Entrò, portando in una mano la borsa con i libri e nell’altra un plico di fogli, e lasciò la porta aperta dietro di sé. Nell’aula si respirava quell’atmosfera di tensione tipica dei compiti in classe.

Chiese a un ragazzo di distribuire le fotocopie e cancellò, con calma, gli esercizi scritti alla lavagna durante l’ora precedente.  Guardando quei numeri e simboli di cui non aveva mai capito nulla sperò che nessuno dei suoi alunni provasse per la sua materia ciò che lui aveva provato per la fisica. Se l’avesse saputo si sarebbe sentito vuoto, senza senso, proprio come quelle formule.

  • Prof, quanto tempo abbiamo?

La voce della ragazza lo distolse, fortunatamente, da quei pensieri.

  • Tre quarti d’ora. Così vi abituate per l’esame.

Il prof ignorò chi borbottava che era troppo poco, che l’esame era tra mesi e chi per adesso non voleva preoccuparsene.

Mentre tutti scrivevano, il professore cominciò ad assaporare il suo momento preferito: in questi casi non staccava gli occhi dai suoi studenti, non per controllare che non copiassero, ma perché era l’unica occasione in cui poteva osservarli davvero. Uno per uno. Finalmente i suoi studenti smettevano di essere una massa grigia di persone tutte uguali, come durante le lezioni, e i loro visi si illuminavano di luci, ognuna diversa dall’altra.

Lo sguardo gli cadde su un volto preoccupato, la classica alunna del “non so niente” che alla fine qualcosa di buono da quella mente tira fuori. Avrebbe voluto tranquillizzarla, dirle che era sicuro che il suo compito sarebbe stato buono, ma sapeva che un’affermazione del genere l’avrebbe mandata ancora più in panico.

Spostò l’attenzione su uno di quei ragazzi che studiano poco e riescono bene, un po’ perché hanno buona memoria, un po’ perché sanno come cavarsela anche quando non hanno idea di che cosa riguardi una domanda e un po’ perché li aiuta una buona dose di fortuna. Lui non aveva un’espressione agitata, e probabilmente quel compito lo viveva come una sfida, che fosse tra lui e il libro che avrebbe dovuto leggere o tra lui e il prof, faceva poca differenza.

E poi c’era quello che tutti i suoi colleghi definivano uno studente modello, l’aria tranquilla di chi sa di sapere tutto ciò che gli è richiesto e senza dubbio anche di più. L’insegnante aveva l’impressione che non studiasse la sua materia per interesse, ma semplicemente perché non poteva permettersi di far abbassare la sua media spaziale.

Si stava chiedendo se fosse giusto spiare i suoi ragazzi, quando si accorse che i fatidici tre quarti d’ora erano passati. Comunicò la fine alla classe e attese, giocherellando con una penna, che ognuno si arrendesse e consegnasse il suo foglio.

Lasciò calmare gli animi e sapendo di andare incontro a un mare di proteste annunciò: – Nei dieci minuti che ci restano vorrei spiegare un po’.

Non si era sbagliato. Fu investito da onde di “No, prof, per favore, non ce la possiamo fare”, ma insistette.

Si sedette sulla cattedra e rassicurò: – Non è nulla di pesante, promesso. Dai, ditemi che ne pensate dei canti della Divina Commedia che abbiamo letto dalla terza fino a ora.

In tutta risposta ricevette smorfie e sguardi in cui leggeva un forte e chiaro “Sei sicuro di volerlo sapere?”.

  • Ok, ora ditemi se vi è mai capitato di provare un po’ di invidia per Dante o per Beatrice. No? Allora non l’avete capito. Altrimenti sono sicuro che invidiereste a morte uno dei due. Non ditemi che non vorreste trovare una persona che vi ama così tanto da scrivere, ispirandosi a voi, l’opera d’arte più bella del mondo. Oppure che non vorreste poter regalare alla persona che amate qualcosa di meraviglioso, il meglio che sapete fare, il meglio che chiunque saprebbe fare. Ragazze, ma se qualcuno vi dicesse “Ti ho fatto un disegno” e vi mostrasse, non so, la Cappella Sistina, non accettereste di andare a prendere un aperitivo con lui? Un’occasione se la guadagnerebbe, no?

Vide venti facce cambiare espressione, le osservò accendersi, capì che finalmente era riuscito a farli sentire vicini a un autore vissuto settecento anni prima. A un autore così “sfigato” da non essere riuscito a comunicare il suo amore alla donna che amava, se non narrandolo in tantissimi versi.

Si rese conto di aver ritrovato lo scopo del suo mestiere che da tempo aveva messo in dubbio. Quelle espressioni, quelle mani alzate erano il motivo per cui aveva voluto fare scuola. Ora negli sguardi dei suoi alunni vedeva voglia di ascoltare. E lui si accorse di essere uscito dai sui libri, che tanto aveva sentito vicini, dopo anni in cui vi si era nascosto. Era il momento di accompagnare quei ragazzi attraverso le loro pagine, perché esse potessero parlare a qualcun altro. Perché potessero continuare a parlare infinite volte.

 

Anna Mondino