Sentiamo meno dolore di quanto dovremmo provarne.
Definirci macchine è riduttivo. Siamo qualcosa di più di un meccanismo. Siamo un meccanismo con una volontà. Mi piace pensare di essere costituiti da un ammasso di cellule, atomi, cariche elettriche, tenuti insieme proprio dalla forza di volontà. Qualcosa di più di una semplice catena, di un calcolato effetto domino.
Alla base del puro meccanismo della trasmissione del dolore, c’è infatti, la volontà dell’autoconservazione. Detto in termini più concreti: sopravvivere. Siamo meraviglie imperfette, che l’evoluzione non ha preservato dal provare sofferenza. La sofferenza è il campanello di allarme, che ci rende consci del pericolo che stiamo correndo. Il pericolo può provenire dall’ambiente interno o dall’ambiente esterno. Siamo circondati da possibili tasti dolenti, che contro ogni logica, ci salvano. Una volta percepito il dolore, infatti, reagiamo.
Ogni volta ci salviamo, sopravviviamo, perché riusciamo a sentire quel dolore, che potrebbe farci morire. Sono sistemi complessi, quelli che ci compongono. Eppure la semplificazione, non riduce il loro incanto.
Siamo sensibili al dolore grazie ai nocicettori che captano le sensazione dolorifiche che originano dall’esterno o dall’interno di noi stessi. Sono presenti su ogni centimetro del nostro corpo, ad eccezione della sostanza grigia del cervello. Sono l’elemento primo, con il preciso compito di recepire quell’informazione e, attraverso una catena sinaptica composta da pochi neuroni, di trasmetterla ai centri della corteccia cerebrale, grazie alla quale siamo coscienti di quel dolore.
Eppure sentiamo meno dolore di quanto dovremmo provarne.
Molto spesso è il dolore a salvarci, ma non si può negare quanto faccia male. La sofferenza ci può rendere presenti a noi stessi, ma troppa, non è tollerabile, perché ci aliena.
Esistono dei rami collaterali, ovvero delle fibre che si dipartono da quelle stesse fibre nervose che hanno il compito di condurre le sensazioni dolorose, che sono deputate a contattare i primi neuroni coinvolti in questa via, con il compito di attenuare gli stimoli trasportati, attraverso la liberazione di sostanze che inibiscono la trasmissione del dolore. Sono come filtri che non fanno passare tutto. Bloccano quello che è più dannoso, lasciandone passare solo una piccola parte. Sentiamo meno dolore di quanto dovremmo percepirne. Una delle meravigliose contraddizioni dell’umano è il suo essere composto da meccanismi che lo espongono e nello stesso tempo lo proteggono dalla sofferenza. Come ad indicare che alla base della sua creazione od evoluzione ci sia una forza o una volontà che lo ama e lo odia. Continuamente lo fa scivolare e lo aiuta a rialzarsi. Lo spinge nel vuoto e gli apre il paracadute.
E’ la nostra umanità a permetterci di recepire il dolore, senza la quale, forse non soffriremmo.
Il dolore ci completa portandoci via dei pezzi. Che sia un ago che ci punge, o un amico che non c’è più, è il processo di guarigione ad attestare che siamo vivi. Carne e spirito in continua evoluzione. Andare avanti senza un pezzo, non può che fortificare quello che resta. E’ innegabile l’esistenza del dolore, e non possiamo sottrarci alla sua esperienza. Possiamo essere onesti, e non mentire quando lo proviamo. Sia esso originato da terminazioni recettoriali, che dalle più intangibili, eppure così pesanti, delusioni quotidiane. Andare avanti mancanti, ci rende più consapevoli degli innumerevoli casi della vita a cui possiamo essere sottoposti. All’inizio si tratterà solo di resistere, abituarsi, anestetizzarsi. Sarà un compromesso l’andare avanti, scoprendo poco per volta gli infiniti tasti dolenti a cui siamo più sensibili.
Ma sentiremo sempre meno dolore di quanto siamo progettati a sopportarne. Siamo insieme croce e salvagente di noi stessi. Sentiamo ed attenuiamo i colpi. Siamo forti guerrieri, senza nemmeno saperlo. Ci taglieremo con affilati tasti dolenti, ma troveremo anche molti filtri. Se guardiamo fuori e dentro noi stessi, dallo stesso posto da cui deriva il male, li troveremo. E reagiremo, grazie a quei filtri.