19 Marzo 2018 | Vorrei, quindi scrivo
La parola desiderio deriva dal latino “de” + “sidera” che significa letteralmente “mancanza di stelle”; quelle stelle che, molti anni prima della comparsa sulla Terra di Google Maps e Paolo Fox, erano la salvezza dei navigatori sulla via del ritorno e la risposta alla ricerca del senso di ciò che ci accade.
Ad esaudire il mio desiderio di conoscere un frammento del mondo della scrittura e delle scuole a questa dedicate ci ha pensato un piccolo gruppo di grandi persone. Il 2 dicembre mi spediscono, fresca di laurea, nella frazione torinese di Borgo Dora, con un biglietto regalo per il “Perfect Day” alla Scuola Holden (scuola di storytelling e arti performative fondata a Torino nel 1994 e legata in particolare al nome del famoso Alessandro Baricco, che oggi è il suo preside). Questa giornata, a cui si può partecipare anche senza essere iscritti alla scuola, acquistando il biglietto on line, consiste in una serie di incontri tenuti da grandi scrittori italiani che trattano tutti di un tema comune, quest’anno proprio “il Desiderio”. Ecco alcuni spunti di quel giorno, che ho conservato per condividerli con chi come me desiderasse soddisfare qualche curiosità su una giornata alla Scuola, su alcuni autori italiani o sulla tematica.
Caffè di benvenuto con Lou Reed di sottofondo e si comincia alle 9:30 con il discorso di apertura di Mauro Berruto, amministratore delegato della Holden ed ex allenatore della Nazionale italiana di pallavolo, che ci invita ad esplorare per bene l’ex caserma rimessa a nuovo, in cui ora si tengono le lezioni (l’ho fatto: le Metamorfosi di Ovidio versione murales alle pareti, aule con attrezzature specializzate per film-makers, cortiletto interno con panchine colorate, aula magna con palco pieno di cuscini: fighissima). Quella di Berruto è una riflessione su motivazione e desiderio nel mondo dello sport: che cosa accomuna tre imprese come l’oro di Jury Chechi alle Olimpiadi di Atlanta del 1996 (ad appena quattro anni dalla rottura del tendine), l’impossibile giro di pista alle Olimpiadi di Los Angeles del 1984 della maratoneta svizzera Gabriela Andersen-Schiess (vittima di un colpo di calore, allontana i soccorsi e si trascina fino all’arrivo per evitare la squalifica) e la storica scalata (è il primo a tentarla in inverno) del Nanga Parbat, la famosa vetta himalayana simpaticamente rinominata “The Killer Mountain”, intrapresa dall’alpinista bergamasco Simone Moro nel 2016? Forse più di tutto un incredibile desiderio di superare l’insuperabile, spinta o aggancio per la loro forza di volontà. Berruto conclude il suo discorso su desiderio, motivazione e sport con una citazione di Antoine De Saint-Exupèry degna di un ex-coach di alto livello: «Se vuoi costruire una barca, non radunare uomini per tagliare legna, dividere i compiti e impartire ordini, ma insegna loro la nostalgia per il mare ampio e infinito».
Dopo l’apertura di Berruto, la prima scrittrice a salire sul palco è Michela Murgia: energica, un concentrato di collegamenti brillanti. Per prima cosa propone la sua personale visione del desiderio da intendersi non come “mancanza”, amputazione di qualcosa che non si ha più, ma come “assenza”, ovvero come spazio di crescita che va edificato. Seguono spunti di riflessione che toccano più o meno tutti gli aspetti della vita: la tridimensionalità del desiderio, dell’assenza, non è forse meglio della bidimensionalità della presenza? È meglio il desiderio, che non ha confini e può essere tutto in potenza, o la sua soddisfazione reale? Cosa si perde quindi nell’esaudire un desiderio? È giusto cambiare per assecondare i desideri di qualcuno o, al contrario, aspettarsi che gli altri cambino per assecondare i nostri, ci chiede poi, aggiungendo in inglese: «They didn’t break your heart, they broke your expectation». La riflessione della Murgia non suona affatto come una celebrazione del desiderio ma più che altro come un monito, che si può riassumere con la frase con cui ci saluta, prima di scendere dal palco fra gli applausi: «abbiate un sano timore dei desideri e siate sempre cauti nel decidere quali realizzare».
Tocca poi a Marco Missiroli: altissimo, timido, estremamente divertente. Per lui il desiderio è sostanzialmente attesa, che si struttura temporalmente in quattro momenti (un “prima”, un “mentre”, un “dopo” e un “infine”) che Missiroli collega a quattro fasi della sua vita, in un racconto che ci fa ridere un sacco e anche commuovere un po’. Ci parla poi di due famosi autori, Buzzati e Nabokov, che in modo diverso hanno rivoluzionato il modo di “scrivere di desiderio”, sfidando l’ambiente borghese del loro tempo e coinvolgendo il lettore in un gioco letterario simile a quello che compie l’artista Fontana sfregiando la tela: trascinare l’osservatore, o il lettore, dentro l’opera d’arte.
Segue Fabio Geda, educatore, che cerca con sensibilità e forza di capire il mondo dei ragazzi. Attraverso un interessante riflessione sul suicidio giovanile, basandosi su recenti fatti di cronaca e prendendo spunto dalla letteratura e dalla cinematografia (in particolare dal film L’Attimo Fuggente e dalla serie Netflix Tredici), cerca di capire quali sono oggi i desideri dei giovani e dei giovanissimi e che cosa li può portare a perdere il desiderio di vivere. Le possibilità di scelta sono talmente aumentate che oggi più che mai sembra difficile dare una forma ai propri desideri; è più facile perdersi, confondersi, e il futuro sembra ancora più misterioso e minaccioso di qualche generazione fa. In questa situazione, dice Geda, i ragazzi sono contenti di sentirsi dire, come spesso accade, che qualcuno crede in loro per rimettere a posto le cose, ma sembrano soprattutto aver bisogno di adulti e giovani adulti che credano prima di tutto in loro stessi, dando un esempio reale.
Lo scrittore Maurizio de Giovanni, in un intervento intitolato Il desiderio del movente, il movente del desiderio, spiega qual è la forza motrice alla base dei suoi romanzi di successo (da cui tra l’altro è stata tratta la serie tv Rai I bastardi di Pizzofalcone) che, ci tiene a sottolineare, sono “scrittura nera” e non “gialli”. Nei romanzi gialli, spiega, quello che conta è la scoperta del colpevole del reato in questione, nella scrittura nera l’identità dell’assassino può anche essere dichiarata nella prima pagina, ciò che importa all’autore e analizzare che cosa spinge l’uomo a compiere un determinato gesto: spesso proprio un desiderio che sfugge ai dettami della morale e del vivere civile. Ed è proprio questa ricerca di “perché”, questo andare a scovare i motivi scatenanti del desiderio deviato di arrecare male al prossimo, l’ispirazione di de Giovanni e il punto di partenza per i suoi romanzi, che paragona al colore che fa da sfondo ad un’opera d’arte.
La conclusione della giornata è affidata al preside Alessandro Baricco. Per trattare il tema della giornata sceglie di leggerci alcune pagine dello scrittore che secondo lui meglio ha incarnato il desiderio nella sua scrittura, Gabriel Garcia Màrquez. Assistiamo così alla lettura di alcuni paragrafi del celebre Cent’anni di solitudine, che Baricco interrompe di tanto in tanto per farci notare la particolarità dello stile di Garcia Marquez (l’uso quasi “fisico” delle parole, l’ossessione per il numero tre, che emerge anche dalla struttura delle frasi, il realismo magico),o per raccontarci alcuni aneddoti tratti dai sui viaggi in America Latina, patria dell’autore in questione e luogo dove sono ambientati i suoi libri (Cent’anni di solitudine è ambientato nel paese immaginario di Macondo, ma l’autore fornisce alcuni indizi che permettono di collocarlo nella penisola della Guajira). La vita dei protagonisti del romanzo, i componenti della famiglia Buendía, sembra essere totalmente governata dalla forza dei loro desideri, che li possiede e li trascina, senza dar loro la possibilità di scegliere razionalmente e provocando spesso in essi grandi sofferenze.
Ognuno degli scrittori protagonisti della giornata ha così offerto la sua personale interpretazione del desiderio nelle sue tante sfaccettature, da molla motivazionale che è essenziale seguire per vivere una vita piena, a forza a volte ingannevole e oscura, da trattare con cautela.
Baricco termina il suo intervento tra gli applausi e, dopo un brindisi di gruppo e una fetta di pandoro offerti dalla Scuola, mi avvio all’uscita. Fuori la neve a rendere ancora più magica una giornata a tutti gli effetti perfetta, le cui prossime edizioni consiglio a tutti gli amanti della lettura e della letteratura e a tutti quelli che siano curiosi di sentire che aria si respira in una scuola così particolare.
Beatrice Silvestri
31 Gennaio 2018 | Vorrei, quindi scrivo
Da ormai quattro anni la tratta Cuneo – Milano accompagna mensilmente la mia vita. In questi anni molti aspetti di me sono cambiati e l’Università comincia a lasciare un’impronta indelebile. Eppure, c’è una costante invariabile di ogni viaggio: la nostalgia. Si tratta forse dell’amica più cara di questi anni. È una compagna di viaggio profondamente scomoda, che ha scavato in me, non senza dolore; sarei però disonesta se non riconoscessi i frutti che ha portato con sé. Da qualche mese sono iscritta alla magistrale di Filosofia a Milano. Ho di fronte a me gli appunti del mio prossimo esame dal titolo squisitamente filosofico, capace di generare molto sconcerto: Ontologia e metafisica. Per i più forse si tratta di quelle parole difficili il cui significato non sarà mai totalmente afferrabile e probabilmente non è nemmeno auspicabile che lo sia. Accanto ai miei fogli c’è un libro, la Metafisica di Aristotele. Se mi guardo attorno ritrovo un chiaro ritratto del mondo: oggi viaggio su un treno regionale, la cui fauna è molto diversa dai treni ad alta velocità. Eppure, anche qui, rimangono delle costanti: c’è chi legge il quotidiano, chi scrive al computer, chi ripassa, chi parla al telefono nelle lingue più strane. Insomma, tutti immersi nel proprio mondo frenetico.
«L’essere si dice in molteplici significati», così recita la Metafisica.
Mi tornano alla mente dei versi di Eugenio Montale che da sempre porto con me:
«sotto l’azzurro fitto
del cielo qualche uccello di mare se ne va;
né sosta mai: perché tutte le immagini portano scritto:
” più in là “!».
Nel frattempo, il treno parte e le montagne si allontanano sempre di più per lasciar posto alla pianura. Ogni volta la reazione è la stessa, lo stomaco si stringe e tutto ciò che fino al giorno prima era scontato diventa – d’un tratto – prezioso. La nostalgia ha questo potere unico: mi fa rigustare tutte le cose, come se fosse la prima volta: il caffè che mia mamma mi prepara ogni mattina, i brontolii di mio fratello, i comignoli di via Roma che non avevo mai guardato veramente e per la prima volta mi accorgo rappresentino delle bandiere scosse dal vento: tutto sembra nuovo. Tutto mi dice: più in là, il tesoro nascosto nelle cose è più in là.
Allora forse è proprio questa la chiave per cui anche Aristotele possa dirci ancora qualcosa, a distanza di tanti secoli. Con parole lontane ci sta mettendo in guardia da qualcosa che potenzialmente potremmo dimenticare per sempre: il mondo non è afferrabile in un pugno e la realtà non è riducibile alla nostra visione del mondo: «l’essere si dice in molti modi». Un’ansia di certezza ci perseguita, come se fosse augurabile pensare di poter stringere tutta la realtà in un pugno di conoscenze. Invece, una posizione diversa riappare all’orizzonte ed è capace di ridescrivere la fisionomia di intere giornate. Ripenso ai volti più cari che lascio e quelli che trovo: nessuno di questi è riducibile alle sue componenti biologiche o comportamentali e nessuno di questi è riassumibile in una mia impressione, più o meno fondata. Mi ha sempre colpito una frase di Albert Einstein: «Chi non ammette l’insondabile mistero non può essere neanche uno scienziato». Si tratta di un’onestà umana, che forse rischia di essere persa, tra le pagine dei nostri giornali, che falsamente promettono di esaurire la conoscenza di quel che c’è.
Allora più che mai tanto Aristotele quanto Einstein e Montale hanno molto da insegnare a noi, uomini post-moderni, perché semplicemente hanno saputo usare correttamente la ragione di fronte all’insondabile mistero che è la realtà. Oggi, una piccola conquista mi accompagna: nulla è dovuto, tutto è dato.
22 Dicembre 2017 | Vorrei, quindi scrivo
Caro lettore,
sono passati quattro anni da quando è iniziato tutto. Nel frattempo siamo cresciuti.
Quando abbiamo imboccato la strada che ci ha portato fin qui e che ancora stiamo percorrendo, credevamo di sapere tutto, eppure sapevamo molto poco. A onor del vero, qualcuno di noi l’aveva vista più lunga degli altri e aveva già capito allora che quello che stavamo creando non era per noi, non era roba nostra; che 1000miglia doveva nascere e poi essere, e che noi avremmo, col tempo, dovuto e voluto diventare diversi o, addirittura, passare il testimone. E tante volte, nell’arco di questi
anni, abbiamo dovuto rammentarci a vicenda che dovevamo guardare non la punta delle nostre
scarpe, ma la strada per intero.
È questa Tila prima cosa che 1000miglia ci ha insegnato: dove tenere lo sguardo mentre si cammina. Se ci si guarda i piedi ci si può dimenticare delle due verità più importanti: di essere in movimento, di avere una meta. Fino a convincersi che i sassolini incontrati sul percorso esistano di per se stessi e non siano lì a formare un sentiero più lungo. Forse crescere è sollevare a poco a poco lo sguardo, per vedere che i passi non sono compiuti a vuoto, per riconoscere un senso.
1000miglia ci ha insegnato che amico è colui che è amato, quindi rispettato, accolto, perdonato. Ed è forse stata proprio la nostra amicizia il vero sale di questa storia, e continuerà ad essere il filo di Arianna capace di ricondurci all’essenza prima della nostra associazione.
Del resto, abbiamo imparato che non sappiamo rispondere alla domanda Cos’è 1000miglia?, anche se con il tempo le dovute definizioni le abbiamo trovate. Alcune sono diventate quasi proverbiali per noi: 1000miglia è un gruppo di amici… ottimismo, informazione…un giornale, un’associazione culturale… Tutti nomi in cui crediamo, sia chiaro! Ma la verità è che certe cose è difficile farle capire, è più facile farle sentire. E chi in questi anni ci ha conosciuto più o meno da vicino ha apprezzato l’aria che si respira da noi e a cui forse, un giorno, qualcuno saprà dare un nome.
E, infine, 1000miglia ci ha insegnato la bellezza del verbo costruire, che è in fondo la vera dimensione dell’agire umano. E che c’è un tempo per tutte le cose. Così, dopo quattro anni, di fronte a tutto questo ci diciamo: tieni a mente! Tutto quanto hai imparato, tieni a mente. E riparti da qui, perché forse ora credi di sapere tutto, ma presto o tardi ti accorgerai di quanto poco sapevi.
Caro lettore, il decimo numero di 1000miglia, quello che hai tra le mani, è l’ultimo che stamperemo. Non per sempre, chiaramente. Per un po’. Intanto 1000miglia continua ad esistere in altre – nuove e vecchie – forme (eventi, collaborazioni con altre associazioni, caffè letterari, pubblicazione sul sito web): se ti va, seguici con più entusiasmo di prima, perché noi siamo pronti a far crescere il sogno a cui abbiamo aperto le porte quattro anni fa.
Con vera emozione, buona lettura!
Scarica il nostro magazine! https://www.1000-miglia.eu/wp-content/uploads/2017/11/1000MIGLIA-MAGAZINE-NOVEMBRE-2017.pdf
18 Novembre 2017 | Vorrei, quindi scrivo
A SIC 2017 abbiamo incontrato Giovanni Impastato, fratello di Giuseppe, giornalista, attivista e artista siciliano da tutti ricordato come Peppino. Nato a Cinisi (Palermo) da una famiglia mafiosa, non cessò mai di battersi contro Cosa Nostra, fino all’attentato che, nella notte tra l’8 e il 9 maggio ’78, lo uccise ad appena 30 anni. Da allora il fratello e la mamma non hanno smesso di ricordare, dare voce e forza al suo messaggio. E, come scrive Giovanni nel suo libro presentato a SIC (Oltre i cento passi, Edizione Piemme, Milano 2017), Peppino «ha per sempre ragione, ha per sempre voce in capitolo», perché i mafiosi, che volevano metterlo a tacere, ne hanno invece amplificato in eterno la voce.
Ecco la nostra intervista a Giovanni.
Dopo i dovuti grazie, le confidiamo l’emozione di incontrarla e ammettiamo che il nostro filtro alla vostra storia è quello del film I cento passi. Quanto possiamo considerarlo fedele alla vera storia di Peppino Impastato e della sua famiglia?
Se dovessimo dare un giudizio in percentuale di quanto è veritiero il film, diremmo un 80%. Il film ci ha aiutato tantissimo ed è stato importante per noi: un primo appello per cercare di aprire una saracinesca, che poi ci ha portati lontano. Ma dobbiamo dire una cosa: il film non è la cosa più importante che abbiamo fatto per Peppino. Ci sono cose molto più importanti: il processo con la condanna degli assassini, la commissione antimafia che ha elaborato un relazione sui depistaggi, la possibilità di smontare la montatura che voleva farlo passare per terrorista… Io credo che queste cose siano ancora più importanti del film, che, inoltre, ha avuto l’effetto di mitizzare Peppino, trasformandolo in un eroe o un’icona, e solo su questo vogliamo porre l’attenzione quando diciamo Oltre i cento passi: non è un rinnegare il film (io rispetto la forza comunicativa che ha il cinema), ma ricordare che Peppino non va considerato un mito, ma guardato per quello che lui era concretamente, ovvero un militante politico di grande forza e energia. Dunque: riconoscenza per il film, ma dobbiamo puntualizzare ulteriormente chi era Peppino e quella che è stata la nostra storia.
Cosa significa emanciparsi da una famiglia mafiosa?
Vuol dire operare una rottura. Emanciparsi è un termine corretto, ma solo se si parla di una rottura vera: un’emancipazione non poteva avvenire senza una scelta forte. Non si poteva restare con un piede dentro e uno fuori. Bisogna dare un segnale forte! Non è stata una mancanza di affetto verso nostro padre, ma un non accettare le sue idee e il codice comportamentale a cui, da mafioso, aderiva. È in questo modo che io e Peppino ci siamo emancipati, dando continuità alle nostre scelte.
Qual è il messaggio lasciato ai giovani da Peppino Impastato? E quale quello di Giovanni Impastato?
Diciamo quasi lo stesso. Il messaggio è quello di allontanarsi dall’indifferenza e lavorare sulle piccole cose: guardarci intorno e iniziare a mettere a posto le cose che stanno nel posto sbagliato. Dobbiamo cioè fare attenzione al nostro territorio, sennò rimaniamo monchi, legati alla vita così come ce la fanno apparire. Io sono molto preoccupato perché vedo soprattutto nelle scuole un rigurgito neofascista, un entusiasmo della violenza, della sopraffazione, del razzismo. Ci sono troppi segnali diseducativi! Di fronte a tutto questo, dobbiamo essere coscienti.
Quando intuiamo l’importanza di una storia come quella di Peppino per i giovani, ci chiediamo: che senso ha studiare a scuola i secoli più remoti della storia e non essere educati alla storia recente?
Studiare la storia, in generale, è importante. Ma da quello che mi sembra di capire dalle domande che mi fanno i ragazzi quando vado nelle scuole, credo che i programmi ministeriali siano un po’ indietro. Credo non si studino ad esempio gli anni 60, che sono importantissimi: il movimento studentesco, le lotte operaie, le Brigate Rosse, il sequestro di Moro… Sono anni importanti, e io me ne sto rendendo conto ora che sono passati 40 anni.
A quarant’anni dalla morte di suo fratello, qual è il ricordo più forte che ha di Peppino?
Il ricordo più bello che ho è di un Peppino scanzonato, che organizzava i concerti, le feste per ragazzi, i carnevali alternativi. Ad uno di questi, in particolare, si era vestito da Clown ed era stato immortalato da una foto. Faceva il clown vero e proprio, ci ho messo un po’ a riconoscerlo! I bambini si staccavano dalle braccia dei genitori per andare da lui. È un ricordo molto bello che ho, che dimostra un Peppino diverso dalle sue battaglie.
*La frase del titolo è stata pronunciata da Peppino Impastato quando, all’età di 15 anni, si trovò davanti al luogo dell’attentato dello zio e capomafia Cesare Manzella.
Cecilia Actis, Tommaso Marro, Simona Bianco
13 Novembre 2017 | Vorrei, quindi scrivo
“Tutte le cose tornano indietro” è la stampa che quello sconosciuto aveva sulla maglia. La indossava mentre, sorseggiando il suo caffè, scendeva dalla metropolitana. Visto il mio irrefrenabile desiderio di dover trovare un significato più o meno filosofico a tutto, mi sono chiesta “ma è vera questa cosa?”.
Così mi sono ritrovata a girovagare con la mente, fantasticando sui vari significati della frase e pensando se fosse effettivamente vero che tutte le cose che si fanno nella propria vita torneranno prima o poi indietro positivamente o negativamente, in stile boomerang. A dire il vero questa realtà, in caso esistesse, mi spaventerebbe alquanto. Vorrebbe dire che ogni singola decisione, e dunque ogni singolo sbaglio, torneranno ad influenzare il futuro. Potrebbe andare bene o no, dipende dal passato e dalle scelte fatte.
Ma in che modo si può pensare al futuro? Come una realtà basata e plasmata unicamente sulle scelte fatte in passato oppure una realtà che può includere anche colpi di scena e che ci permette di prendere decisioni anche al di fuori dei nostri schemi?
In realtà non ci ho mai pensato. Ho sempre vissuto la mia ancor giovane esistenza facendo cose che mi piacciono, senza preoccupazioni o affanni che non mi permettessero di fare scelte… ma ora che ho iniziato l’università tutto il mio mondo di certezze è crollato. Mi ritrovo a pensare in continuazione se la mia scelta sia esatta, se ci sia qualcosa di più adatto a me o se sia sicura di ciò che voglio fare. Sono perennemente assillata dalla paura di sbagliare, di perdere un anno o di imbattermi in qualcosa da cui non riuscirò più a venire a galla.
Resta il fatto che la felpa di quel ragazzo non ha aiutato la mia ansia da matricola del primo anno. È ovvio che la scelta che faccio adesso condizionerà la mia vita per sempre e che iniziando un percorso poi è difficile cambiarlo più avanti, ma allo stesso tempo non è detto che non succeda qualcosa di improvviso che possa scombussolare tutto. Conosco un geologo che è proprietario di un’azienda, un ragazzo che era ingegnere e ora fa il radiologo in ospedale, un aspirante medico che ha deciso poi di fare l’architetto. Quindi non si sa mai cosa possa riservare il futuro.
Allo stesso tempo però mi rendo conto che quella scritta sulla felpa è in parte molto vera. Se nella vita non si conclude nulla non si può pretendere di arrivare in alto, quindi “torna indietro” la scelta di essere stati pigri e svogliati. Se al contrario si è stati determinati e aspiranti, si otterrà una buona ricompensa.
Un filosofo del XX secolo che aveva basato le sue teorie interamente su questo concetto: scegliere. Egli sosteneva che la scelta sta prima di tutto il resto e che gli individui sono dovuti a scegliere in continuazione, per questo vivono con l’ansia del futuro e con l’incertezza della decisione giusta o, purtroppo, anche sbagliata.
Non è però ingiusto vivere con il dubbio? Partire già pensando di aver sbagliato? Rinunciare in partenza a qualcosa perché si ha il presentimento che non sia adatto per noi? Io credo che sia anche giusto seguire la teoria del famoso “carpe diem”, seguire l’istinto senza porsi troppe paranoie e poi modifica il tuo percorso mentre lo stai vivendo. Forse sono troppo sognatrice, ma penso sia meglio vivere il momento invece che proiettarsi in continuazione nel futuro.
Quindi una risposta alla felpa di quel ragazzo potrei avercela. Nulla torna indietro perché ciò che è passato ormai fa parte di te e ciò che è futuro è ancora da decidere. Sicuramente le scelte fatte determinano delle conseguenze, ma nulla è sicuro perché non c’è un destino già scritto.
È compito di ognuno di noi crearselo seguendo i propri sogni e scegliendo a cuor leggero.
Letizia Ricchiardi
31 Ottobre 2017 | Vorrei, quindi scrivo
Mi sembra giusto precisare innanzitutto che prima di leggere Passeggeri notturni io sapevo a malapena chi fosse Gianrico Carofiglio. Da buona letterata quale sono, ero totalmente all’oscuro del suo lavoro di ex magistrato e di politico. Lo avevo sentito nominare invece un paio di volte in veste di scrittore. Avendo intuito che fosse un autore di romanzi gialli, genere che mi piace davvero poco, non mi ero interessata ulteriormente. Ora, dopo la lettura di Passeggeri notturni, mi sono informata meglio (d’altronde, ogni libro letto apre un mondo nuovo di interessanti ed utili conoscenze collaterali) e ho scoperto che Carofiglio ha inaugurato un nuovo filone della narrativa italiana, quello del thriller legale, esordendo nel 2002 con il volume Testimone inconsapevole. Per di più, i suoi romanzi hanno vinto numerosi premi, tra cui il premio Bancarella nel 2005 per Il passato è una terra straniera e il premio Piero Chiara nel 2010 per la raccolta di racconti Non esiste saggezza. Dunque, un personaggio sicuramente rilevante nel panorama letterario italiano dell’ultimo periodo.
Passeggeri notturni (Torino, Einaudi, 2016) mi è capitato tra le mani per caso; non si tratta di un romanzo, bensì di una raccolta di trenta brevi scritti, tra cui saggi, interviste, discorsi, riflessioni, aneddoti dello scrittore in diversi momenti della sua vita quotidiana. Di solito, per mio gusto, non mi piace leggere raccolte di racconti o comunque brevi episodi che si concludono in fretta. Amo invece i romanzi lunghi, in cui la storia si sviluppa con calma ma nello stesso tempo sa coinvolgere il lettore fin dalle prime pagine. Eppure, questo volume ha catturato la mia attenzione immediatamente: sarà perché, a mio parere, ogni breve scritto racconta sì un episodio quotidiano, ma racchiude anche in sé una specie di lezione di vita. Soprattutto, alcuni saggi permettono di osservare la quotidianità da un’altra angolazione, facendoci constatare così che non avevamo mai considerato quella determinata situazione sotto quel punto di vista.
Mi spiego meglio: nello scritto Aria del tempo, Carofiglio racconta di aver partecipato all’inaugurazione di una galleria d’arte. La mostra è intitolata Colori ed essenze; ad un certo punto, prende la parola una signora che fa la creatrice di profumi, e l’autore riporta il suo discorso. Grazie ad esso e tramite le parole di Carofiglio, noi lettori possiamo riscoprire la potenza della memoria olfattiva; un aspetto della nostra umanità che sicuramente non consideriamo tutti i giorni. Eppure, la memoria olfattiva è “la più potente di tutte”, e ci permette di tornare molto indietro nei nostri ricordi, se solo sapessimo allenarla a dovere. L’autore spiega infatti alcuni metodi per utilizzare questa grande risorsa del corpo umano.
Oppure, l’autore racconta di aver viaggiato una notte in treno (proprio come un “passeggero notturno”) e di aver avuto una compagna di cuccetta che ha pianto a lungo nella notte e ha recitato alcuni versi che sembravano appartenere ad una poesia sconosciuta: “Vivere è stare svegli, e concedersi agli altri, dare di sé sempre il meglio, e non essere scaltri”. Anni dopo, a casa di amici, Carofiglio ritrova la poesia su un libro abbandonato sul tavolo e scopre che si tratta di una poesia di Angelo Maria Ripellino. Questo episodio aiuta il lettore a comprendere come in ogni momento della nostra vita quotidiana ci imbattiamo in persone che hanno una storia profonda e a cui dobbiamo portare rispetto, perché grazie a loro possiamo sempre scoprire qualcosa che prima non conoscevamo.
Mi fermo qui con il raccontare i brevi scritti, ma ribadisco infine che Passeggeri notturni è un libro semplice, veloce da leggere ma allo stesso tempo illuminante, profondo e a tratti ironico. Paragonerei l’intero libro proprio ad un koan. Ne parla l’autore nel saggio Epitaffio: si tratta di un breve scritto tipico della pratica zen che aiuta a cambiare il nostro sguardo sulle cose. Ad esempio: “Come facciamo a dire che un rumore è esistito se nessuno lo ha sentito e dunque nessuno è in grado di raccontarlo?”. La realtà ha molteplici risposte: siamo noi che dobbiamo diventare capaci di non fossilizzarci su quelle che conosciamo, ma di saperne trovare sempre di nuove.
Chiara Armando