Ancora oggi, quando chiediamo a qualcuno di “correre come una ragazza” o “battersi come una ragazza”, che si tratti di un uomo, una donna, un bambino o una bambina, spesso la risposta che si ha è caratterizzata da movimenti aggraziati e risatine isteriche. Perché ci hanno insegnato che “è così che fa una ragazza”.
Fin da piccoli, infatti, siamo stati abituati ad una differenza abissale quanto concettuale, quella tra maschio e femmina: all’asilo, per esempio, le bambine avevano il grembiulino rosa, con ricamata una ballerina o una principessa, mentre i maschietti grembiulini blu con immagini di supereroi o automobili. Crescendo, poi, ci siamo accorti che, in realtà, anche le ragazze possono guidare un’automobile, e Catwoman e la Vedova Nera ci hanno insegnato che anche le supereroine possono salvare il mondo.
Eppure, con il tempo, fare le cose “come una ragazza” è diventato non solo un modo per caratterizzare il genere femminile, ma anche per sbeffeggiare il genere maschile; perché dire a un uomo di “battersi come una ragazza”, o peggio “come una femminuccia”, significa, nel senso comune, privarlo di quella che pare essere l’unica caratteristica che lo rende davvero forte e rispettabile: l’essere uomo, “maschio”, appunto.
Questa caratterizzazione negativa del femminile, che va avanti da tempi remoti e di cui già Aristotele scriveva, si insinua nel tessuto della nostra società, e ci porta inconsciamente a categorizzare gli atteggiamenti femminili in maniera superficiale e sessista. Perché, se ci si ferma ad osservare la realtà, una ragazza corre esattamente come un ragazzo: mette in movimento un piede dopo l’altro, attiva gli stessi muscoli; lo fa per sport, per divertirsi, per scappare da situazioni di pericolo. E lo stesso vale per qualunque altra situazione quotidiana. Non esiste un modo di fare da ragazza o da ragazzo, esiste semplicemente un modo di fare da esseri umani.
Eppure, l’istinto ci porta a pensare ad azioni diverse, con modi e finalità diverse e con diversi livelli di credibilità. Questo istinto non inficia, però, la sola lingua parlata, ma porta a considerare le attività femminili come attività di serie B, e, per osmosi, le ragazze come capaci di svolgere sole attività di serie B. Relegate alla sfera della cura, della gestione della casa, alla sfera dell’emotività e tagliate fuori da quella della forza (fisica, ma anche morale), le donne sono viste come “esseri speciali e aggraziati”, come se la loro umanità non appartenesse alla stessa categoria umana maschile.
È tempo di uscire da questo schema duale non comunicante, e di aprire gli occhi alla realtà: uscendo di casa, guardando la televisione, leggendo i giornali, non vediamo donne che fanno cose da donne e uomini che fanno cose da uomini, ma uomini e donne che fanno cose da persone umane. Il distinguo sta tutto qui: continuare ad utilizzare la locuzione “come una ragazza” in maniera spregiativa porta ad una più o meno conscia svalutazione del femminile. Essere consci di questo risvolto potrebbe portarci a comparare in maniera molto più realistica gli atteggiamenti femminili e maschili, riconoscendo che fare le cose “come una ragazza”, in effetti, permette di raggiungere i propri obiettivi, superare i propri limiti e andare oltre le differenze, e che, quindi, funziona.
Perché non c’è niente di male o svilente nell’essere una ragazza, quindi non dovrebbe esserci alcunché di svilente nemmeno nell’agire “come una ragazza”.