Negli ultimi anni si sono fatte sentire le battaglie contro il razzismo, molte persone si sono spese per ribadire una volta per tutte l’uguaglianza tra gli esseri umani e il dovere di rispettare chiunque, indipendentemente dal colore della pelle. Molti, si spera la maggioranza, concordano sul grande valore di queste lotte civili.
Nell’Ethica Spinoza scrisse parole che oggi suonano come la definizione di razzismo, anche se forse non era nell’intenzione del filosofo olandese:
«Se qualcuno è stato affetto da un altro, di una classe o di una nazione diversa dalla sua, da una letizia o da una tristezza accompagnata, come causa, dall’idea di quest’altro sotto il nome generale della classe o della nazione, egli amerà o avrà in odio non solo costui, ma anche tutti quelli della medesima classe o della medesima nazione».
Il concetto è semplice: conosco una manciata di persone che condividono tra loro una certa caratteristica, magari negativa, e allora assumo che quel tratto sia comune all’intero popolo di cui quelle persone sono parte. Detto questo, chi può dirsi fino in fondo non razzista?
Se, infatti, incrociando una persona nera, la mia mente si sofferma sul colore della sua pelle, sto discriminando. Spesso ci si lascia guidare da ragionamenti complessi sulla questione, dimenticandosi però che il razzismo è il prodotto di un meccanismo tanto banale quanto pericoloso: tutto sta nel diverso colore della pelle. Tutto sta in un tratto somatico, un elemento estetico, come potrebbe essere il colore degli occhi o quello dei capelli. Un colore viene associato a una nazionalità, come se poi questa connessione fosse matematica. Addirittura quel colore ci allontana, quando non ci spaventa. Spesso ci si illude di essere fuori da tutto questo: se però si riflette su questo meccanismo mentale, ci si accorge di non essere poi così puri e giusti.
Il medesimo discorso può essere fatto a proposito dell’omofobia: se mi accorgo che una persona è omosessuale e penso, in modo più o meno esplicito e anche senza volerlo, che quella persona non ha nulla a che fare con me o che, insomma, siamo diversi, sto discriminando. Così sarebbe bene essere onesti e capire che ricorrere a nomignoli per indicare una persona omosessuale è discriminatorio, sebbene si presuma di farlo scherzosamente: dietro il linguaggio comico si cela il più delle volte un pensiero reale.
Qualsiasi razzismo, qualsiasi fobia sociale, in quanto generalizzazioni, non sono etici né realisti. Ogni persona è infatti unica e irripetibile; ogni persona è se stessa e la propria storia, e non quella del gruppo sociale di appartenenza. La lotta alla discriminazione è una lotta che deve essere onesta e profonda, che deve essere portata avanti nell’atteggiamento mentale individuale prima che nelle piazze; è un esercizio continuo, un allenamento costante a cambiare sguardo, a sbattere le palpebre per tornare alla realtà e capire che quello che vedo è solo un colore della pelle, è solo un orientamento sessuale.
Come i miei.