Lo sport fa spesso storia, non ci si è mai stancati di dirlo all’interno di questa rubrica. Talvolta impiega anni a costruirla, talaltra la genera con un atto, in un istante, e ci si rende subito conto di esserne al cospetto.
Contribuì a farla, ad esempio, lo scorso giugno, quando alle donne iraniane fu permesso per la prima volta di entrare all’interno di uno stadio per assistere al match dei Mondiali in Russia contro la Spagna. Ne fu parte integrante anche nel 2012, quando alle Olimpiadi di Londra due donne saudite parteciparono, seppur da comparse, alle gare di alcune discipline a cinque cerchi.
Ora proprio l’Arabia Saudita e le donne sono al centro del dibattito, nazionale e non, che vede coinvolte Juventus, Milan e la decisione da parte della Lega Serie A di far disputare la finale di Supercoppa Italiana il prossimo 16 gennaio a Jeddah, proprio nel Paese principe del mondo saudita, dove le donne potranno accedere allo stadio solo in un settore a loro dedicato e chiamato, quasi per celarne il vero contenuto umano, families. Mentre scrivo queste righe, secondo il tool analitico hashtag.org, su Twitter si viaggia al ritmo di 1.500 tweet all’ora sul tema (#SupercoppaItaliana).
Si è detto, si è scritto. Ma la verità qual è? La verità non c’è, come sempre, ma si può ragionare sugli elementi in discussione per poter prendere una posizione sensata.
C’è in primis un Paese di cui molto si pensa di sapere ma non tutto verosimilmente si sa. L’Arabia Saudita è per definizione un regime islamico fondamentalista. Il re è Salman bin Abd al-Aziz, ma il nome forte è quello di suo figlio e principe ereditario Mohammed bin Salman. Per rendere l’idea del suo peso nella nazione, basti sapere che ad inizio 2019 la corazzata Netflix ha sospeso un episodio in cui lo showman Minhaj lo derideva, per non urtarlo.
Ci sono poi sentenze e ricerche. L’Arabia Saudita è collocata al 138esimo posto su 144 nell’indice stilato nel 2017 sulle pari opportunità. Per Amnesty International, invece, “in Arabia Saudita sono state effettuate diverse esecuzioni di attivisti sciiti e molti altri sono stati condannati a morte al termine di processi gravemente iniqui”.
C’è, o meglio c’era, un giornalista di nome Jamal Khashoggi, assassinato lo scorso 2 ottobre mentre si trovava ad Istanbul, in un attentato di cui sarebbe “personalmente responsabile” (parole del Senato americano) lo stesso principe ereditario.
C’è poi una religione, l’islam, che nella sua accezione wahhabita porta con sé concetti portanti come quello del wali, il guardiano di famiglia nonché uomo, e di khalwa, l’illecita promiscuità tra uomo e donna. Concetti limati e levigati proprio negli ultimi anni, concedendo aperture al mondo femminile, che per un comune occidentale suonerebbero semmai come chiusure, ma che sono pur sempre dei passi in avanti (accesso al cinema e negli stadi se accompagnate, possibilità di praticare sport e di guidare un’automobile).
Ci sono, poi, cambiando emisfero, due squadre chiamate a scendere in campo, piene zeppe di giocatori professionisti appartenenti ad etnie, culture e tradizioni diverse. Una di queste, per assurdo, viene anche chiamata “Vecchia Signora”, per celebrarne l’eleganza e lo stile, che, così vuole la tradizione, in Italia sono da sempre accostate proprio alle donne.
C’è, infine, un movimento, come quello calcistico italiano, che, seguendo una linea ormai in voga nello sport mondiale, risponde al concetto di business for business, ovvero degli interessi che guidano l’attività finanziaria di un club. Si spiega con i 22,5 milioni di euro promessi proprio da quel principe ereditario e da suo padre alla Federazione la scelta di quest’ultima di far disputare tre delle prossime cinque finali di Supercoppa Italiana proprio là, in Arabia Saudita.
Ecco, questo è già un sufficiente quadro esaustivo. Una storia di distanze religiose, incontri culturali e soldi, tanti soldi.
Ah, no. C’è ancora un elemento.
C’è uno Stato, quello italiano, che, in buona compagnia con gran parte del mondo occidentale (il presidente Usa, ad esempio, smentì le parole del “suo” Senato sopracitate per il caso Khashoggi, in un modo del tutto anomalo), vede in quell’Arabia Saudita un pozzo di soldi. Ancora, maledettamente loro. 3 miliardi di esportazioni all’anno dallo Stivale al Paese del principe ereditario, 1,5 miliardi in armi negli ultimi sette anni. Cifre rispetto alle quali anche quei 22,5 milioni sembrano briciole.
Un tempo si giocò un Mondiale per placare le ire di un popolo (quello delle madri di Plaza de Mayo, in Argentina, nel 1978) e molte Olimpiadi presero piede in Stati nevralgici per gli equilibri diplomatici mondiali per celare interessi di ogni genere. Oggi l’equilibrio tra economia e politica sembra pendere maggiormente dalla parte della prima, ma tutto dipende ancora da quei due fattori. O almeno, questo sembrano suggerirci gli elementi presi in esame.