20 febbraio. Milano Malpensa direzione Dar Es Salaam. La partenza è arrivata, mi butto a vivere il mio sogno. 23 febbraio. Iringa, nel cuore della Tanzania. Questa sarà la mia casa per i prossimi sei mesi. In queste prime settimane tutto è entusiasmante ma ancora nuovo, quindi difficile da capire.
Questi sono solo alcuni momenti di questo mio nuovo pezzo di strada.
Cammina di fianco a me sulla strada che porta al mercato principale di Iringa un uomo che probabilmente vende macheti perché ne ha una decina in equilibrio sulla spalla sinistra.
Saliamo in cinque su un dalla-dalla (pulmino 9 posti) già pieno ma non partiamo fino a che non siamo una trentina. Il concetto di spazio africano è più un concetto di non-spazio.
I soliti due anziani che tornano tutte le sere a casa lungo la strada sterrata che porta al nostro cortile tenendosi per mano. Lei è cieca, lui la sorregge indicandole il cammino.
Dal campo di grano alla nostra destra sbuca un bambino. Poi un altro. Poi una bambina. Escono fuori quattro fratelli.
Habari? Nzuri sana!
Qualcuno urla “Wazungu” da dentro una casetta di fango con il tetto di lamiera. Sbucano tre o quattro bambini, dopo di loro la madre. Lei grida qualcosa che non capiamo al più piccolo. Lui si avvicina, ci fa capire che dobbiamo abbassarci alla sua altezza, ci inginocchiamo e lui ci mette le mani sopra il capo dicendo: Shikamoo (letteralmente: mi prostro a te, è usato per salutare le persone più anziane o di rango più elevato). Noi, impacciati, rispondiamo: Marahaba (cioè, ti accolgo).
Ai bordi delle strade piccoli barbecue artigianali che cuociono pannocchie. La vita accade ai bordi delle strade qui.
Mambo? Poa!
Bambini in uniforme blu e bianca: pantaloni, camicia e maglioncino.
Bambine in uniforme blu e bianca: gonna a balze, camicia e maglioncino.
Le strade sterrate con le piogge si colorano di rosso vivo. Le pozzanghere riflettono il verde rigoglioso della vegetazione di questa zona.
L’unica strada asfaltata è piena di dossi per la velocità. I tanzani non guidano, sorpassano. Prevalentemente in salita ed in curva. E suonano il clacson, ossessivamente.
Shikamoo baba. Shikamoo mama.
Ai bordi delle strade si snodano i villaggi: baracche di venditori ambulanti, case in fango e paglia, alcune in mattoni. La baracca verde con il biliardo dentro e attorno 5 o 6 ragazzi che ci giocano e quando ci vedono ridono.
Bambini che tornano a casa da scuola al tramonto con in mano una zappa e una piccola scopa di paglia.
Habari yako? Nzuri sana, na wewe?
Il muezzin che intona il suo canto: ok, sono le 4.
Il tramonto trasforma il cielo in un oceano. L’orizzonte è un incastro di montagne e nuvole. I colori cambiano di continuo. Azzurro, rosa, rosso, arancione, viola, blu. La notte cala in mezz’ora – ma quella mezz’ora è sacra. Un inno alla bellezza e all’immensità. Ovunque ti giri c’è cielo. Tanta bellezza non può essere racchiusa in un solo sguardo. Figuriamoci in qualche parola. È emozionante constatare questo limite.
Insetti. Insetti ovunque. Insetti nelle confezioni del pane. Insetti nel forno. Zanzare nelle zanzariere.
“L’importante è che pensiate sempre a voce alta!”
Piccoli pezzi di una piccola vita in una piccola città di una immensa Africa.
Foto di Chiara Ragno