Non solo cambiamenti

C’è una misteriosa energia dentro di noi, dentro ogni cosa e l’universo nel quale viviamo, che è la spinta propulsiva ad andare sempre avanti. È noto a tutti che nasciamo, cresciamo e impariamo. Progettiamo il lavoro, la casa e la famiglia che un giorno avremo. Crediamo in qualcosa, a volte lo sentiamo di più, a volte di meno, ma in fondo sempre ci speriamo. Che lo vogliate o meno, che ce lo impongano oppure no, fateci caso. In balia dell’onda a volte contraddittoria degli eventi che a volte ci oltrepassano senza seguito o che scoprono nuovi sentieri in noi, contro ogni possibile resistenza noi cambiamo.
Viviamo le nostre vite di corsa, fatte di scadenze, appuntamenti e conti alla rovescia, con stimoli ovunque, ormai assuefatti alle forti emozioni, e poi capita che ci fermiamo e avvertiamo improvvisamente di quanto sembriamo diversi rispetto al punto di partenza. Cambiamo si, ma spesso non lo percepiamo. E poi invece quante volte ci promettiamo di cambiare. Usiamo tutte le nostre forze, e così un giorno decidiamo di tagliarci i capelli, comprarci una maglia di un colore diverso dal solito o di andare dall’altra parte del mondo per cercare di pilotare questo cambiamento tanto agognato. Quindi ci guardiamo allo specchio, indossiamo la maglietta nuova, ritorniamo. Eppure sembra che non sia cambiato proprio nulla. Siamo sempre noi stessi, con i nostri spigoli più imperfetti. Il cambiamento è ingovernabile. Sono necessari i fatti affinchè si realizzi. Eppure ci ostiniamo a pensarlo come un qualcosa di attuabile secondo la nostra volontà. Ma non bastano le nostre deboli intenzioni, eppure sempre, costantemente, avviene. È mentre non ce ne accorgiamo che cambiamo. Il cambiamento si realizza ogni giorno, ma non si vede che quando è terminato, quando ci ha già reso diversi. E lo capiamo in un attimo, quando spontaneamente ci comportiamo come non ci saremmo mai comportati prima, ma senza sforzarci di comportarci così. Ed ecco che allo specchio i capelli sono davvero più corti, quel colore addosso lo sentiamo nostro e sentiamo che qui, nel mondo del ritorno, esistono angoli di quella terra lontana in cui lo abbiamo cercato. Ci guardiamo allo specchio e siamo diversi, ma ci riconosciamo in questo cambiamento. Il fulcro del riconoscimento di questo nostro divenire, paradossalmente, sta nelle cose che rimangono sempre le stesse. Esistono approdi sicuri dentro noi stessi, che sono al riparo da qualsiasi moto di trasformazione. Sono i nostri pilastri, alla base della nostra identità, attorno ai quali continuamente moduliamo spigoli e proclamiamo rivoluzioni, che possono farci mutare forma, ma la nostra più profonda sostanza è legata alle nostre origini. Le origini di noi stessi sono le nostre passioni, le cose che amiamo fare, i nostri sogni, le nostre convinzioni più profonde, i volti, le abitudini e le espressioni che ci sono famigliari, le cose che ci regalano momenti di vera pienezza, così autentica che ci fanno pensare che tutto potrebbe esaurirsi proprio lì, perchè più realizzati di quell’attimo davvero non si può. Sono questi nostri pilastri che ci permettono di sapere sempre chi siamo, a discapito di ogni cambiamento.

Quattro chiacchiere da bar

Ci sono alcune parole che ogni giorno usiamo ripetutamente, ma siamo sicuri di conoscerne il significato vero e proprio? Oppure non ci siamo mai posti il problema?

Non sono sicuramente io la persona adatta a parlare di linguistica, semantica o etimologia. D’altronde non vogliatemene, studio economia. Eppure ho incontrato alcuni uomini che con il loro modo di stare nella vita mi hanno sorpreso. I loro occhi parlavano e, molto spesso, anche le loro poche parole mai scontate sapevano sussurrare a una verità che scaldava l’anima.

Dietro tutto questo portavano dei segreti, dei significati più profondi associati a termini spesso inflazionati, ma forse solo da gustare con un attimo di calma in più. Non da perderci tutto il giorno sopra, semplicemente da non dare più per scontati.

Le cinque parole che mi hanno toccato di più:

ACCETTARE: ricevere qualcosa con pieno consenso. Ricevere con gradimento.

Ecco, “con pieno consenso” proprio non andava giù nel mio modo di pensare. Ho sempre creduto che accettare significasse rassegnarsi. Ovvero abbandonarsi alla propria impotenza e crogiolarsi nel proprio “essere sfigato”, quel “mai una gioia” che va tanto di moda.

Eppure, scrutando a fondo il verbo accettare, c’è ben altro dietro questa finta apparenza che tanto soddisfa il piangersi addosso. Allora accettare che qualcosa vada storto, che non vada secondo i propri piani, come può risultare gradevole?

Non so rispondere a questa domanda. Sicuramente a volte non è piacevole l’atto di accettare, ma il vivere dopo aver accettato è una vera e propria sensazione di leggerezza, priva di rancore, colma di speranza.

INUTILE: che non dà alcun vantaggio.

Inutile è la negazione di utile, quindi ciò che è inutile non genera utile. Non provoca alcun ritorno, ma allora chi me lo fa fare?

Anche a questo non so trovare risposta, però mi piace pensare che inutile vada a braccetto con accettare. In effetti la natura stessa ci chiama all’inutilità: una mela matura che cade a terra per poi marcire in un prato di campagna a chi è utile? Nè al contadino che non la può vendere né al bambino che si diverte a rubare il frutto insieme agli amichetti nel campo del vicino; ormai è marcia, dopo tutta l’adrenalina e la paura passate per non essere scoperti durante il furto neanche può essere gustata. Nonostante questo, ogni anno quell’albero ci dona il suo frutto senza che nessuno glielo chieda e senza averne ritorno: una mela inutile che è dono gratuito o, per meglio dire, che è compimento necessario per quel melo. Lo possiamo immaginare un melo che non produce mele?

E così, allo stesso modo, durante le nostre giornate, quante cose accadono e non sappiamo da dove vengano? Quante cose dobbiamo fare e non generano utile ma chiedono la capacità di passare un inverno nel nostro cuore per poi fiorire?

Così è l’inutile: gratuito, non chiede nulla in cambio. A volte incompreso, ma necessario per poter far fiorire i talenti di ognuno.

Chissà che questo inutile non sia davvero da accettare

CATTIVO: di persona, insensibile o maldisposta verso sofferenze o fastidi altrui, capace anzi di rallegrarsene o addirittura di provocarli.

Il temine cattivo etimologicamente deriva dal latino captivus, ovvero nato in cattività: colui che non ha genitore, non sa di chi essere figlio. Può apparire un po’ strana la cosa, ma quante volte anche noi che non ci riteniamo cattivi siamo scontrosi in famiglia perché abbiamo qualcosa che ci turba? Oppure assumiamo un atteggiamento sgarbato nei confronti di una persona al solo fine di farla stare male quasi come fosse una vendetta? Per esempio dietro un commento ambiguo, ma tagliente, detto in compagnia?

Essere cattivi richiama l’essere figlio: chi mi ha generato? Perché sono stato generato?

Okay, certamente non so rispondere, però mi piace ricordare Francesco d’Assisi quando, di fronte a persone che avevano commesso gravi sbagli, ripeteva continuamente “Non è cattivo. E che non è stato amato”.

Accettare l’inutilità delle persone cattive, provando a dedicarci del tempo, potrebbe essere quasi interessante.

LIMITE: linea di demarcazione confine.

Una parola che sembra assumere un significato geografico, ma spesso dimenticata in questa accezione e molto più umanizzata. Chi non ha dei limiti?

“Sono basso, timido e appena lasciato dalla ragazza, riesci a capire quanti limiti ho. Con tutti questi limiti sono una persona spacciata” ripetevo in tempi non sospetti a tanti amici. In fondo, chi non si sente limitato e osa mostrare i propri limiti? Le proprie fragilità?

Anch’io pensavo questo (e a volte i pensieri ritornano in modo dirompente), fino a quando non mi è stato detto che il limite è quel no che ti regala la libertà. Una persona senza limiti altrimenti sarebbe un robot, un essere programmato e non un essere  provocato come in realtà è.

La bellezza del limite è la sua capacità di rendere umana ogni cosa. E’ quel confine tra l’uomo e il divino che tanto spaventa quanto ha il dono di chiamare alla vita piena, consapevole di questa distinzione.

Una persona che si sente dio di se stesso è destinata a fallire… e buon per lei!

Conoscersi limitati chiama ad apprezzare la realtà per quella che è e dona la bellezza dell’imprevisto: tutto fosse terribilmente perfetto sarebbe prevedibile in ogni suo momento, ascrivibile in leggi e per nulla creativo. L’uomo non risponde solo a qualcosa di insito in lui, ma è imprevisto. Il limite provoca, non decide al nostro posto. E’ il contorno del disegno che ognuno di noi è. E’ la bellezza di non riconoscersi vaghi o copia dell’altro, ma essere unico e irripetibile.

E se non mi credete o non vi piace l’idea di accettare i propri limiti che possono sembrare inutili e ci salvano dall’essere cattivi, provate a leggere “L’arte di essere fragili” di Alessandro D’Avenia… Buona lettura!

SALUTE: condizione di benessere fisico e psichico dovuta a uno stato di perfetta funzionalità dell’organismo.

“Se hai la salute hai tutto!” Quante volte ci siamo sentiti ripetere questa frase? In effetti va di pari passo con: “L’importante è la salute!”.

L’altro giorno ho avuto il dono di incontrare una persona malata ma felice e queste due frasi mi sono parse un po’ piccole di fronte alla grandezza di un ragazzo malato di un male terminale con la gioia negli occhi.

Assolutamente non voglio dire che la salute non sia importante, anzi, è fondamentale e ringrazio ogni giorno di poter essere sano. Eppure credo che la bellezza di quei due detti, come mi è stato suggerito, sia nell’etimologia della parola salute.

In latino salus significa salvezza.

“Se hai la salvezza hai tutto!” e “L’importante è la salvezza!” non suonano meglio? A mio parere sì. Perché essere salvati significa vivere in pienezza, con un animo colmo di gioia anche nelle difficoltà.

“AAA fonte di salvezza cercasi!” è il primo pensiero che mi ha suscitato questa riflessione. D’altronde ci sono persone che non hanno nulla, sono povere e forse hanno problemi fisici, ma in fondo sono piene di vita (https://www.youtube.com/watch?v=jsZxH49R9ns) in tutte le loro avversità. Non tutti caratterialmente siamo così, ma tutti possiamo accettare il nostro limite di non esserlo e, anziché diventare cattivi nelle difficoltà, trovare salute (salvezza) nella loro inutile testimonianza.

Magari possono sembrare solo quattro chiacchiere da bar queste parole. Chissà che anche lì, però, non ci sia tanta bellezza da scoprire.

Donna, dov’è tua sorella?

La figura della donna proposta dai media è spesso oggetto di polemiche e contestazioni: si delinea astutamente il profilo di una donna che è serva della famiglia, ma anche maga che seduce con il potere ipnotizzante del suo sguardo.
Se di questo si vuole incolpare qualcuno, però, chi bisogna attaccare? In un certo senso, i media sono invisibili, e allora è essenziale porre l’attenzione sul fatto che quelle donne, senza costrizioni, accettano di rendersi paradigmi di quel modus vivendi. L’attrice della pubblicità è infatti responsabile dell’immagine che dà di sé, perché è lei che decide liberamente di prostituirsi (dato che di questo si tratta, di vendere se stessa e di calpestare la sua dignità). Dal momento che ognuno è responsabile in una certa misura del prossimo e che essere consapevoli delle possibili conseguenze delle proprie azioni è un dovere morale verso gli altri, in quanto donna, quell’attrice dovrebbe rinunciare ai suoi quindici minuti di celebrità per salvaguardare la propria immagine e quella di tutte le altre donne come lei. Se, da un lato, è necessario educare l’universo maschile al rispetto della donna, dall’altro è fondamentale raddrizzare la concezione distorta che, in molti casi, la parte femminile ha e dà di sé.

Piccolo grande soldato

Chi di voi crede nella bellezza dei piccoli gesti quotidiani e nella potenza delle emozioni? Io si.

Non conosco il tuo nome, né la tua storia. Non so perché ci siamo incontrati né so se ci rincontreremo. Ti devo ringraziare. Forse non ti sei accorto di ciò che hai fatto, e credimi non dipende da come sei, è il modo in cui l’hai fatto che mi lascerà il sorriso sulle labbra tutto il giorno e che mi farà pensare a te. Questo il primo grazie, veniamo al secondo. Grazie perché mi hai fatto venir voglia di scrivere. Non l’ho mai fatto in treno, questa volta però non sono proprio riuscito a trattenere le parole.

Sei apparso in un vagone affollato e rumoroso. Mi hai colpito subito perché ti sei avvicinato al gruppo di militari in viaggio come se fossero tuoi amici, sei riuscito a rompere un muro che alcuni impiegano anni ad abbattere, che spesso fatico anche io a superare. Di colpo eri come loro, e volevi il berretto, la divisa, lo zaino e cercavi di prenderli tutti, mentre il ragazzo che ti accompagnava cercava di fermarti. Ma tu volevi lanciare bombe e sparare con una pistola, mentre i tuoi compagni semplicemente schiamazzavano nel vagone. Dispensavi sorrisi a tutti, e quando uno di loro ti ha regalato lo stemma della bandiera italiana che aveva sulla divisa tu sei diventato un raggio di sole in questa giornata di pioggia. Ti sei illuminato, e hai battuto il cinque a tutti.

Il bello è proprio questa segreta intimità che c’è stata tra noi, anzi tra me e quel momento di te, e che ricorderò. Quindi grazie ancora, piccolo grande soldato, e buona vita.

SEMI

Ha la faccia di uno che si chiama Marco, e quindi lo chiamerò così, anche se il suo nome è un altro. La prima cosa che noti, del suo piccolo volto, sono gli occhi enormi che vedi attraverso gli occhiali da miope. Capelli scuri, barba folta, ma con la parvenza di essere lavata. Sorride, a volte, quando finisce una frase. I denti tutti separati e piccoli. Ma sorride, alle sue battute, dopo averci visto ridere. Indossa qualcosa che sembra un pigiama, infatti è notte ormai, ma dice di non aver freddo. Ci avviciniamo al suo letto fatto di coperta, scatoloni smontati e pavimento. La sua stanza è il portico di via Roma. Pochi passi a destra e il suo soffitto è il cielo. Ci accoglie con le gambe incrociate, a piedi scalzi. C’è puzza, ma lui lo sa. Sui polsi, sulle caviglie e sul collo si intravedono dei tatuaggi. Dice di averne un’ottantina, su tutto il corpo. Ne va fiero. Punk Rock, dice quello sulle nocche della mano sinistra. Marco è un artista. Lui sa suonare la chitarra, sa cantare. Faceva parte di una band, che si è sciolta poi, dice, per colpa sua. Marco stava avviando un’impresa agricola. Lui è perito, ha studiato. Marco è giovane, ha trentadue anni, ma è padre da dieci: Anna. Le vuole bene, e dice di lei che ha una passione per l’arrampicata. E che è già grande per la sua età, ma diventerà ancora più grande. Non ci ha detto in che senso, ma era sottinteso. Andava tutto bene, ma poi ad un certo punto un eccesso di responsabilità – dice sempre lui, senza cambiare tono di voce– ha provocato il declino. Si chiama eroina. All’inizio era una cosa diversa da provare, poi è diventata una possibilità di evasione dal mondo. L’eroina lo ha salvato, all’inizio. Ma dal sollievo poi è stata la merda. Scusate i toni poco poetici, ma senz’altro autentici. Quella merda ha rovinato tutto – dice lui.

Marco aveva paura di crescere. E forse, non sapendo come fare, ha tentato nell’unico modo che si è trovato tra le mani. Con una siringa tra le dita e uscendo di casa per sempre. Quanto con le nostre mani possiamo farci del male, nella più totale convinzione e volontà di cercare di stare meglio. C’è silenzio tra una sua frase e l’altra, un silenzio che lo spinge a parlare, non di qualcuno che non sa più che dire, e che spinge noi ad ascoltare. L’incastro perfetto che combina i nostri animi che in quel momento senza tempo diventano luogo fisico di scambio e di sfogo.

Siamo cinque noi, questa sera. Anche se è la terza volta che scendiamo in strada, è la prima volta che abbiamo di fronte Marco. Gli chiediamo se ci ha provato a cambiare vita, se non sente la voglia di ricominciare. Se non esistono delle comunità che aiutano ad uscire dalla droga, dalla dipendenza, dalla strada. Se non ha mai chiesto aiuto. E io la sento la vita che scorre nelle domande dei miei compagni, scoppia proprio nei punti di domanda, perché siamo giovani – dice lui- e ci ostiniamo a non arrenderci di fronte ad una vita marcita in dieci anni di droga. Marco non è finito lì, noi lo sappiamo bene questo. Marco ci dice di aver provato ad andare in quelle comunità. Per qualche mese resiste, ma poi non ce la fa più. Ci dice di non essere fatto per questo mondo, se non quello che pulsa sotto ai portici di via Roma. Ora è fuori dalla droga. Quando gli viene voglia di farsi prende il metadone che gli danno i medici. Ma a volte non basta, così ne prende una dose in più. La compra quella. Il metadone, come l’eroina, la trovi per strada, lo spacciano. Lui a volte lo vende, si fa dieci euro così. E quando gli serve ruba scatolette di tonno al supermercato, e poi le rivende per comprarsi quella dose di metadone in più che lo salva da certe sere. O dalla sua mente.

Ride quando sparla del suo dirimpettaio pugliese senza dimora pure lui, che esalta le sue doti canore, ma Marco dice di cantare meglio di lui. Improvvisamente la sua voce si fa seria quando ci confessa che in realtà lo stima, perché vorrebbe anche lui credere così fortemente in qualcosa, così come il pugliese crede nella sua voce.

Chiede se qualcuno di noi fuma. Vale gli dà qualche cartina, del tabacco e dei filtri. Noi altri non fumiamo. Lui se ne gira una e se l’accende. Aspetta il suo compagno di letto, che è stato sbattuto fuori di casa, così Marco si è offerto di condividere con lui la sua camera che dà sul cielo.
Marco ci dice che dentro sente quella voglia di ricominciare, rispondendo ad Andrea. Ma si conosce: i limiti e le regole, il nostro mondo, al quale lui stesso appartiene, lo faranno impazzire. E da lì, poi è un passo il bucarsi. E poi alla fine gli risponde che in fondo sta bene così com’è.

Marco, trentadue anni, una figlia da dieci, la strada come casa, un amico con cui condividere il pavimento, buchi nelle vene, senza credere in niente, lui sta bene così. Marco dice di stare bene così, ma con voce che per la prima volta si incrina, allontanando un po’ lo sguardo. Sembra quasi vergognarsi.

E Andrea che non capisce come un uomo così giovane certamente non ancora finito possa non trovare la forza di vivere davvero. Andrea che c’ha il sole dentro, che crede fermamente in tante cose, lui che è fatto non di sangue e carne ma di forza d’animo e fiducia e le vede ovunque le cose belle, ma rimane senza fiato alla dichiarata rassegnazione di Marco. E Diana che sa che lui può ricrearsi dalle sue ceneri –tutti possono- partendo dal suo essere artista, dal suo talento che è ciò che più lo valorizza. Lei, artista pure lei, conosce il potere curativo della creatività.

Siamo giovani e siamo pieni di vita, e vogliamo farla vedere a lui, proporgli un ventaglio di possibilità, per ricordargli appunto che non è finita. Lui deve ricordarsi delle cose belle che ha dentro, che dentro non ha solo il putrefatto della droga e delle responsabilità, che la vita è anche altro, anche se forse, in trentadue anni non l’ha mai visto. Eppure noi, che strabordiamo di ingenua energia, rimaniamo senza domande quando ci dice che lui sta bene così.

Perché la verità, è che nemmeno nelle nostre tristezze più buie, nelle nostre più dolorose lacrime, nei nostri lutti inaccettabili e nelle nostre giornate prive di senso, noi quella melma non l’abbiamo mai provata. Forse è questo nostro non sapere davvero com’è, ciò che ci fa conservare questa energia, questa voglia di non stare mai fermi, di darci da fare, di scegliere ogni giorno di essere felici, nonostante i se e i ma, senza arrenderci di fronte alle delusioni e alle responsabilità.

Sono ritornata a casa con la vita di Marco appesa allo stomaco, chiedendomi fino a che punto uno possa stare male per capire di non stare bene. Un po’ mi spavento, di come a lui sia toccata una vita Borderline, come porta scritto sul piede, al posto delle scarpe, e a me, del tutto casualmente, un futuro, che in un modo o nell’altro, mi è comunque garantito.

Non ho saputo rincuorare l’incredulità dei miei compagni, mi piomba in mente forse il motivo, sulla strada di casa.
Perché se io fossi Marco, trentadue anni, una figlia da dieci, la strada come casa, buchi nella pelle, senza credere in niente, forse, anche a me, dopo un po’ andrebbe bene così. Mi chiedo se davvero avrei la forza, un motivo per risollevarmi. È che quando una dipendenza ti prende, te la tieni per tutta la vita. Anche se ne esci, anche se l’accetti, anche se non sei finito e lo sai. Si fa viva nei momenti in cui abbassi la guardia, in certe sere, nella tua mente. Un momento di debolezza, e lei ti rende forte. Ed è cosa reale, si vede nei buchi nella pelle. Perché quello è il tuo modo, anche se sbagliato, di cercare di stare meglio: siamo uomini e vogliamo sempre il bene per noi stessi, anche se ce lo procuriamo facendoci del male.

Ho la vita di Marco appesa allo stomaco perchè penso che qualche biscotto, un succo di frutta, una sigaretta, una maglietta, una chiacchierata con degli sconosciuti non bastino a risolvere una vita. Prego che però magari non sia così, forse con la stessa ingenuità che mi fa conservare l’energia. Mi obbligo a pensare che una sera possa fare qualcosa. Almeno una scintilla. Un piccolo seme che un giorno possa cambiare le cose. Che possa cambiargli la vita.

Un prete, un gruppo di universitari e delle sedie a cerchio

Parla con la sua voce squillante mentre, con lo sguardo a volte timido, incrocia la gesticolante mano destra. Poco per volta prende coraggio e inizia a guardare negli occhi i giovani che ha di fronte, chiamandoli ad essere presenti per davvero. D’altronde il tema dell’incontro è “la concretezza”.

Riccardo, giovane curato, ama incontrare i giovani e raccontare attraverso un alternarsi di musica e parole la propria esperienza. Perché, in fondo, essere concreti non è produrre, è stare nella vita.

Vicino a lui la solita cassa da cui escono pezzi musicali che spezzano il discorso.

Ad un tratto Daniele Silvestri canta, in Il Viaggio (pochi grammi di coraggio), che “fondamentalmente io forse non ho mai aspettato niente”. E ancora “lo sguardo di uno che era di passaggio”. Chissà che non fossero proprio questi i pensieri di Zaccheo quando salì sul sicomoro (LC 19,1-10), perso nella praticità di riscuotere le tasse, lontano dalla concretezza della vita terrena fatta di sguardi, abbracci, gentilezza a casaccio e atti di bellezza privi di senso.

Si può immaginare un mago della finanza che tra un titolo che sale e un cambio di valuta sappia fermarsi, aspettare e lasciarsi guardare?

Concretezza non è solo dare, è anche ricevere. E’ ammettere la propria finitezza, il bisogno di gesti di amore altrui, di regali, di parole, di rimproveri e incoraggiamenti. Essere umani è anche questo, di sicuro non è essere dei robot invincibili.

Etty Hillesum, nel suo Diario, ringrazia per i giorni di stanchezza e inadeguatezza perché erano momenti di riposo per l’anima e di rinascita interiore e, se a scriverlo è una donna che ha vissuto la rappresaglia nazista e il campo di concentramento senza mai perdere la forza e la fiducia nella vita, qualcosa di vero e profondo sicuramente è nascosto in quelle righe.

Tra questi discorsi un po’ troppo elevati per la quotidianità di uno studente universitario, Riccardo inizia a parlare della sua mattinata, fatta di cambiamenti: invita a immaginare quella voglia di ribaltare tutto, di creare scompiglio per poi capovolgere il senso delle cose. Poi stimola a pensare alla camera da letto di un giovane ragazzo con libri impilati ovunque, fogli volanti e il letto disordinato. Infine invita a riflettere sulla ricerca di essenziale che invade ogni persona: poche cose, poche ansie, leggerezza, quel lui o quella lei.

Riccardo ha trascorso la mattinata a riordinare camera, spostando i mobili da un posto all’altro per esprimere la propria essenzialità interiore, perché ogni gesto compiuto è l’arte di concretizzare i pensieri del proprio cuore.

Mentre parla, dalla finestra di una sala del quinto piano di un palazzo nel centro di Torino, veleggia una grande insegna di un mobilificio che pubblicizza una camera da letto spoglia, con un armadio pensato su misura, un letto incastrato e una scrivania ad angolo con luce incorporata nel muro. Insomma, una camera da letto definita essenziale, con la scritta “Dormendo così i pensieri tornano in ordine”.

Da un lato un folle curato che con il suo ordine interiore modella i luoghi esterni, dall’altra una società che ha bisogno di luoghi ordinati per modellare se stessa. Proprio come Zaccheo: prima un po’ società che necessitava che i conti quadrassero per trovare pace in se stesso, poi esempio per il giovane sacerdote che, trovato un senso, cerca di concretizzarlo nel vivere quotidiano.

In questa vita che, come canta Fiorella Mannoia, Per quanto sembri incoerente e testarda se cadi ti aspetta, siano benedetti i limiti e i fallimenti che fermano e che tornano a far “apprezzare quello che non ho saputo scegliere”, continua Riccardo. A dirla tutta, però, a scrivere questo è Marco Mengoni in, appunto, “L’essenziale”. E la concretezza è essenziale.

Concretezza è lo sguardo di quell’uomo che si ferma e si autoinvita a casa di Zaccheo senza troppi discorsi esistenziali. Perché tra essere o dover essere, quel “dubbio amletico contemporaneo come l’uomo del neolitico” (F. Gabbani, Occidentali’s Karma), non c’è nulla di più concreto dell’amore: l’amore fa gesti, fa capriole, inventa favole e canzoni, gioca a nascondino e spettina i capelli, illumina gli occhi e fa tremare il cuore.

Nella sua concretezza, come conclude Riccardo con le parole di Mengoni, “l’amore non segue le logiche”, semplicemente passa, “ti toglie il respiro e la sete”.

E per l’amore che passa non si è mai in ritardo, ma sempre puntuali al minuto scoccato.

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