che lo fanno per protezione, ma capita che anche loro abbiano dei pregiudizi e che pensino che alcune cose io non le possa proprio fare, quindi non mi incoraggiano a partire. Ma li capisco. Io stessa ho pianto molto negli anni per alcune piccole sconfitte. Bottiglie o bicchieri rotti preparando la tavola. Una volta dovevo scolare gli spinaci nello scolapasta e li ho rovesciati tutti nel lavandino. Queste sono state sconfitte, non stimoli. Ma poi, pian piano, mi sono fortificata nel tempo.
A otto anni Giorgia torna a casa da scuola e dice alla mamma che, dalla mattina, non vedeva bene. Si era resa conto che per guardare in faccia la sua vicina di banco sulla destra doveva girarsi completamente perché l’occhio destro da solo non bastava. Allora la mamma le chiede di coprirsi l’occhio sinistro con la mano e di dirle che cosa vede soltanto con l’altro. La risposta è secca: Niente.
Iniziano allora una serie di visite in ospedale con diversi medici per scoprire che si tratta di un problema cerebrale che colpisce il nervo ottico causandole la perdita progressiva della vista. All’inizio delle superiori perdevo un decimo al mese. L’ultima volta in cui mi ricordo di aver visto bene è stato durante la gita di terza media. Mi muovevo bene da sola anche di notte. Soltanto qualche mese dopo, all’esame di terza media, ho avuto qualche difficoltà in più e dovevo scrivere più grande per poter rileggere.
All’esame di maturità ero ventesimista cioè vedevo un ventesimo. Il tema l’ho scritto io, con una penna gel e in stampatello, ma l’ho scritto io.
Oggi Giorgia è non vedente, anche se mi spiega che la sua percezione visiva cambia quasi tutti i giorni ed è influenzata da molti fattori come il suo umore, le condizioni metereologiche, la stanchezza… A volte vedo le sagome delle figure o degli oggetti, a volte no, a volte vedo i colori, altre volte no. A proposito di una vacanza in Scozia di quest’estate mi dice: In quei giorni stavo molto bene di umore quindi sono riuscita a vedere meglio, ho percepito le sagome delle case e alcuni colori. Un giorno lei e i suoi amici sono stati a Culton Hill. Quel giorno il cielo era nuvoloso, il classico clima uggioso d’oltremanica, con la pioggerellina sottile ad accompagnare il freddo, e la sua vista non era ottimale, per quanto può essere ottimale, aggiunge. Io pur non vedendo il paesaggio sentivo di avere davanti a me qualcosa di vasto e mi sentivo felice. È un viaggiare diverso ma altrettanto bello. Ho imparato a chiedere e a farmi raccontare quello che avevo davanti.
Facciamo una piccola pausa.
Se c’è da accendere la luce dimmelo.
Mi guardo intorno ma è ancora chiaro. Sono solo le 17.30. Non la accendiamo.
L’idea di rimanere completamente al buio mi fa paura, di non avere proprio più riferimenti, anche se ne ho pochi. I giorni in cui non sono psicologicamente al top anche la vista ne risente e mi fa paura spostarmi.
Mi viene da chiederle: ti sei arrabbiata per aver perso la vista?
Sì forse un pochino sì. Ti chiedi: perché a me? Cos’ho fatto? Però è durato molto poco.
E io non le credo. È impossibile, io sarei tormentata. Penso che forse non lo voglia solo ammettere. Ma poi mi spiega questa cosa.
A volte il vedere ti distrae. Rischi di rimanere nella superficialità delle cose. È bellissimo vedere, potessi vedere vorrei rivedere subito, però se la tecnica o la scienza riuscissero a darmi di nuovo la vista, io cercherei comunque di darle meno importanza. Ci sono verbi che sembrano uguali ma sono diversi. Vedere e guardare. Sentire e ascoltare. Vedere e sentire presuppongono solo un atto fisico, guardare e ascoltare presuppongono di metterci testa e cuore, ed è tutta un’altra cosa. Chi vede dovrebbe cercare di andare un po’ più in là di quello che vede. Io sono obbligata a farlo, vado subito un po’ più in profondità nelle relazioni con le altre persone. Ma è inevitabile. Io ho imparato dal tono della voce a capire uno stato d’animo. È più facile con quelle che conosco però mi si accendono dei campanelli anche con quelle che non conosco molto bene. Il tono della voce mi trasmette molte informazioni. E quindi se a volte tu che vedi ti fai ingannare da un sorriso che maschera una grande tristezza, con il tono della voce non ci caschi. E io sto imparando a soffermarmi di più su queste cose.
Alcuni mi chiedono “Non sarebbe stato meglio non vedere già dalla nascita?” perché, ad esempio, io non ho la sensibilità tattile che hanno i non vedenti da sempre. Però non saprei quali sono i colori e non saprei qual è il mio colore preferito. E quando ero più piccola sono stata a Roma e a Venezia e le ho viste, me le ricordo.
E allora le credo.