Nell’articolo precedente abbiamo parlato dell’artista viennese Klimt, oggi invece tratteremo del suo più promettente allievo Egon Schiele.
Nato a Tulln, piccola cittadina austriaca nei pressi di Vienna, in una stazione ferroviaria nel 1890, fin dall’infanzia la vita di Egon è resa difficile dal progredire della malattia mentale del padre. Un’esperienza traumatica quest’ultima che lascerà nel giovane profonde ferite ed un’idea di mondo fosca e estremamente malinconica. Quella stessa visione che convoglia poi a pieno nelle sue opere.
Il 1905, anno della morte del padre, segna per Egon una svolta a livello artistico. La sua tutela passa nelle mani del ricco zio Leopold Czinaczek che ne coglie il talento e finanzia i suoi studi presso l’Accademia di Belle Arti di Vienna, dove le materie di interesse sono pittura e disegno. Oppresso dai rigidi canoni accademici, il giovane artista inizia a ricercare ispirazione e modelli al di fuori della scuola, nei café viennesi, ed è proprio in questo ambiente che si forma il vero Schiele. Nel 1907 al Café Museum incontra colui che rivoluzionerà il suo modo di fare arte: Gustav Klimt, maggior rappresentante della secessione viennese.
In questo periodo l’artista abbandona le rigide impostazioni scolastiche, e portando il suo cavalletto all’aperto inizia a dipingere la natura e soprattutto ritratti.
Questi ultimi rappresentano la parte più consistente e genuina della sua produzione.
Espressionista, accompagna immagini di corpi contorti, deformati, dai volti cupi dei suoi amici con un’introspezione psicologica che si riflette sui colori utilizzati. Questa necessità di dotare i lavori dalle linee taglienti ed incisive di un elemento aggiuntivo, quello della sensibilità, del mondo dei sentimenti è reso possibile solo dall’incontro diretto dell’artista con i suoi soggetti. Schiele impara a conoscere i propri modelli, con i quali stabilisce rapporti di amicizia e non solo, arriva a scoprire le loro paure, i loro problemi e stati d’animo, cambiandone di volta in volta la rappresentazione sulla tela. Per arrivare ad una restituzione sempre più precisa e reale si allena costantemente realizzando autoritratti. Essi costituiscono la parte più consistente del suo corpus di opere, vasto anche se l’artista morí precocemente all’età di 28 anni.
L’autoritratto, che da sempre accompagna tutta la produzione di ciascun pittore, perde in questi anni e in particolare modo con Schiele la sua funzione auto celebrativa e acquista contrariamente quella di specchio dell’interiorità. In essi si riflette tutto il disappunto, il senso di fallimento e inadeguatezza dell’artista che spesso si rappresenta nudo, con un corpo pieno di ferite che testimoniano una conflittuale lacerazione interiore oltre che una provocazione.
Egli dunque, attraverso opere accompagnate da una duplice pulsione di vita e di morte, getta in faccia ai propri contemporanei i fantasmi della sua mente, che sono poi quelli dell’uomo contemporaneo: impotente e sopraffatto dalla perdita di se stesso.