7 Giugno 2018 | Vorrei, quindi scrivo
«Non esistono fatti, solo interpretazioni».
Così uno tra i più grandi filosofi del secolo scorso ha scritto in un suo aforisma. Sembrerebbe una frase innocua, universalmente riconoscibile, basti pensare alla quantità di gusti culinari di ognuno. Le conseguenze che questa affermazione ha avuto nella storia del pensiero sono state notevoli. Tra le diverse correnti due in particolare hanno interloquito con la posizione nietzschiana: il post-modernismo e l’ermeneutica. Ecco che allora, dalla bella Torino, pochi anni fa, si è levata una voce di risposta a queste tesi: nel 2012 Maurizio Ferraris ha pubblicato una raccolta di saggi, dal titolo eloquente: Manifesto del nuovo realismo. Non voglio indagare le implicazioni filosofiche di questo testo o la portata del ritorno del tema del realismo, per la complessità del discorso che implicherebbe. Quello che vorrei portare alla luce e alla attenzione è un dato molto semplice, che riguarda e richiama la vita di ognuno di noi. In un mondo incerto e mutevole, che sembra non dare più alcun tipo di sicurezza, pensatori provenienti da contesti culturali molto diversi ritornano insieme su un dato comune: la realtà si impone. Oltre ogni pensiero, oltre ogni interpretazione o posizione, c’è uno zoccolo duro dell’essere – come lo definisce Umberto Eco – che non può essere eliminato. Proprio nel suo saggio Eco fa un esempio interessante e altrettanto semplice, richiamando un dialogo con un altro filosofo, Richard Rorty.
«Richard Rorty – allargando il discorso dai testi ai criteri d’interpretazione delle cose che stanno nel mondo – ricordava che noi possiamo certo interpretare un cacciavite come strumento per avvitare le viti ma che sarebbe altrettanto legittimo vederlo e usarlo come strumento per aprire un pacco. Nel dibattito orale Rorty alludeva al diritto che avremmo d’interpretare un cacciavite anche come qualcosa di utile per grattarci un orecchio».
Siamo qui dunque arrivati al punto critico del nostro ragionamento: laddove si ammettesse che posso usare un cacciavite per grattarmi l’orecchio avrei dunque eliminato ogni legame con la realtà che mi trovo di fronte: appunto, il mio orecchio.
«Un cacciavite può servire anche per aprire un pacco (visto che è strumento con una punta tagliente, facilmente manovrabile per far forza contro qualcosa di resistente); ma non è consigliabile per frugarsi dentro l’orecchio, perché è appunto tagliente, e troppo lungo perché la mano possa controllarne l’azione per una operazione così delicata; per cui sarà meglio usare un bastoncino leggero che rechi in cima un batuffolo di cotone. C’è dunque qualcosa sia nella conformazione del mio corpo che in quella del cacciavite che non mi permette di interpretare quest’ultimo a capriccio. […] Tornando al cacciavite di Rorty si noti che la mia obiezione non escludeva che un cacciavite possa permettermi infinite altre operazioni: per esempio potrei utilmente usarlo per uccidere o sfregiare qualcuno, per forzare una serratura o per fare un buco in più in una fetta di groviera. Quello che è sconsigliabile farne è usarlo per grattarmi l’orecchio. Per non dire (il che sembra ovvio ma non è) che non posso usarlo come bicchiere perché non contiene cavità che possano ospitare del liquido. Il cacciavite risponde di SI a molte delle mie interpretazioni ma a molte, e almeno ad una risponde di NO».
Tutto questo complesso discorso filosofico può forse essere parafrasato in un semplice esempio di vita quotidiana. Tutti i giorni per andare in università a Milano devo percorrere un tratto di strada a piedi. Non si tratta di un tragitto lungo, ma di fatto molto bello: dopo aver costeggiato il carcere di san Vittore mi trovo circondata da ville antiche e, spesso, da macchine molto costose. L’immagine dei milanesi frenetici e scorbutici già di prima mattina è assolutamente confermata dalla realtà dei fatti, quindi, come ogni mattina mi ritrovo a camminare spedita, spesso poco curante di ciò e di chi ho attorno. C’è un dettaglio però che in questa descrizione manca e mi piacerebbe sapere, se ognuno di voi potesse venire con me una mattina, quanti saprebbero dirmi che cosa non ho riportato. Ai cigli delle strade, alle entrate dei negozi o dei bar lussuosi ci sono dei ragazzi che silenziosamente mendicano. È ormai un anno che tutti i giorni percorro la stessa strada, con alcuni di loro mi è capitato di scambiare anche due parole, ma con altri mi sono sempre limitata a un sorriso e un saluto nella frenesia delle mie mattine in ritardo. Qualche giorno fa, presa come ero dalla giornata iniziata troppo tardi per una sveglia mancata e i messaggi insistenti di un’amica che mi stava aspettando in università, ho passato il tragitto con lo sguardo incollato al mio telefono. Finché, a un certo punto, sento una voce alle mie spalle “Ei ragazza, ei? Ei?”, mi volto e il ragazzo di colore si stava sbracciando per salutarmi e richiamava a sé tutta la mia attenzione. Quella mattina sono stata strappata dai miei pensieri e dalle mie preoccupazioni dal saluto di quel ragazzo che instancabilmente mi richiamava a un mondo – alla realtà, bellissima – che mi aspetta fuori dalle mie interpretazioni già iniziate alle 8 di mattina.
25 Maggio 2018 | Vorrei, quindi scrivo
50 anni fa era il maggio del ’68. Le sue nozze d’oro sono state celebrate in ogni modo dai giornali, dalla televisione e da ogni forma culturale.
Questo romanzo, pubblicato 22 anni prima di quegli eventi, però non parla del maggio di Parigi o della rivolta di Praga. Da ogni pagina di questo libro però evapora uno spirito rivoluzionario, quello di Zorba che ha cambiato la vita dell’autore Nikos Kazantzakis e che ha ispirato quest’opera.
È un testo che trasformerà ogni lettore e che ha trasformato me: cosa c’è quindi di meglio per ricordare una rivoluzione che rivoluzionarsi?
Zorba il greco è la storia di un’amicizia. Il protagonista che ci racconta la vicenda, un intellettuale che rappresenta lo stesso Kazantzakis, incontra per caso in un locale di porto Zorba, un uomo di mezz’età, un «crapulone, beone, lavoratore instancabile, donnaiolo e zingaro». Questi si unirà al viaggio del narratore a Creta, dove ha comprato una miniera di lignite per stare in contatto con gli operai, con le persone più umili. Nella magnifica isola greca i due troveranno ospitalità presso l’albergo dell’anziana Madame Hortense, nient’altro che una fila di cabine da spiaggia. Qui sogneranno il proprio progetto per la miniera e cercheranno di realizzarlo. Zorba s’infatuerà di Madame Hortense e si consumerà la relazione fra «il vecchio capitano» e «Bubulina». E il letterato idealista, timoroso, tormentato imparerà a conoscere e ad amare Zorba l’avventuriero, il guerriero, il suonatore e l’amante durante lunghe discussioni, dalla patria alla religione, dall’amore alla morte.
Immerso nella natura mediterranea selvaggia ed incontaminata, rigogliosa di profumi e colori, e nella gente semplice, spontanea, piena di difetti e passioni, il protagonista imparerà da Zorba a vivere la vita a pieno, istante per istante, «come dovesse morire da un momento all’altro». Capisce di dover lasciare stare Buddha, l’opera che tentava di scrivere, la lettura di Dante. Zorba gli insegna a mandare al diavolo Dio, la religione, la morte, tutto. Sulle spiaggie cretesi gli mostrerà come ballare incurante di tutto, una danza che è partecipazione piena all’esistenza, vitalità assoluta. Così vivrà le proprie passioni, le consumerà fino in fondo, fino a capire la vera natura dell’uomo, fra imprevisti e lutti improvvisi.
In quest’opera si sente tutta l’influenza su Kazantzakis di Nietzsche, che lo stesso autore enumera fra le persone che hanno lasciato l’impronta più profonda nella sua vita. Zorba rischierebbe di essere letto solo come manifestazione letteraria del superuomo, ma così non è. Nella prefazione l’autore afferma: «Nietzsche mi ha arricchito di nuove angosce e mi ha insegnato a trasformare la sventura, l’amarezza e l’incertezza in orgoglio, e Zorba mi ha insegnato ad amare la vita e a non temere la morte». Nietzsche e Zorba sono quindi due figure ben distinte: Zorba raffigura una persona realmente esistita che ha avuto una grande influenza sullo scrittore greco e, inoltre, se Nietzsche rappresenta la fonte delle domande, Zorba è la risposta vivente ad esse. Zorba infatti è uno spirito puro, un’intelligenza profonda non corrotta dalle risposte preconfezionate della cultura. Una persona libera da convenzioni sociali, analfabeta ma profondamente filosofica. La sua forza vitale e la sua intuizione lo spingono avanti, permettendogli di trovare risposta alle questioni che affliggono anche l’autore, senza ricorrere però ai libri, ma ricercando soddisfazione nella vita stessa, vissuta con passione e liberamente. Il solo posto in cui, se ci sono, possono esserci.
«Il grido più libero che io abbia mai conosciuto in vita mia». Così parla Kazantzakis di Zorba.
Se non è questa una rivoluzione!
Articolo di Pablo Lavalle
20 Maggio 2018 | Vorrei, quindi scrivo
“Un canto d’amore per la Terra e un monito per gli uomini”
Un giaguaro che mentre si abbevera ad un corso d’acqua lancia di rimando all’osservatore uno sguardo attento, maestoso ma mansueto, come un sovrano buono. La zampa squamata di un’iguana che brilla come la corazza di un guerriero medievale. Due giovani etiopi che offrono il loro volto in cui spicca, nel rispetto delle pratiche tradizionali, un grande disco labiale. Una sconfinata distesa di ghiaccio sulla quale marciano centinaia di pinguini che si rimpiccioliscono progressivamente, fino a diventare quasi formiche, grazie al gioco prospettico. Sono queste alcune delle più di duecento fenomenali immagini che compongono Genesi, l’ultimo lavoro del fotografo di origine brasiliana Sebastião Salgado, in esposizione dal 22 marzo al 16 settembre 2018 a Torino presso la Reggia di Venaria. La mostra raccoglie fotografie di animali in via di estinzione e non, uomini di tribù indigene e paesaggi mozzafiato in un itinerario suddiviso in cinque sezioni: “Il Pianeta Sud”, cioè l’Antartide con i suoi ghiacciai, “I Santuari della Natura” ovvero le isole culla della biodiversità, “l’Africa” e i suoi deserti, il “Il grande Nord” con la taiga dell’Alaska, e “L’Amazzonia e il Pantanàl”, polmone verde della Terra. Le immagini sono affiancate da accurate descrizioni ricche di preziose informazioni scientifiche e antropologiche.
Anche gli amanti della fotografia a colori si troveranno rapiti da un bianco e nero che lega tutte le immagini come pagine di un’unica grande storia e che rende ogni dettaglio, dalla pelle coriacea dei caimani del Pantanàl alla finissima grana delle dune del deserto algerino, palpabile. Un bianco e nero che contribuisce inoltre a sottolineare le solennità dei soggetti immortalati dall’occhio attento e rispettoso, mai invadente, dell’autore; i capolavori di Salgado non sono infatti solo dotati di grande perfezione formale ma racchiudono un contenuto che potrebbe dirsi quasi morale. E davanti ad ogni soggetto immortalato si ha realmente la sensazione di essere al cospetto di qualcosa di biblico e primordiale.
Il progetto che ha portato alla creazione di questo lavoro nasce infatti dalla volontà di ritrovare e consacrare per sempre in un’immagine ciò che, come spiega lo stesso Salgado, è rimasto “esattamente come nel giorno della Genesi” (inaspettatamente, circa la metà del pianeta). Un canto d’amore per ciò che è scampato dall’abbraccio soffocante di uno sviluppo insostenibile, ma anche un’esortazione alla sua conservazione e salvaguardia, a fare un passo indietro. Una richiesta d’aiuto alla quale Salgado si è impegnato in prima persona a rispondere concretamente: su suggerimento della moglie Lélia ha avviato a partire dagli anni novanta un ambizioso progetto di riforestazione nel sud-est del Brasile, attraverso l’organizzazione no-profit Instituto Terra, che ha come obiettivo il ripristino dell’ecosistema, a cui si affiancano programmi di ricerca scientifica, educazione ambientale e sensibilizzazione (www.institutoterra.org ).
Genesi è il risultato di un viaggio durato dieci anni che ha portato il fotografo in trentadue diverse destinazioni, comprendendo molte tappe prive di “strade” intese nella concezione moderna del termine: Salgado ha ad esempio attraversato l’Etiopia a piedi, per un totale di circa 80 giorni di cammino. Questo progetto segna il suo passaggio da un approccio più umanitario a uno naturalistico, senza però rinunciare, come si è detto, ad una fotografia- reportage con finalità attiva, di monito ed esortazione. Il fotografo, economista di formazione, ha in passato documentato fra le altre cose la siccità del Sahel, l’incendio dei pozzi petroliferi ordinato da Gheddafi alla fine della Guerra del Golfo, le condizioni lavorative nei settori di base della produzione, da cui è risultata la monumentale pubblicazione di 400 pagine La mano dell’uomo, (Contrasto, 1994), per poi passare all’umanità in movimento; migranti profughi e rifugiati di tutto il mondo, i cui ritratti sono raccolti in due libri di grande successo: In cammino e Ritratti di bambini in cammino (Contrasto, 2000).
Ma lo stretto e prolungato contatto empatico con il dolore e la violenza ha portato Salgado ad ammalarsi: è in particolare il periodo passato a documentare il genocidio in Ruanda, che lo ha trascinato in uno stato depressivo sfociato in una sofferenza fisica, spingendolo addirittura a dichiarare di voler smettere il suo lavoro. Nonostante tutto questo non è accaduto, e dopo un periodo di tranquillità e ripresa ha intrapreso il viaggio del quale Genesi è il frutto. Una mostra da non perdere, carica di stupefacente bellezza formale e ricca di contenuti, di un grande artista che così spiega il suo lavoro in un’intervista a Benedikt Taschen: “La fotografia è una sorta di fenomeno: […] c’è un legame tra i soggetti e la fotocamera e tu diventi parte di questo sistema. Ogni elemento concorre al risultato e tu arrivi al massimo quando sai che non puoi ottenere un’immagine migliore. Cresci insieme al fenomeno, sei parte del fenomeno, e “vieni fuori” da quello. È un piacere immenso fotografare.”
10 Maggio 2018 | Vorrei, quindi scrivo
Cari lettori,
immaginate per un secondo di tornare alle elementari, in terza, più o meno. Immaginate quelle noiose lezioni di storia del venerdì pomeriggio, quando il parco di fronte alla scuola era tutto ciò che il cuore e la mente potessero desiderare. Invece no, la maestra vi inchiodava alla sedia, richiamando a sé tutta la vostra attenzione. Oggi, almeno per un po’, ci troviamo proprio lì, su quella sedia. Ricordate anche tutti quei concetti stereotipati nella mentalità comune, quella che anche il più disattento tra i vostri compagni si porterà nella tomba? Ecco, per esempio, che il Medioevo è un secolo buio, o che la società feudale è una piramide? Ognuno di noi è cresciuto con alcuni stereotipi ben chiari, saldi e ancorati nella propria istruzione.
Ora, accettate di fare un salto nel passato, molto più indietro rispetto al vostro piccolo banco della vostra scuola elementare. È necessario scorrere con un balzo molti secoli addietro.
Siamo esattamente nel 1244, in un momento in cui tutto – almeno nel nostro pensiero – è buio, cupo e ovattato. Gerusalemme è caduta nelle mani degli infedeli e la situazione per i cristiani in quei territori era critica. Ci troviamo improvvisamente catapultati sul soglio pontificio, dove nel 1272 salì papa Gregorio X. Immaginiamo le notti insonni di un uomo fortemente preoccupato per i territori della Terra Santa e per i cristiani che lì vivevano. Tra gli incubi e le preoccupazioni di molti uomini per il recupero di quelle terre così cariche di storia e significato emergono le storie di altri uomini. Tra questi c’è un francescano, vicario di Terra Santa dal 1266, il suo nome è Fidenzio da Padova, autore del Liber recuperationis Terrae Sanctae. Certamente l’opera è intrisa dell’ideale di una guerra giusta. Eppure, un dettaglio balza agli occhi, quasi come una svista o un inspiegabile cambiamento di mentalità: l’esercito cristiano è posto inizialmente in una condizione di pace nei confronti degli avversari ed è legittimato a intervenire militarmente solo in caso di legittima difesa. Ecco che nelle nostre certezze incrollabili della scuola elementare appare in tutto il suo spessore la complessità della realtà, sempre pronta a ribellarsi ad ogni semplicistica riduzione.
Un altro uomo poi ci richiede uno spostamento geografico notevole: ci ritroviamo in Spagna, a Palma di Maiorca, nel monastero di Miramar fondato dalle preoccupazioni pedagogiche e missionarie di Raimondo Lullo. Proprio in compagnia del teologo maiorchino andiamo alla scoperta di un balzo storico fondamentale. Nel Liber de passagio la crociata non è finalizzata al recupero di territori, o almeno non solo, ma diventa un’impresa militare a sostegno di qualcosa di più grande: una missione religiosa, attuata secondo precise indicazioni che, attraverso il dialogo con i sapienti islamici, avrebbe potuto portare alla conversione dei seguaci di Maometto. Il ripensamento della crociata parte dalla formazione degli ordini cavallereschi, fino ad arrivare alla creazione di un linguaggio ex novo che permettesse una miglior comunicazione.
Il nostro viaggio è terminato: potete tornare comodamente seduti di fronte al vostro computer.
C’è però qualcosa di importante che l’incontro con quelli che pensavamo essere secoli così cupi ha lasciato. Abbiamo potuto incontrare due uomini che hanno costruito la possibilità di un dialogo, διά – λόγος. διά è quella preposizione greca che indica la medietà, il passaggio attraverso qualcosa. λόγος, il cui significato oscilla tra ragione e discorso. Nella costruzione di questo terreno comune nessuno dei due autori ha dimenticato o rinnegato la propria identità – nel bene o nel male. A partire da quella identità precisa e definita ha potuto iniziare un viaggio di conoscenza alla scoperta degli infedeli, ciò che più diverso e lontano potesse esserci in epoca medievale da un cristiano.
In epoca più recente Baumann ha affermato che la degenerazione dell’appartenenza in un muro è frutto di insicurezza. Se la mia appartenenza è ragionevole e consapevole, allora la mia identità è sufficientemente solida e salda per entrare in relazione – appunto, in dialogo – con un’alterità. «Il dato di partenza è una miscela di culture, lingue e memorie del tutto inedita nella storia. La sfida è capire come si possa vivere in pace non malgrado le differenze, bensì grazie a esse, perché quando lei porta in un incontro la sua tradizione e io la mia, ne usciamo entrambi arricchiti: io ho imparato qualcosa da lei e lei, spero, qualcosa da me. Non ci sono sconfitti, siamo tutti vincitori», così Baumann descriveva la situazione circa un anno fa.
La sfida è proprio una strada di conoscenza che richiede il coraggio di essere intrapresa, nella quotidianità delle giornate, in politica, nel dialogo interreligioso. Baumann dipinge un quadro molto chiaro dei passi necessari da intraprendere: «la condizione umana è globale, i problemi hanno una portata globale, ma gli strumenti di cui disponiamo per gestirli sono locali. La sfida è di alzare il livello delle nostre istituzioni, affinché conquistino una forza e un’efficacia globali. Io sono vecchio, presto morirò, ma i giovani dovranno passare la vita cercando di costruire questa comunità senza confini».
Credo che tutto questo possa essere una piccola sveglia interiore per la responsabilità di ognuno.
21 Aprile 2018 | Vorrei, quindi scrivo
Alhelì è un libro molto speciale. Tutte le storie che contiene sono nate dalla fantasia di un gruppo di bambini cresciuti nella periferia di Quito, nel quartiere di Tiwintza, dove opera la fondazione franco-ecuadoriana Ecuasol, alla quale si è aggiunto il talento di sette illustratori italiani.
Quando ho avuto la fortuna di conoscere la bellissima storia di questo progetto dalla voce della giovane brillante Tanja Di Piano, psicologa operante nel contesto dov’è sbocciato Alhelì, ho deciso che avrei dovuto assolutamente condividerla con più persone possibili.
Per chi ha fame di libri, idee e storie che ti riscaldano l’anima, ecco l’intervista che mi ha concesso Tanja, con la disponibilità e l’entusiasmo di chi prima di insegnare qualcosa ai bambini, ha saputo da loro imparare.
1. Quando si pensa all’atto di raccontare storie di solito immaginiamo i bambini in qualità di ascoltatori; come nasce l’idea di farle invece raccontare proprio a loro?
A Quito il tempo cambia in continuazione. Devi avere sempre addosso una maglietta a maniche corte, una felpa calda, un antipioggia e nel dubbio pure una sciarpa. Era un pomeriggio molto piovoso quando nacque questo progetto. Mi trovavo in una biblioteca per bambini, cercando un testo da usare con loro durante alcuni laboratori che stavo tenendo. L’idea mi è balenata lì, per terra, sulla moquette. Ho subito inviato un messaggio a chi sapevo mi avrebbe ascoltato e che era a conoscenza del lavoro che stavo facendo: “E se gli facessi scrivere delle storie loro al posto di fargli leggere quelle di qualcun’altro?”. Era un progetto timido, un’idea in punta di piedi, ma ha toccato i cuori giusti, ed è diventato questa meraviglia di libro, scritto dai bambini e per i bambini. Farlo in un quartiere come Tiwintza nasce dalla consapevolezza di quanto poco spazio sia stato dato alla loro fantasia e creatività. Nasce dalla volontà di mostrare e dimostrare loro come un’idea e una storia, così astratte e impalpabili, possano prendere forma nella concretezza di un libro illustrato. Nasce dalla voglia di aiutare questi bambini, negli anni in cui si sta definendo la loro forma mentis, ad aprire i loro pensieri verso nuove prospettive, esplorando nuovi mondi, fuori e dentro di loro, per valorizzarli e dar loro una possibilità di crescita differente da un apprendimento prettamente scolastico. Un altro approccio educativo che si affianca al tipo di lezioni che sono abituati a ricevere durante il loro percorso di vita.
2. Per aiutare i bambini e ragazzi nel progetto di narrazione creativa si è servita di qualche “attrezzo del mestiere” particolare?
Una mente super aperta, un po’ di umiltà e un sacco di creatività. Avevo un’idea su cosa volessi fare, un canovaccio di strumenti e punti focali, certo, ma ho cercato di chiedere l’opinione di tantissime persone. Dai miei colleghi, alle persone in Italia, a giornalisti, scrittori, maestre… ho trovato tantissima disponibilità, tantissima voglia di condividere e offrire punti di vista. Li ho raccolti tutti e li ho fatti miei, prendendo il buono e adattandoli a chi avevo davanti. Nella pratica si è trasformato in un viaggio nella fantasia. Ho iniziato portandoli in braccio, facendo laboratori semplici, con l’aiuto di strumenti come il Dixit (usato in varianti molto diverse). Poi ho camminato un po’ per mano con loro, studiando insieme le parti delle fiabe, memorizzando quelle che più ci piacevano e cambiandone qualche parte. E infine, dopo giochi, disegni e rappresentazioni teatrali di quello che avevamo imparato, mi sono messa da parte, e ho lasciato che la loro creatività sbocciasse. Sono stati divisi in gruppi, più o meno per età, e con ognuno di loro abbiamo fatto un brainstorming durato un paio di incontri dove avevano la possibilità di esprimere tutte le loro idee, che sono state raccolte; gli abbiamo dato insieme una forma e sono stati scelti i dettagli come i nomi, il titolo ecc. Una volta finita l’abbiamo riletta insieme e voilà, la magia era fatta.
3. Come se l’è cavata con la diversità della lingua? I bambini l’hanno aiutata a farsi capire? Come?
Sono arrivata alla fondazione Ecuasol per una serie infinita di congiunzioni astrali, grazie alla grande fortuna di aver incontrato persone che mi hanno dato una fiducia inaspettata. L’impatto iniziale è stato indubbiamente complicato dal punto di vista linguistico: condividevo la casa e il luogo di lavoro con ragazzi francesi e dovevo relazionarmi tutti i giorni con bambini e adulti che parlavano spagnolo. Inutile dire che non conoscevo nessuna delle due lingue, sarebbe stato troppo semplice! Dalla mia ho grande testardaggine e caparbietà, quindi all’inizio mi sono servita di qualche malcapitato che parlava un po’ di inglese perché mi facesse da traduttore e nel frattempo ho preso lezioni, senza fare altro che studiare. Nel giro di un mesetto sono passata dal semplice: “Qual è il tuo animale preferito?”, grande cavallo di battaglia che ho usato con TUTTI i bambini, presa dal panico, a poter avere conversazioni sempre più articolate e adatte al mio lavoro. I bambini, come sempre, sono stati uno spettacolo, e con alcuni di loro la “barriera” linguistica è stata quasi una fortuna, perché mi ha permesso di avvicinarmi ed essere avvicinata in una maniera diversa e forse più delicata rispetto ad un approccio standard; utilissimo con chi, come loro, non ha vissuti semplici.
4. Chi si è occupato della parte illustrativa e grafica del libro?
La parte grafica (ma anche quella relativa alla ricerca degli artisti e degli sponsor e la spinta al rendere questo progetto bellissimo e grande com’è diventato) è merito di Boumaka, uno studio di graphic designers che si trova a Torino (li potete sbirciare qua: http://www.boumaka.it/ita/). Senza i componenti di Boumaka questo progetto avrebbe preso una piega molto più silenziosa, io ed Ecuasol dobbiamo loro tantissimo. Per quanto riguarda gli artisti incredibili che hanno prestato il loro tempo e talento alla causa sono: Daniela Goffredo (www.facebook.com/dadaillustrations), Alice Lotti (www.alicelotti.com), Serena Ferrero (www.facebook.com/santamatitaillustration), Elyron (www.elyron.it), gli Happy Centro (www.happycentro.it), Gianluca Cannizzo (www.facebook.com/mypostersuck), Hikimi (www.hikimi.it).
Ognuno con il suo stile, ognuno bravo da lasciarci il cuore.
5. Saprebbe darci qualche informazione su cos’è e come opera la fondazione Ecuasol?
Ecuasol è una fondazione franco-ecuatoriana situata a Tiwintza, quartiere svantaggiato della zona nord di Quito, in cima ad una montagna; il suo obiettivo è aiutare circa sessanta bambini e ragazzi dai 6 ai 20 anni e le loro famiglie durante la crescita, mediante un approccio a 360 gradi. Fornisce una possibilità di crescita alternativa a quella che può venire offerta dalle prospettive di un quartiere come quello, che si ritrova ad essere tra i più svantaggiati sia a livello economico sia socio-culturale. Nello specifico Ecuasol si occupa di supportare l’istruzione, di regolare l’alimentazione, di affiancare le famiglie e offrire supporto psicologico (parte di cui mi sono occupata io nello specifico), di far eseguire check up annuali e visite mediche specialistiche, di dare un aiuto economico alle famiglie, di organizzare workshop e attività ludico-ricreative. Il team che lavora nella fondazione è composto da quattro insegnanti che si occupano prettamente della parte scolastica, due cuoche che fanno in modo che i bambini abbiano un pasto sano e bilanciato ogni giorno e diverse figure professionali per la parte di contabilità, comunicazione, pedagogia e aiuto socio-assistenziale.
6. Lei ha insegnato ai bambini di Quito a raccontare storie, potrebbe svelarci qualcosa che loro hanno insegnato a lei?
Nella mia vita ho avuto la fortuna di collezionare tantissime esperienze con i bambini, sia all’estero che in Italia, tra il volontariato e il lavoro, e se c’è un pensiero che ho consolidato sempre di più negli anni è che noi “grandi” ci portiamo a casa molto di più di quello che lasciamo ai piccoli. I bambini sono delle spugne a fattezza d’uomo, nel bene e nel male assorbono tutto ad una velocità impressionante. Hanno molti meno filtri sociali; difficilmente non ti diranno quello che pensano senza filtri di sorta. Hanno la capacità di farti delle domande così spiazzanti nella loro semplicità che ti ritrovi obbligato a riflettere sul mondo e su te stesso. Sanno pretendere, sanno ridere in maniera incontrollata, sanno ascoltare ciò che conta e darti il mondo, senza troppi convenevoli. Per i bambini di Ecuasol, che arrivano da una situazione incredibilmente complicata sotto ogni punto di vista (la maggior parte di loro ha vissuti di violenze dirette o indirette, genitori alcolisti o con problemi di droghe, difficoltà economiche molto impattanti e problematiche di salute notevoli) ho in particolare una profonda ammirazione, per la caparbietà e la resilienza che dimostrano ogni giorno di avere. Ribalta le prospettive sulle tue priorità avere a che fare con degli esserini così piccoli eppure così coraggiosi.
7. C’è una storia che preferisce in questa raccolta, una che l’ha personalmente colpita di più?
Questa domanda è come chiedere ad una mamma se ha un figlio preferito. Eticamente scorretto, segretissimamente un pochino veritiero! Sono tutte bellissime e molto molto personali; la personalità di ogni membro del gruppo è venuta fuori in maniera inaspettata e quasi commovente. Le ho viste nascere, svilupparsi e prendere le forme più svariate e non potrei essere più fiera del risultato. Forse però, la storia intitolata “Verdi di invidia” mi ha rubato il cuore un pochino più delle altre; l’ha ideata un gruppo di bimbe molto piccole e ho trovato stupendo come siano riuscite a far passare un messaggio “forte e chiaro” in maniera così delicata. Hanno tutta la mia invidia per essere riusciti a trovare delle storie così uniche e belle.
8. Che cosa significa “Alhelì”?
Non è stato semplice trovare un nome che potesse rappresentare la bellezza, la forza ma anche la precarietà e la difficoltà della vita dei piccoli grandi esseri umani che fanno parte della fondazione Ecuasol; quando abbiamo trovato Alhelì, che ha un significato forte e delicato allo stesso tempo, ci è quindi sembrato perfetto. “Alhelì” è infatti il termine spagnolo per definire quei fiori spontanei e variopinti in grado di crescere in qualsiasi ambiente, anche sfavorevole: come le crepe, le fessure dei muri, gli spazi angusti e difficili.
9. Dove è possibile acquistare il libro?
Visto che il progetto è stato sviluppato interamente pro bono, vogliamo che tutti i proventi vadano alla fondazione. Abbiamo quindi scelto di non coinvolgere case editrici o librerie che prendessero una percentuale sulla vendita. Al momento il modo più semplice per poter avere il libro è chiederlo a me, a qualcuno dei nostri meravigliosi artisti, o alla pagina di facebook: https://www.facebook.com/progettoalheli.

6 Aprile 2018 | Vorrei, quindi scrivo
È da poco finito un lungo periodo di campagna elettorale, fatto di molte parole e molte promesse. L’atteggiamento dei più è sfiduciato, come se in fondo fosse sempre implicita la verità di una promessa irrealizzabile. Si potrebbe discutere a lungo sulla poca credibilità di molti politici e su quanto tutta la sfiducia sia in realtà frutto di anni passati a credere davvero in alcuni ideali e personalità. Il malcontento di certo alberga ovunque ed è difficile non cedere alla retorica popolare, lasciandosi sopraffare. Sarebbe interessante, però, fare un passo in profondità, per accorgersi di quel che in fondo emerge di più radicale.
Due sono gli scenari che definiscono le diverse posizioni. Il primo vede protagonisti due uomini, Yasser Abdallah Salameh e Toni Hanna: il primo, un uomo palestinese – profugo – capocantiere molto scrupoloso, il secondo, un libanese militante nella destra cristiana. Sono questi i due protagonisti del film L’insulto, che si fa portavoce di quella profondità necessaria da ricercare per non cedere al ritornello delle polemiche sterili. Un impianto idraulico, una parola di troppo sono i soli ingredienti sufficienti per portare in tribunale i due uomini e coinvolgere nello scontro l’intero paese. Eppure, non si tratta soltanto della fervida fantasia più o meno ancorata alla realtà di un brillante regista. Così infatti Ziad Doueiri descrive la genesi del film: «L’idea arrivò da un evento molto simile a quello scatenante del film. Un incidente stupido tra me e un operaio, degenerato all’improvviso in qualcosa di più grande, doloroso. Lì è finita in uno scambio di insulti e parolacce, ma rimasi ossessionato dall’ipotesi che la lite potesse facilmente divenire un affare nazionale se avessimo continuato su quei binari. Ne parlai con mia moglie, ora ex, che era presente e contribuì a far sì che tornassimo a più miti consigli. Mi scusai col suo capo per il mio comportamento, ma il boss lo licenziò. Allora presi le sue difese: da nemici divenimmo alleati e allora capii. Capii subito che era la premessa, la miccia di qualcosa di importante». In gioco c’è dunque molto di più persino di un caso appartenente a un solo Paese, in gioco c’è la forza distruttiva che appartiene a ogni ideologia e che offusca la vista, al punto da rendere impossibile la vista di colui che si trova proprio di fronte ai nostri occhi. In contesti, situazioni e dinamiche diverse non è di certo difficile correre con il pensiero alla campagna elettorale appena conclusa. Duri sono stati i toni, le polemiche e forti le tensioni. Indicativa a riguardo è l’interpretazione dello storico De Felice che distingue il fascismo storico, morto con il duce a piazzale Loreto, dall’eredità psicologica che il fascismo ha lasciato nella memoria e nella storia degli italiani. Esempio più evidente è l’atteggiamento in politica, dove il nemico è oggettivo e il confronto è utile solamente se finalizzato all’annientamento.
Il secondo scenario vede in campo due uomini anziani, con il peso di molti anni sulle spalle e un gran bagaglio da offrire, il cui incontro è un esempio evidente e chiaro che è possibile oltrepassare il muro dell’ideologia per incontrare e tornare a vedere chi si ha di fronte. Si tratta di Eugenio Scalfari e Papa Francesco. Anche in questo caso è necessaria un’attenta capacità osservativa e un affondo in profondità per comprendere bene i termini in questione. Infatti, tante sono le critiche superficiali di coloro che si limitano a accusare Bergoglio di aver venduto parte della sua identità a chi per tanti anni ha rappresentato l’emblema del laicismo. È necessario scovare, con un cauto uso della ragione, le fondamenta di questo rapporto, apparentemente così anomalo. È davvero possibile mantenere la propria identità in un confronto così eterogeneo? In un articolo de La Stampa dell’estate scorsa Massimo Borghesi richiamava una fessura, uno spiraglio che consentirebbe il dialogo così schietto tra i due. Non si tratta di una conseguenza del proselitismo o della conversione di una tra le due posizioni: è Scalfari stesso a definirsi ateo. «Il Papa naturalmente sa che io sono non credente, ma sa anche che apprezzo moltissimo la predicazione di Gesù di Nazareth che considero un uomo e non un Dio. Proprio su questo punto è nata la nostra amicizia». Si tratta di una posizione umana profondamente onesta, che riconosce una ricerca, costante e insistente, verso la verità, qualunque siano i mezzi che le storie personali hanno messo a disposizione di ognuno. Borghesi nel suo articolo definisce l’anima religiosa di Scalfari. Non trovo accezione migliore per questa espressione se non nell’anelito verso la verità, non verso quell’idea più o meno chiara che ognuno si costruisce della sua propria verità. In un articolo del 16 luglio, “La politica e il lascito perduto della modernità”, Scalfari ricorda una figura a lui cara, Eugenio Montale, citandone alcuni versi:
Oh
l’orizzonte in fuga, dove s’accende
rara la luce della petroliera!
Il varco è qui? Ripullula il frangente
ancora sulla balza che scoscende…
Tu non ricordi la casa di questa
mia sera. Ed io non so chi va e chi resta.
Il varco descritto da Montale è la fessura citata da Borghesi: quello spiraglio che consente di accogliere l’altro come dono per sé e rompere l’uniformità intatta del proprio pensiero.
Molto indicative sono le parole di Scalfari a conclusione della sua intervista al Papa l’8 luglio: «Si è fatto tardi. Francesco ha portato con sé due libri che raccontano la sua storia in Argentina fino al Conclave e contengono anche i suoi scritti che sono moltissimi, un volume di centinaia di pagine. Ci abbracciamo nuovamente. I libri pesano e li vuole portare lui. Arriviamo con l’ascensore al portone di Santa Marta, presidiato dalle Guardie svizzere e dai suoi più stretti collaboratori. La mia automobile è davanti al portico. Il mio autista scende per salutare il Papa (si stringono la mano) e cerca d’aiutarmi a entrare in automobile. Il Papa lo invita a rimettersi alla guida e ad accendere il motore. “L’aiuto io” dice Francesco. E accade una cosa che secondo me non è mai accaduta: il Papa mi sostiene e mi aiuta a entrare in macchina tenendo lo sportello aperto. Quando sono dentro mi domanda se mi sono messo comodo. Rispondo di sì, lui chiude la portiera e fa un passo indietro aspettando che la macchina parta, salutandomi fino all’ultimo agitando il braccio e la mano mentre io – lo confesso – ho il viso bagnato di lacrime di commozione».
Sono ricolme di vita queste parole, non dense dell’ennesima teoria sul valore della relazione e dello scambio e quindi infinitamente preziose. Non stupisce leggere i titoli dei giornali sull’ultima intervista tra i due; penso sia solamente l’ennesima conferma che non si tratta di un legame sovrumano o impossibile, ma profondamente radicato nell’umano stesso, fatto anche di limiti, incomprensioni e diversità. Nulla che possa escludere però, in questo caso, un rapporto sincero e autentico.