Facendo distrattamente scorrere il dito sulla bacheca di facebook, inciampo nel link di un articolo. Lo apro e scopro che è la lettera di un papà, che denuncia il cartello affisso in un oratorio salesiano, riferito ad un campo estivo: Possono iscriversi anche allievi di altre scuole, purché “normali” e previo colloquio.
La frase si commenta da sé. Non so se sia più fastidioso l’avverbio Purché, come a sottolineare una condizione sine qua non, un requisito fondamentale, o la parola Normali, usata per descrivere questa irrinunciabile caratteristica. Forse il peggio non sono le parole, ma le virgolette, che sembrano suggerire che sì, non è la parola più corretta da usare, ma insomma, ci siamo capiti, per noi Normali è chiarissimo cosa significhi Non-Normali.
Ma non è solo una questione di a parte parole e punteggiatura, che anzi rischiano di far cadere nel tentativo, goffo e un po’ ipocrita, di nascondere con il linguaggio problemi che la realtà mostra chiaramente.
L’errore di quel cartello è prima di tutto concettuale: l’errore sono i bambini disabili non ammessi ad un campo estivo.
Inutile negare che un bambino con una disabilità può comportare una gestione delle attività, degli spostamenti, dei pasti più complessa. In alcuni casi, la comunicazione e l’integrazione possono risultare difficili. Probabilmente c’è bisogno di più persone, più attenzione, più tempo. Ma questa valutazione non considera alcuni aspetti fondamentali.
Grazie al mio percorso di studi e a quello che spero diventi il mio lavoro, ho avuto la fortuna di conoscere molti splendidi bambini con diverse forme di disabilità. In alcuni casi ho avuto occasione di vederli rapportarsi fratelli, compagni di scuola, amici. Ed è l’averli visti con altri bambini che mi fa pensare che quel cartello sia un limite, ed esprima una valutazione miope e superficiale.
L’inserimento di un bambino con disabilità in una comunità di pari è, innanzitutto, positivo per il bambino stesso. Non solo per la possibilità di confrontarsi e relazionarsi, che non sempre è offerta a questi piccoli al di fuori dell’ambiente scolastico. Hanno bisogno di altri bambini, della loro capacità di notare le differenze per poi passare oltre, mettendo tutti sullo stesso piano. “Non è giusto, tu hai la carrozzina e se andiamo in cortile non ti devi stancare” è stata una delle frasi che ho sentito, una di quelle che ad un adulto non sarebbe mai venuto in mente di pronunciare, probabilmente la più sincera ed inclusiva mai pronunciata.
L’importanza del rapporto con i pari è spesso citata, quando si parla di integrazione di bambini con esigenze speciali. L’aspetto meno considerato è quello per cui il confronto con una situazione di disabilità può essere utile, bello e formativo anche per il gruppo di bambini in cui il disabile viene inserito. Li spinge a notare situazioni diverse da quelle in cui vivono, a prestare attenzione a certi bisogni particolari, insegna loro che in un gioco ognuno può svolgere un ruolo diverso in base alle proprie possibilità e ai propri limiti.
Ciò di cui ci si dimentica, quando si parla di inclusione, è il fatto che essa dev’essere un processo che coinvolge tutte le parti. Finché ci si limita a pensare all’integrazione come ad una proposta terapeutica, quasi ad un favore che la comunità fa al diverso, sia esso una persona con disabilità, uno straniero, persino un nuovo collega sul lavoro, si perderà la componente di opportunità che il gruppo può cogliere.
L’integrazione dovrebbe essere vissuta come un percorso che avviene in entrambi i sensi: la comunità e chi vi si inserisce dovrebbero integrarsi ed accogliersi a vicenda, modificandosi entrambi, come goccia d’inchiostro che si diffonde in un bicchiere d’acqua.
Sfruttando entrambi le possibilità che l’altro offre.