Cesare Pavese

«L’unica gioia al mondo è cominciare. È bello vivere perché vivere è cominciare, sempre, ad ogni istante.»

E invece, una dozzina d’anni dopo, chi scriveva questa annotazione nel suo diario alla pagina del 23 novembre 1937 si toglieva la vita in un afoso agosto torinese del 1950.

Sto parlando di Cesare Pavese, nato nel 1908 a Santo Stefano Belbo in provincia di Cuneo, un paesino nelle Langhe che diventerà presto il fulcro del suo percorso interiore, letterario e poetico. In quel paese, infatti, congiungeranno l’universo mitico, l’attrazione verso gli antichi e la sfera della solitudine che lo contraddistingueranno per tutta la durata della sua breve ma intensa esistenza. Pavese ci ha lasciato così infiniti scorci paesaggistici delle Langhe, nonostante abbia trascorso gran parte della sua vita e formazione a Torino. Questi luoghi, più che mai, gli sono cari durante l’esilio da parte del Fascismo a Brancaleone, in Calabria. Pavese qui scrive un romanzo sulla sua condizione di esule, “Il carcere”, sentendosi lontano da ciò che lo circonda, avvertendo che l’unico luogo per combattere la sua battaglia si trova a casa, dinnanzi alle sue terre, perché se non troviamo accoglienza nel luogo che ci ha cresciuti, non la troveremo da nessuna parte.

Un paio di anni dopo il ritorno a Torino, nel 1938, diventa ufficialmente redattore di casa Einaudi. Questo periodo è segnato da infaticabile lavoro e dedizione e presto la casa editrice diventa tutto, nonostante gli sgarbi e le arrabbiature di cui Pavese scrive nei carteggi, spesso ironici, con Giulio Einaudi. Negli ultimi anni ha modo di lasciare una traccia indelebile nella persona di Italo Calvino, di cui intuisce subito la grande intelligenza e l’abilità nello scrivere. Calvino, pochi anni dopo la morte del maestro, lo ricorderà così: «Vero è che non bastano i suoi libri a restituire una compiuta immagine di lui: perché di lui era fondamentale l’esempio di lavoro, il veder come la cultura del letterato e la sensibilità del poeta si trasformavano in lavoro produttivo, in valori messi a disposizione del prossimo, in organizzazione e commercio d’idee, in pratica e scuola di tutte le tecniche in cui consiste una civiltà culturale moderna». 

Pavese, forse più di un importante saggista, traduttore, redattore e scrittore, è stato un poeta e soprattutto un uomo. Le poesie l’hanno accompagnato per tutta la vita, da Lavorare stanca a Poesie del disamore, camminando fianco a fianco durante un percorso colmo di solitudine, nostalgia, dolore e un grande, inestinguibile vuoto. Pavese cerca nella letteratura uno sbocco, una via di fuga per disfarsi dei suoi sentimenti e trovare quella che lui chiama «simpatia totale».

La «simpatia totale» è forse il vero campo di battaglia su cui Pavese combatte tutta la vita; il desiderio di provare amore per una donna, e di legarsi a lei indissolubilmente, diventa così il luogo in cui cercare l’infinito e alleviare il dolore di vivere. La sua vita è un’attesa continua, «interminata», se volessimo citare un altro celeberrimo autore che dialoga col dolore universale che avverte fin dalla più tenera età: Leopardi. Soffocato dentro la sua abitazione a Recanati uno, alimentato dalle Langhe l’altro; i due poeti vengono a collidere nella congiunzione eterna tra amore e morte. Quando non troviamo l’amore, spunta fuori la morte. Pavese scriveva: «Verrà la morte e avrà i tuoi occhi». Ecco, io continuo a domandarmi quali occhi vedesse riflessi nello specchio l’uomo che, in una torrida giornata estiva torinese, saliva in albergo e ci lasciava perdonando tutti e chiedendo perdono a tutti.

Nazionalismo e Ambiente: l’ideologia dietro ai disastri climatici

Al giorno d’oggi, i danni ambientali provocati dall’agire umano sono inconfutabili e largamente noti. Allora come mai i provvedimenti a favore dell’ambiente sono ancora molto timidi (se non addirittura inesistenti)? Tale lentezza d’azione è spiegabile analizzando il sistema nazionalistico dominante.

Il nazionalismo è l’ideologia che permette a un gruppo di riconoscersi sulla base di motivi territoriali, etnici e soprattutto culturali (lingua, usi e costumi, religione). Il nazionalismo si fonda pertanto su un’implicita differenziazione tra esseri umani: riconoscersi in un gruppo significa voler tracciare una differenza tra un “noi” e un “gli altri”. Da ciò deriva che le nazioni si fondino sulla competizione per il prestigio nazionale, cioè su una continua crescita economica volta ad affermare la propria nazione sulle altre. Questo sentimento di competizione e presunta superiorità nazionalista ha una conseguenza negativa sulla salvaguardia ambientale.

Innanzitutto, volersi differenziare dagli altri uomini indica una mancata capacità di considerare l’umanità e lo spazio terrestre come entità uniche, compatte. Le nazioni si basano su un tratteggiamento di confini che rende frammentario lo spazio geografico e umano. Da ciò la duplice difficoltà a riconoscere problemi ambientali che avvengono al di fuori dei confini conosciuti e a riconoscere gli stretti rapporti tra la crisi di altre zone del mondo e il territorio nazionale.

Prendere atto che la crisi ambientale sia un fenomeno planetario significa uscire dalla logica nazionalista, una logica che – ricordiamo – permea la forma mentis europea da almeno due secoli (dalla Rivoluzione Francese) e quella mondiale da diversi decenni (dalle lotte anticolonialiste). In secondo luogo, la volontà di dimostrarsi migliori delle altre nazioni e di costruire di un orgoglio nazionale hanno condotto, nel mondo contemporaneo, al cosiddetto produttivismo, definibile come un’ideologia basata sulla convinzione che la produttività e la crescita di una nazione siano lo scopo ultimo dell’organizzazione umana. Il produttivismo è contemplabile solo in un contesto di infinite risorse e continua produzione. Tale caratteristica rende il produttivismo il principale colpevole dei disastri ambientali finora causati.

Infine, il principio di differenziazione nazionalistico ha spesso condotto a fenomeni di razzismo e discriminazione (a questo proposito è superfluo citare degli esempi), che hanno portato a tenere in bassa considerazione sia i territori che gli abitanti di alcune zone geografiche: ci si sente meno in colpa a devastare il territorio di una popolazione lontana e del terzo mondo, rispetto alla quale si nutrono diversi pregiudizi.

Ricapitolando, i tre fattori chiave che non solo impediscono un’azione in favore dell’ambiente, ma addirittura sono la causa stessa della sua devastazione, sono: la mancata capacità di avere una visione d’insieme, il produttivismo, la discriminazione razziale.

Esiste però un altro elemento fondamentale nel determinare le azioni umane nei confronti dell’ambiente, ovvero la percezione umana del rapporto uomo-natura, ben più antica del nazionalismo. La tendenza, fin dai tempi più antichi, di porre l’uomo al centro del mondo (addirittura nella convinzione religiosa che il mondo fosse stato appositamente creato per lui), conduce a vedere la natura come un’entità subordinata all’uomo e di sua appartenenza. È stata tale concezione secolare a comportare l’inizio dell’Antropocene, la nuova era geologica in cui l’agire umano è in grado di modificare la litosfera, l’atmosfera, l’idrosfera e gli equilibri dei processi biologici.

Per questo motivo, studiosi e ambientalisti tentano di situarsi in un contesto anti-antropocentrico, ossia in un panorama che pone l’uomo allo stesso livello della natura, che colloca l’umanità all’interno del mondo naturale, che la concepisce come una parte del tutto. Forse questo atteggiamento sarebbe il più efficace per tentare di frenare ciò che ancora si può contenere, tenendo comunque presente che ormai le conseguenze delle azioni umane non saranno cancellabili.

 Tutto quello che devi sapere sull’autonomia differenziata

Il senato ha da poco approvato il disegno di legge sull’autonomia differenziata delle regioni a statuto ordinario. Il provvedimento deve passare ora alla camera dei deputati prima di diventare legge definitiva. Ma che cos’è esattamente l’autonomia differenziata e quali sono le sue implicazioni?

L’autonomia differenziata rappresenta una modifica legislativa introdotta nel 2001, che ha portato ad una riforma del titolo V della Costituzione italiana. Questa modifica ha apportato significative revisioni all’articolo 117 della Costituzione delineando 17 materie di competenza esclusiva dello Stato, tra cui politica estera, difesa, giurisdizione e norme generali sull’istruzione. Le regioni sono invece responsabili di tutti i settori normativi non espressamente attribuiti allo Stato.
L’art. 116 della Costituzione consente alle regioni ordinarie di richiedere ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia. Tutto ciò però fino ad oggi non è mai stato attuato sicché le regioni hanno avuto un’autonomia normativa sostanzialmente limitata.

L’attuale introduzione di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia differenziata, proprio come previsto dall’art.116 della costituzione, avviene oggi tramite una legge ordinaria rinforzata. Questo tipo di legge richiede un processo legislativo specifico: deve essere approvata da entrambe le camere del parlamento con la maggioranza assoluta dei loro componenti.
Il disegno di legge Calderoli, proposto dal Ministro per gli Affari Regionali e le Autonomie, Roberto Calderoli, stabilisce le procedure legislative e amministrative per attuare l’autonomia differenziata.

Le regioni italiane, attraverso un processo di negoziazione con lo Stato avrebbero la possibilità di richiedere l’attribuzione di 23 diverse materie di competenza, tra cui salute, istruzione, ambiente, trasporti, cultura e commercio estero. Non vi è un numero minimo di materie che una regione può richiedere, garantendo così una flessibilità in base alle esigenze specifiche di ciascuna regione.
Tuttavia, il trasferimento di funzioni dalle competenze statali a quelle regionali avverrebbe solo dopo una conferenza tra lo Stato e le regioni e, soprattutto, dopo la determinazione dei “Livelli Essenziali delle Prestazioni” (LEP). Questo processo assicura che il trasferimento di competenze avvenga in modo responsabile e sostenibile, garantendo alle regioni le risorse necessarie per gestire efficacemente le nuove aree di competenza.

I Livelli Essenziali di Prestazioni rappresentano un elemento fondamentale nella concessione di maggiori forme di autonomia alle regioni, definendo il livello minimo di servizi che devono essere garantiti in modo uniforme su tutto il territorio italiano, indipendentemente dalle specifiche competenze trasferite. Essi stabiliscono le condizioni basiche che ogni regione deve rispettare per assicurare ai cittadini un livello di servizio adeguato e omogeneo.
Tuttavia, l’autonomia differenziata non è priva di controversie. Uno dei grandi terreni di scontro è quello delle tasse. Con l’autonomia differenziata le tasse di chi paga nella propria regione di residenza rimarrebbero in quella regione e non sarebbero ridistribuite a livello nazionale. Per alcuni questa è una cosa positiva perché le regioni non dovrebbero più condividere le proprie risorse con le altre, secondo altri è una cosa negativa perché i lavoratori fuorisede pagherebbero le tasse nella Regione di residenza e non in quella in cui usufruiscono dei servizi.

Chi sostiene l’autonomia differenziata pensa che la gestione delle risorse a livello locale potrebbe ridurre gli sprechi, in quanto chi è più a contatto con il territorio può conoscere meglio le esigenze del territorio stesso, e che questo abbia un effetto positivo a cascata su tutto il paese. Inoltre sarebbe più facile per i cittadini controllare l’operato dei politici.
Chi è contro sostiene che le risorse delle regioni più ricche non verrebbero ridistribuite a livello statale e che quindi verrebbero lasciate meno risorse alle regioni considerate più fragili. Inoltre si sottolinea come si abbia già sperimentano in parte l’autonomia differenziata nella sanità il cui risultato è stato una grande disparità tra nord e sud.

In conclusione, l’autonomia differenziata rappresenta una sfida significativa per il sistema politico italiano, poiché cerca di bilanciare la decentralizzazione del potere con l’unità nazionale, promettendo maggiore efficienza e responsabilità a livello regionale, ma sollevando al contempo importanti interrogativi sull’equità e sulla coesione del Paese.

Davanti alla pagina bianca

Lo scorso novembre la redazione di 1000Miglia era alla ricerca di nuovi membri. Fu così che scelse di rivolgersi ai mezzi di comunicazione più efficaci in assoluto: i Google Form. La reazione è stata inaspettatamente vivace e variegata. Ed eccoci qua, allora, a leggere alcune delle risposte che abbiamo ricevuto. 
Nel modulo Google abbiamo dato tre input di scrittura creativa: il primo era “IMMAGINA DI ESSERE UNO/A SCRITTORE/SCRITTRICE CHE DEVE INIZIARE IL SUO NUOVO LIBRO. TI TROVI DAVANTI ALLA PAGINA BIANCA. COME COMINCIA LA TUA STORIA?”
I seguenti sono stati gli incipit che ci hanno colpito di più.
Buona lettura!

 

 

Vi è mai capitata quell’impressione, quella sensazione di essere stati catapultati in un altro universo? Dove tutte le regole che conoscevate e davate per scontate non valgono più? A Jace è successo. A diciassette anni, una delle età più belle e allo stesso tempo più difficili della vita umana, si era dovuto trasferire dal frenetico centro di Roma, dove abitava con i suoi genitori, in uno sperduto paesino disperso nella campagna piemontese.

 

 

Quasi non ricordavo più come ci si sente ad avere le punte dei piedi blu. La nonna me lo diceva sempre, quando camminavo nella neve senza i doposcì. Diceva: «Qui non è come in città, non bastano mica le scarpe da ginnastica, neh. Se ti vengono i piedi blu io poi non tengo accesa la stufa tutta la notte».
Adesso, dopo anni di vita sfiorando l’Equatore, ho di nuovo i piedi blu. E lo stesso freddo che ormai si è preso il mio alluce, mi entra nelle narici e mi gela i capelli. Profuma. Profuma di freddo, e di pulito.
Tutto attorno a me è bianco. Chirurgico. Il sole non si vede, è dietro la montagna.
Non esistono ombre e sembra non esistere nulla. Nemmeno gli animali si fanno sentire. La cascata non scende più, è andata in letargo anche lei, protetta dallo strato di ghiaccio che ha fermato le sue gocce. Soltanto il vento sibila di tanto in tanto, quasi a volermi ricordare che anche se sono stata lontano per molto tempo, quel posto esiste ancora.

 

 

Non c’è nessun altro oltre me.
La pioggia sbatte contro la finestra, i lampi fotografano la stanza e gli infissi tremano, soccombendo ai colpi dei tuoni.
La solitudine mi incatena sulla logora poltrona che mi accoglie.
Mi è stato dato un unico compito.
Io, che tutta la vita l’ho percorsa di corsa, ora devo aspettare, e, aspettando, scontrarmi con la mia più cruenta compagna: me stessa.
Ho sempre temuto ma non immaginato il silenzio che ora mi strangola, l’assenza totale di calore umano che ora mi raggela il sangue nelle vene. Morire da sola è una di quelle paure che m’attanagliano tanto fortemente che sembra impossibile possano uscire dall’abbecedario dei miei incubi e materializzarsi nella realtà. Ci penso soltanto di sfuggita, sottovoce, velocemente, per attimi, così come si sfiorano le tragedie.

Guardo l’orologio. È fermo.

Immutato, stride contro la processione dei minuti che lentamente sgocciolano uno dietro l’altro, cadendo sul mio cuore, deformandone la superficie.
Goccia dopo goccia.
Mi porto le mani al petto, ne ascolto il battito. Sono ancora viva.
Stendo le mani dinanzi a me: bianche, affusolate, lunghe, simili a ragnatele che imprigionano gli angoli di vecchie cucine. Mi chiedo a cosa sia servito che queste mani ne abbiano strette altre in vita, raccolto speranze, accolto lacrime, legato intrecci, stipulato accordi, sostenuto ribellioni, coltivato l’amore.
Nulla ha potuto evitare che ora rimanessi sola con me, senza alcuna carezza altrui per sincerarmi che il mio volto sia ancora caldo e roseo, non ancora cadavere.
Non mi resta che aspettare: o la morte, o che apra gli occhi, ponendo fine a ogni assenza e sperando di venir investita dal tiepido vento della fiducia, che ho così riposto a fatica nelle intenzioni altrui. Non cercare rassicurazioni, non guardarmi attorno alla ricerca di un’ombra familiare, non immaginare il legno che scricchiola sotto il peso dei passi: questi i miei atti di coraggio. Fidarmi totalmente, aspettare, depredata dei miei sogni futuri, mentre la furia della paura annichilisce ogni progetto.
Mi chino in avanti, dondolando per tranquillizzarmi, come se fossi su un’altalena, in giardino, a bearmi delle luci e dei toni aranciati del tramonto. Invece mi lascio ipnotizzare dal tappeto rosso. E immagino che, intriso del mio sangue, sgoccioli, impregnando il parquet, e che il sangue sgattaioli al di sotto della porta che mi separa dalla bufera che impervia fuori, e richiami a me il mondo esterno.
Le pareti di questo vecchio salotto mi tengono in ostaggio: invalicabili, se vi fossero degli astanti, alle urla di una folla. Si beffano di me, ghignando, i ritratti che costeggiano il caminetto, ove nessun legno brucia e tutto è pece e cenere.

Guardo l’orologio. È ancora fermo.

Mi alzo in piedi, le gambe mi reggono ancora; mi soffermo a ricercare il segno del passaggio di un’anima viva, non demoniaca come le creature che ribollono dentro di me e mi invitano a consegnarmi all’oscurità per sempre.
Non c’è nessuna impronta sulla polvere che riveste il tavolo, terreno di conquista dei numerosi suppellettili di cristallo di famiglia. E nessuno tra questi che sia stato mosso, frantumato, spostato.
Mi chiedo se preservo la possibilità di lasciare un’impronta, se sono ancora capace di imprimermi nel mondo, ora che il mondo non c’è a definirmi.
Il silenzio mi distrugge i timpani, assordante quanto l’incertezza che mi lega a pensieri e paranoie.
Allora piego il capo all’indietro, guardo il lucernario che si staglia contro di me offrendomi uno spicchio di cielo grigio, riempio i polmoni e, diretta contro il cielo, urlo, a più non posso, come mai ho fatto, sino a che le orecchie non mi scoppiano e la gola non mi duole, graffiandomi.

Ancora, silenzio.
Neanche l’eco risponde.

 

Quella sera le lampade della locanda rendevano ancora più soffocante il rosso carminio della tappezzeria. Sospirando lasciai ricadere il bicchiere sul tavolo ormai divenuto il mio appuntamento fisso oltre il crepuscolo.
Mi stavo già slanciando a prendere una boccata d’aria, dopo aver appoggiato distrattamente il conto accanto al bicchiere, quando, improvvisamente, gli altri clienti si trascinarono meccanicamente verso le pareti, lasciando un ampio spazio sgombro al centro della sala. Ero l’unico a non sapere che cosa stesse succedendo, e questo mi indusse a fermarmi qualche istante in più davanti all’uscita del locale.
Poi apparve lei.
Alla sua vista, senza che neanche me ne accorgessi, la mia mano scivolò via dalla maniglia e mi ritrovai seduto ad un tavolo vuoto. Ero troppo orgoglioso per domandare ai miei vicini chi fosse quella donna, ma di bocca in bocca si sussurrava del Fiore Nero.
Non potevo essere un qualunque spettatore per cui smerciare il suo balletto. Decisi che non le avrei staccato gli occhi di dosso, il mio sguardo come spina che punge ad ogni giravolta. Quella misteriosa danzatrice si impadronì dei miei pensieri.
Fu così che la mia affannosa ricerca per dare un nome, una storia e un’origine al Fiore Nero ebbe inizio.

Lettere di uno sconosciuto (regia di Zhang Yimou)

(Recensione film)

…e se andrà avanti così, alla fine per lei sarò solo uno che legge le lettere.”
(da Lettere di uno sconosciuto, regia di Zhang Yimou)

Quando il marito Lu (Chen Daoming) viene allontanato per motivi politici dalla moglie Feng (Gong Li) quest’ultima, ribellandosi alla separazione, subisce un forte trauma cerebrale, perdendo per sempre la capacità di riconoscere il volto dell’amatissimo marito, anche quando questi, dopo 20 anni, riesce a ritornare a casa.
Il velo dell’oscurità cala sugli occhi di Feng: infrangibile e sottile, impenetrabile anche quando ritorna la luce che tanto gli era mancata.
Laddove dentro di sé è scomparsa ogni speranza, si perde la capacità di accettare la felicità, una seconda opportunità di vivere. La sofferenza diventa un’abitudine che, patologica, penetra nel corpo e nell’anima, e irrompe tra i tessuti con le sue robuste radici, che nonostante tutti gli sforzi, non si possono estirpare.
Ma non sarà vano quell’amore delle persone care, che cercherà instancabilmente di insinuarsi tra queste radici, di corroderle: mentre Feng continuerà ad aspettare quell’amore che non è in grado di vedere, Lu dovrà accettare di calare nelle tenebre per prendere la moglie per mano e percorrere assieme il cammino del dolore.

L’amore è gioire e soffrire insieme.

Non è una recensione di Perfect days

Andare al cinema la domenica sera, in inverno, col freddo fuori e la pioggia, suona proprio bene. Io e la mia amica andiamo con largo anticipo, siccome il giorno prima i miei non sono riusciti a vedere il film per la troppa gente che aveva prenotato il biglietto prima di loro. Paghiamo e attendiamo fuori. Non so cosa aspettarmi: ho visto il trailer, ma non conosco bene il regista, non ho visto nessun altro suo film, nonostante mio padre rimarchi sempre la bellezza della storia di “Il Cielo sopra Berlino”. Sono però convinta che valga la pena guardare Perfect Days, perché la mia amica è appassionata di cinema più di quanto lo sia io e ha insistito perché andassimo insieme. Ci avviamo nella sala, ben riscaldata, le luci si spengono, sullo schermo compare lo stemma del Festival di Cannes, inizia la magia. 

Le recensioni che avevo letto non mentivano: non smetteresti mai di guardarlo. Ed è stato così anche per me. Nonostante nelle immagini che vedevo, non ci fosse un’adrenalina che non ti fa stare fermo, né un’ansia per un giallo da svelare, né la paura di un thriller. C’è la vita quotidiana di una persona umile, che ha trovato il suo modo di esistere nel mondo. Da subito mi sono sentita vicina, empatica nei confronti di Hirayama, calma e quieta nel vedere il suo modo di vivere la vita.

Lunghi piano-sequenza, che rivelano nulla di più che le azioni quotidiane che anche io ogni giorno compio: svegliarsi, lavarsi i denti, vestirsi, lavorare, mangiare, scattare fotografie, bersi qualcosa al bar, leggere un libro prima di dormire. Eppure il tutto è straordinario, perché il modo in cui il protagonista compie tutto ciò non è, probabilmente, il modo in cui lo facciamo noi: è sereno, sempre, e calmo, felice, tranquillo. Ma soprattutto, in ogni suo gesto c’è una cura e una delicatezza che mi manca, che manca a questo mondo in cui le cose si fanno perché si deve, non perché si vuole. Le cose che faccio sono per lo più fatte senza cura, di fretta, senza attenzione,  invece Hirayama mi insegna il contrario. Mi dice che ogni giorno conta. Che ogni attività che svolgo è importante, senza gerarchia, che ogni cosa che faccio necessita della stessa cura. Anche se il suo lavoro è lavare i bagni pubblici, ogni giorno, tutto il giorno, per una paga piccola e ristretta. Mi insegna che non bisogna fare qualcosa di assurdo, per essere sereni. Perché essere felici è una mia volontà, dipende solo e soltanto da me. E vorrei smetterla di incolpare cause esterne, altre persone, il fato, il destino. Smetterla di pensare al prossimo periodo di vacanza, al prossimo mese senza esami, al prossimo viaggio, rimandando la felicità solo quando avrò raggiunto quel periodo, quella libertà, quel momento, quella persona. “Adesso è adesso”, come dice Niko, la dolce nipote di Hirayama. Non ha senso focalizzarsi su ciò che manca, ed essere sempre infelici. Allora guardo piuttosto a tutto ciò che ho. Mi concentro su poche cose, ma fatte bene. Il segreto sta proprio nelle piccole cose, “quelle che fanno bella la nostra vita”. 

Grazie alla luce sempre calda che a volte è data dallo sguardo stesso del protagonista, e grazie alla quasi assenza delle parole, dei dialoghi, tutto è reso semplice, tutto scorre via veloce e leggero. L’atmosfera che arriva è calorosa e calma, non c’è fretta, né paura. C’è consapevolezza di stare vivendo attimo per attimo un momento unico ed inimitabile. Ho imparato quanto è bello il silenzio, quanto è difficile praticarlo, perché in realtà davvero parliamo troppo, diciamo troppo, non siamo più in grado di ascoltare o ascoltarci, troppo presi dal far valere la nostra opinione, far conoscere la nostra vita, condividere quello che facciamo. Non sappiamo stare da soli. Ma è solo in questa capacità che, forse, ritorniamo noi stessi, nella nostra semplicità di essere umani. Uomini e donne che si svegliano la mattina, si lavano, lavorano, danno spazio alle proprie passioni, e dormono. Quanto cambierebbe la mia vita se fossi in grado di apprezzare ogni piccolo gesto, di dare importanza a ogni piccola cosa che faccio? Quanto sarei più felice e serena se riuscissi a non pensare sempre al dopo, al domani, al futuro, ma godere della possibilità di adesso? 



Ricevi i nostri aggiornamenti

Ricevi i nostri aggiornamenti

Iscriviti alla newsletter di 1000miglia per non perderti nemmeno un articolo! Una mail a settimana, tutti i martedì.

Grazie per esserti iscritto!