“Once Erasmus – forever Erasmus”. Ho sempre percepito questo modo di dire tanto diffuso tra i giovani che fanno un’esperienza di studio in Europa con un velo di scetticismo. Erasmus una volta, Erasmus per sempre. Come potranno mai dodici mesi all’estero cambiare così tanto il proprio modo di vivere, di pensare, di percepire se stessi e il mondo circostante? Poi sono partito, e ho capito…
Vivere lontano da casa per tanto tempo implica sacrifici, difficoltà e talvolta anche piccole e grandi frustrazioni. Sentire la mancanza dell’affetto dei propri parenti e amici, trovarsi inseriti in un contesto dove non sempre la mentalità della gente corrisponde a quella a cui si è abituati, parlare soltanto di rado la propria lingua e sentirne la necessità, soprattutto durante un esame difficile, o in una situazione in cui le competenze linguistiche straniere non permettono di esprimere al cento per cento quello che si sta pensando, e doversi adattare, in qualche modo, a tutto ciò. Eppure, nonostante lo shock culturale iniziale, presto la sfida si fa interessante e la posta in gioco alta. Così si inizia a giocare. Perché si tratta di un gioco che conosce solo vincitori, da cui tutti possono guadagnare qualcosa. La ben nota equazione “erasmus = festa + alcol – studio” è infatti una leggenda metropolitana da sfatare, che soltanto parzialmente e in taluni casi può esser vera, ma che sicuramente esclude l’aspetto più profondo di tale esperienza: “fare l’Erasmus”, o ancor meglio “essere Erasmus”, ha un significato ben più ampio.
Durante il mio periodo di studio a Ratisbona (Germania) ho conosciuto decine di giovani provenienti da tutto il mondo e ho stretto amicizia con molti di loro. Ognuno di loro ha condiviso con me la propria chiave di lettura della realtà, e io ho condiviso con loro la mia. C’è stato un arricchimento reciproco straordinario, che mi ha fatto capire una cosa importante: il mondo si estende ben oltre ai confini della piccola campana di vetro in cui siamo nati e cresciuti e fintanto che non abbiamo il coraggio di varcare tali confini e di andare a vedere “cosa c’è fuori” resteremo persone incomplete. Ma non perché “cosa c’è fuori” è necessariamente migliore di “cosa c’è dentro”, bensì perché è qualcosa di diverso. Prendere coscienza di tale diversità significa approcciarsi in un modo più obiettivo, completo e ricco alla realtà circostante. Prima di partire condividevo il malcontento di massa nei confronti del nostro Paese e l’ipotesi fatalista di abbandonarlo un giorno per trovare fortuna e felicità in un posto migliore e sono tornato con la consapevolezza che l’economia, la politica e la situazione occupazionale funzionano certamente meglio in altri Stati, ma che mai potrei abbandonare l’Italia, che tanto mi ha dato e a cui sono culturalmente e sentimentalmente legato.
Sta proprio in questo la straordinarietà dell’Erasmus, nel fatto che scoprendo la grandezza e la bellezza dell’Europa e del mondo, uno scopre se stesso e inizia a vivere i rapporti umani in un modo molto più profondo. Perché è stato una volta Erasmus – e lo sarà per sempre.

Paolo Canavese