Napoli è una “Città ribelle”, ovvero il titolo del libro di Luigi De Magistris in collaborazione con la giornalista Sarah Ricca. Ribelle perché contro il sistema che prima l’addomesticava come una malattia. Ribelle perché teatro di una Rivoluzione, come la chiamano De Magistris & Co. Ma soprattutto ribelle perché ha saputo capovolgere le prospettive e il suo futuro. In un paese in cui la devianza sembre essere diventata la norma, come sostiene Domenico Starnone, Napoli è una città ribelle perché ha fatto dell’eccezione un esempio di politica ammirato in tutto il Mediterraneo e non solo. E così la disobbedienza ai poteri forti è diventata obbedienza, ma a cosa? « Alla Constituzione, ai doveri, alla partecipazione attiva e civile, alla speranza nel futuro ». Il suo simbolo? Luigi De Magistris, sindaco dei Napoli eletto in liste autonome nel 2011 e riconfermato nel 2016 con oltre il 70% al secondo turno. Nel contesto di Scrittorincittà 2017, ha risposto alle nostre domande in esclusiva per 1000miglia.
Nel contributo iniziale, Maurizio De Giovanni afferma « Perché De Magistris nasce da un vuoto e diventa un pieno ». Può questo pieno strabordare e coinvolgere altre realtà? Oltre alle città europee che si sono interessate alle politiche della sua città, come Atene, Barcellona, Madrid, fino a dove può arrivare nel panorama italiano?
In realtà si tratta di un’esperienza senza confini e senza frontiere. Ogni luogo, ogni città, ogni comunitàà ha le sue caratteristiche; per cui non si tratta di un modello “esportabile”. Però quello che è accaduto nella nostra città può accadere anche altrove ed è sicuramente un’anomalia nel panorama politico generale. In questi anni stiamo provando a connetterci con territori, esperienze, associazioni e movimenti proprio per cercare di costruire, anche oltre alla nostra città; qualcosa che sia capace di coniugare da un lato la rottura del sistema, da noi chiamata “rivoluzione”, e dall’altro anche l’affidabilità nel governare.
Sempre secondo De Giovannni, l’esperienza di Napoli nel 2011 nasce dalla « necessità di un riferimento per un elettorato orfano e deluso ». Lei ha provato a dare una risposta a questo elettorato, attraverso un ritorno alla politica dal basso, alla politca nel senso letterale di “vita della polis”. Dunque, si può rifare la politica dal basso? Partendo dai comuni per poi arrivare a livello nazionale?
Assolutamente sì. La nostra esperienza nasce dall’ “aver dato potere a chi potere non ne aveva, voce a chi voce non veniva data”. Quindi è un’esperienza di democrazia partecipata vera, non retorica o di puro ascolto. Nel nostro comune prendiamo decisioni insieme alla cittadinanza, anche oltre alla rappresentazione politica. Anche per il fatto che io non ho partiti e vengo da un’esperienza di movimento, autonomia, per cui la connessione con la gente è stata fortissima e ha provocato la rottura con il sistema politico tradizionale ma allo stesso tempo il favorire di un protagonismo popolare che prima era inesistente.
Nel suo libro teorizza una sorta di sistema di confederazione, che prospetta la divisione in tre zone: Nord, Centro, Sud e Isole; dando più potere ai territori e a chi li conosce bene. Tuttavia, non c’è il rischio di aumentare i sentimenti di autonomia di alcune regioni italiane (soprattutto a fronte dei recenti referendum in Lombardia e Veneto) e di perdere anche gli ultimi baluardi di speranza di qualcuno nei confronti dello stato centrale?
Io non parlo di autonomia. Secondo me l’operazione del Veneto è un’operazione molto politica ma poco sostanziale. Se vuoi dare veramente autonomia, la devi dare ai territori, alle città. Penso che l’Italia dovrebbe ripartire dai comuni uniti nelle loro diversità. Invece, dando molto potere alle regioni non si sono mai sviluppate forme di democrazia partecipata. Anzi, molto spesso le regioni sono state teatro di sprechi e di mancato utilizzato del denaro pubblico. Quando parlo di autonomia dei territori penso soprattutto alle città e all’idea, tipo i collegi europei, di dividere l’Italia. Dividere nel senso di aggregare alcune funzioni alle macroregioni. Lo Stato deve avere delle funzioni fondamentali previste dalla Constituzione, le città dovrebbero avere più autonomia e le regioni una limitata funzione di programmazione.
Parlando appunto della sua città in particolare, Napoli è « una città che ha guardato a De Magistris per una folle speranza e mancanza di alternative » (De Giovanni). Senza eccessi di lode, cosa succede alle città in difficoltà che non trovano un De Magistris? O piuttosto, qual è il vero segreto che si nasconde dietro la figura di Luigi De Magistris, ormai mitizzata, amata ed odiata al tempo stesso?
Innanzitutto ci tengo a fare una distinzione tra i due mandati. Il primo è stato la novità, il secondo la conferma. Dopo aver governato, rappresenti un punto di riferimento. Se devo essere sincero, se no si rischia di essere falsamente modesti, da un lato senza il popolo e la gente non avrei fatto tutto quello che ho fatto; dall’altro molto è dipeso dalle scelte che ho preso io personalmente, dalla mia capacità di mettermi contro il sistema. Da soli non si va nessuna parte, ma l’unico che ci ha creduto all’inizio sono stato io. Napoli è la dimostrazione che, quando ci sono uomini e donne con volontà, coraggio, forza e passione le cose possono cambiare. Nonostante sia stato particolarmente arduo e difficile vista la situazione iniziale, Napoli è una città totalmente diversa rispetto a sei anni e mezzo fa.
Il suo peso in quanto personaggio politico è stato comunque determinante e lei rivela che « Il mio sogno è contribuire alla nascita di un movimento politico completamente nuovo ». Quale sarà il suo personale contributo a questo movimento? E quale eredità lascerà nella sua città dopo la fine del suo incarico nel 2021?
Fino al 2021 farò il sindaco a tempo pieno. Nel frattempo abbiamo già costruito un movimento politico “Democrazia e autonomia” che sta cominciando a radicarsi. Appena smetterò di fare il sindaco penso di contribuire, anche candidandomi, a rafforzare questo movimento a livello nazionale e provare a dimostrare che quello che si è fatto a Napoli si può fare anche a livello nazionale.
Prima di arrivare a livello nazionale sarebbe interessante poter coinvolgere altre città sul modello di Napol. Alex Zanotelli afferma che « Oggi Napoli è un’avanguardia civica sul tema dei beni comuni ». A Cuneo c’è un movimento, rappresentato in consiglio comunale dopo le ultime elezioni amministrative, per i Beni Comuni. Qual è dunque il suo consiglio per far appassionare la cittadinanza ad un tema del genere e riuscire a coinvolgerla di nuovo nella vita politica della città?
Sicuramente la lotta e la difesa dei beni comuni è un tema che appassiona, a cominciare dall’Acqua bene comune. Noi abbiamo molto lavorato sul coinvolgimento dei giovani, che sono stati e sono tutt’ora determinanti nel panorama napoletano. Per infiammare devi anche avere dei punti di riferimento. A Napoli tanti hanno visto in me un punto di riferimento. Una città che quando sono diventato sindaco era smarrita, depressa, sommersa di rifiuti, con livelli di collusione tra politica e affari molto forte. Ho suscitato entusiasmo e contribuito a liberare energie, e la prova è che oggi in città ci sono numerose associazioni, movimenti e comitati. E la battaglia per i beni comuni è uno dei punti centrali del laboratorio Napoli.
Quale sarebbe il suo messaggio ai giovani, oggi?
Non rimanete a guardare, non siate indifferenti e non pensiate che nulla possa cambiare. Non vi limitate al voto, di per sé già un esercizio democratico importante, ma lottate in prima persona per cambiare questo paese. Io penso che ci siano grandi spazi per un impegno politico, sociale e civico dei giovani. In difesa dei beni comuni, per un’Italia con una giustizia sociale più forte, con minori disuguaglianze ma soprattutto nella lotta alla corruzione e alle mafie, la battaglia che ha contraddistinto la mia vita, che è un tema di cui non si parla abbastanza al giorno d’oggi.