«Il fine ultimo [dello Stato] non è dominare né tenere a freno gli uomini con la paura e renderli di diritto di un altro, ma, al contrario, liberare ciascuno dalla paura, affinché viva, per quanto è possibile, in sicurezza, cioè affinché conservi nel migliore dei modi il suo diritto naturale ad esistere e ad operare senza danno né suo né degli altri. Il fine dello Stato, dico, non è cambiare gli uomini da esseri razionali in bestie o automi, ma, al contrario, fare in modo che essi si servano della libera ragione, e non combattano con odio, ira o inganno, né si comportino l’uno verso l’altro con animo ostile.
Il fine dello Stato, dunque, è la libertà».
(B. Spinoza, Tractatus theologico-politicus, 1670)
Quest’anno si contano trecentocinquant’anni dalla pubblicazione del Tractatus di Spinoza, testo divulgativo, ma formidabile. Sul finire del Seicento si preparava nelle menti degli intellettuali quel gran fermento che conduce alla definizione del liberalismo politico moderno, il cui padre viene generalmente ravvisato in John Locke: il potere politico deve garantire innanzitutto i diritti naturali e inviolabili dell’individuo, tra cui la vita e la libertà. Lasciando però da parte le questioni di carattere strettamente politologico, si può trovare un tesoro nella citazione di più ampio respiro appena riportata.
L’idea di Spinoza potrebbe sembrare contro-intuitiva o contraddittoria: la libertà del popolo è vantaggiosa per la conservazione del potere politico, perché se lo Stato rende prigionieri i cittadini, questi, prima o poi, si ribelleranno al sovrano. C’è di più: inevitabilmente la paura porta alla ribellione, dunque alla violenza e, non raramente, alla morte. Lo Stato deve proteggere i cittadini con fiducia e rassicurazioni, evitando di instillare paura nei loro cuori.
La paura è forse il sentimento che più avvicina l’essere umano agli altri animali: è una passione che si fa strada davanti al pericolo e che causa talvolta la paralisi, ma più spesso l’aggressività, difficilmente gestibile a livello politico. In quanto passione, la paura depotenzia l’individuo e perciò dev’essere superata attraverso l’esercizio libero della ragione: si arriva così alla convinzione che lo Stato debba incentivare la libertà di pensiero, il ragionamento incondizionato, l’esercizio intellettuale; tutte cose che, nella prospettiva spinoziana, sono le medicine più efficaci contro la morsa della paura.
Il terrorismo mediatico a cui da decenni ormai la società è sottoposta è uno strumento miope a cui ricorrono il potere economico e poi quello politico. Ed è un mezzo che cancella con un colpo di spugna tutti i geniali progetti degli Illuministi, che sognavano una società libera, razionale, fondata sulla cooperazione tra gli uomini e sul rispetto dei diritti naturali e inviolabili dell’individuo. Oggi si tende a dare per scontati i diritti riportati sulle Costituzioni di diversi paesi del mondo. Ma è un grande errore illudersi che questi diritti vengano sempre rispettati e ovunque garantiti. Ascoltando i racconti dei nostri nonni, l’impressione è che un tempo la libertà fosse di gran lunga maggiore e migliore di quella del nostro secolo: lo spazio privato è stato sempre più inglobato in quello pubblico, lo spazio per l’esercizio della libertà è diventato sempre più controllato e sempre più ristretto. Si sono fatti passi in avanti in molti casi, ma in altri si è tornati molto indietro (ma questo, d’altronde, è il meccanismo con cui funziona la Storia).
Nell’anno del 350o anniversario dell’opera spinoziana, sarebbe cosa giusta rispolverare le prime dichiarazioni dei diritti umani, diritti che gli Illuministi definirono, con un coraggio eccezionale e invidiabile, naturali e, per questo, inviolabili.