Dici lotta al razzismo e pensi a Martin Luther King. Pensi a chi per lottare contro la segregazione ha speso anni della propria vita in carcere e non puoi non immaginare la sofferenza di Nelson Mandela nelle prigioni inglesi. Ti viene alla mente che anche lo sport è stato strumento per questa lotta e ti ricordi di Cassius Clay, alias Mohammed Alì e del mito che i suoi pugni hanno rappresentato per una generazione di ragazzi di colore. C’è chi, però, senza restare nell’immaginario collettivo come gli esempi citati, ha vissuto la battaglia antirazziale convogliando in sé tutte le caratteristiche dei predecessori. Il suo nome era Rubin Carter ma per tutti fu The Hurricane, L’Uragano. Perché come un uragano i suoi pugni scagliati sul ring atterravano avversari, trasformandolo nel giro di pochi anni, all’inizio dei Sixties, in uno dei più accreditati candidati per contendersi il titolo di Campione Mondiale Pesi Medi, il massimo riconoscimento internazionale nel mondo della boxe per chi non supera i 72.57 kg di peso. Pugni sferrati con potenza, per cancellare lo scomodo ricordo di un passato segnato da furti, risse ed atteggiamenti violenti anche, e soprattutto, durante il servizio militare.
Poi, un gradino sotto il raggiungimento dell’Olimpo, quel 17 giugno 1966. Quel giorno, alle 2.30 di mattina, un triplice omicidio nel “Lafayette Bar and Grill” di Paterson, nel New Jersey, avvicinò per la prima volta ed in maniera indissolubile Rubin Carter, detto The Hurricane, e la lotta razziale. A compiere quel terribile atto, forse frutto di una rapina non riuscita, furono due uomini di colore, così dichiararono i testimoni, scappati a bordo di un’auto che, guarda caso, coincideva, per modello, a quella che Carter stava guidando, in compagnia di un amico, qualche isolato più in là. L’arresto, conseguente all’errore nel riconoscimento dei colpevoli da parte di alcuni testimoni, avvenne trenta minuti dopo. La condanna ineccepibile: carcere a vita per Carter e per l’amico Artis. Seguirono due decenni di processi, contro-processi e ritrattazioni dei testimoni, nel corso dei quali Carter, dal carcere, scrisse una forte autobiografia, intitolata “Il sedicesimo round: da sfidante numero 1 a numero 45472”, ricevendo il sostegno dello stesso Mohammed Alì e di Bob Dylan, che gli dedicò una canzone, passata alla storia, intitolata appunto Hurricane. L’ingiustizia a sfondo razziale era sotto gli occhi di tutti, così come la pressione esercitata dai giudici sui testimoni affinché riconoscessero in Carter ed Artis i colpevoli di quella notte, ma solo nel 1985 il giudice della Corte Federale Haddon Lee Sarokin sentenziò che il processo non era stato equo, in quanto fondato su un’accusa “basata su motivazioni razziali”.
Ancora una volta gli Usa, come spesso fecero in quegli anni, condannarono e rinnegarono se stessi, riconoscendo ad un uomo di sport la possibilità di tornare a respirare aria di libertà, che di uno sportivo rappresenta l’essenza. Rubin The Hurricane Carter era ormai troppo vecchio per tornare a combattere ma ricevette comunque la cintura di Campione Mondiale come riconoscimento per la sua lotta sul ring dell’ingiustizia. Gli Stati Uniti, in cui nel 1966 ancora vigeva una legge che poneva delle restrizioni legali razziste sui matrimoni, a circa quarant’anni di distanza dal caso Carter hanno eletto per la prima volta un presidente afroamericano, stendendo per ko (o quasi) un nemico colpito a più riprese nel corso dei decenni da un’infinità di pugni. Proprio come un Uragano.
La storia di Rubin Carter in film, opere e musica.
Libro: “The Sixteenth Round: From Number 1 Contender to #45472”, R. Carter, 1974.
Film: The Hurricane, 1999
In musica: Hurricane, Bob Dylan, 1975