Negli ultimi anni il tema dell’eutanasia e delle pratiche di fine vita è diventato tanto centrale nel dibattito pubblico quanto controverso. È utile, dunque, portare alla luce quelli che sono gli elementi che la bioetica mette a disposizione affinché ciascuno possa crearsi un’opinione che sia effettivamente fondata.
Mentre nel XIX e XX secolo i bambini sapevano tutto sul morire, oggi sanno tutto sulla nascita e sul sesso, ma nulla sulla morte: quest’ultima è stata come cancellata, con una rimozione che, però, lungi dal negarla, pretendendo piuttosto di decidere sul da farsi. È così che sono emerse le pratiche del suicidio assistito (per mezzo del quale si forniscono all’interessato i mezzi per causare la propria morte) e dell’eutanasia (in cui a compiere l’atto che causa la morte è un terzo che agisce su richiesta esplicita dell’interessato terminale).
Ad opporsi fortemente ad esse, però, vi è il tradizionale atteggiamento del “vitalismo medico”, prospettiva secondo cui il dovere primo del medico sarebbe fare sempre tutto per prolungare la vita fisica e procrastinare la morte, partendo dalla tesi assiologica secondo cui la vita biologica sarebbe sempre buona in sé e la morte sempre il peggiore dei mali. Può darsi che in tempi passati il vitalismo fosse plausibile, ma con le scoperte mediche e l’allungarsi della prospettiva di vita hanno iniziato ad emergere i primi dubbi al riguardo.
Grazie al progresso medico e scientifico, infatti, è oggi possibile allungare la vita fisica di un individuo, ma ne vale davvero sempre la pena? Ci sono casi in cui, arrivati a un certo stadio della malattia, gli sforzi dovrebbero essere diretti alla creazione di un’atmosfera serena e familiare, piuttosto che all’accanimento terapeutico. Questo ha portato alla nascita di una nuova branca dell’assistenza sanitaria: la medicina palliativa, che ha lo scopo di garantire una morte dignitosa e serena, rivolgendo grande attenzione alle relazioni sociali e agli interessi esistenziali del paziente.
Le critiche al vitalismo medico e l’avvento delle cure palliative segnano una svolta nell’approccio alle fasi terminali della vita, ma non sono chiare le implicazioni dal punto di vista deontologico, ossia su ciò che è concretamente lecito o illecito fare in tali situazioni. Da una parte vi è chi ritiene che la morte volontaria non sia mai moralmente ammissibile, dall’altra, invece, chi sostiene che quest’ultima sia più che lecita in presenza di una “condizione infernale”, caratterizzata da una sofferenza fisica tale da giustificare la scelta di porre fine alla propria esistenza.
I sostenitori della prima posizione propongono un’umanizzazione della morte, evitando l’accanimento terapeutico e accompagnando il morente con affetto fino alla fine, ma condannando qualunque atto teso a causare artificialmente la morte. Dal punto di vista teorico questa posizione basa le proprie considerazioni sull’idea che vi sia una differenza sostanziale tra il fare e il lasciare accadere, tra uccidere e lasciar morire, considerando cure palliative ed eutanasia pratiche alternative.
D’altra parte vi è chi ritiene che la “buona morte” richieda necessariamente la possibilità del suicidio assistito o dell’eutanasia volontaria in situazioni estreme, ritenendo che l’errore di chi le rifiuta risieda nel sopravvalutare la distinzione tra fare e lasciare accadere, al punto da limitare la nostra responsabilità solo all’azione dell’uomo e non anche all’azione della natura. Tale distinzione inevitabilmente sfuma in un’epoca in cui la morte avviene spesso in ospedale, per cui le fasi finali della vita del paziente sono tutt’altro che naturali, ma artificiali e prevedibili.
Una frequente obiezione posta alle pratiche di fine vita è legata al pericolo che esse portino a conseguenze sociali disastrose: si tratta un’obiezione empirica, perché, di principio, non ci sono motivi per condannare la morte volontaria. Tale critica obbietta che se le pratiche dovessero diffondersi le persone si sentirebbero in pericolo nella loro integrità, paragonando la situazione che si andrebbe a creare alla vita in un regime totalitario. In realtà le cose non stanno affatto così: le persone non verrebbero uccise prematuramente e senza ragione, ma l’eutanasia sarebbe attuata esclusivamente su richiesta dell’interessato affetto da una malattia terminale. Quindi, il fatto che sia una procedura volontaria, pubblica e controllata, dovrebbe essere garanzia sufficiente ad evitare eventuali abusi.
Qualunque obiezione di principio alle pratiche di fine vita, legata a credenze religiose o presupposti morali, dovrebbe essere di per sé sterile di fronte alla volontà del singolo malato terminale, unico legittimo autore di una scelta originata da una situazione di sofferenza che nessun individuo dovrebbe essere costretto a procrastinare di fronte alla possibilità pratica di porvi fine, che sia mediante la più drastica eutanasia o l’accompagnamento palliativo alla fine della propria esistenza.