Il problema dei tre corpi

Il problema dei tre corpi è una delle serie tv Netflix più recenti, creata dai due noti produttori de Il Trono di Spade, David Benioff e Daniel B. Weiss, e da Alexander Woo. Il nome dei produttori, il cast di qualità, i 200 milioni di dollari spesi per realizzarla… tutti fattori che avevano creato un forte hype già prima dell’uscita della serie tv. Ma le aspettative sono state soddisfatte o sono state frustrate?

Il problema dei tre corpi, ispirata all’omonima trilogia dello scrittore cinese Liu Cixin, tratta di un gruppo di fisici londinesi che si trova coinvolto in una serie di eventi sinistri: il suicidio di una collega, che si configura come l’ennesima morte di uno scienziato autorevole; dei fenomeni fisici inspiegabili che mandano in tilt gli scienziati di tutto il mondo; delle strane allucinazioni che sembrano causate da psicosi di massa…Tutte problematiche che in breve tempo trovano spiegazione con la possibilità di una presenza aliena. Ecco svelato il genere della serie, si tratta di un prodotto sci-fi sugli extraterrestri. È stata proprio questa scelta tematica a comportare le critiche di chi ritiene l’argomento ormai banale e poco impressionante.

Tuttavia, questa serie tv è davvero così banale come appare ad alcuni? Ebbene, io ritengo che solo un approccio superficiale possa far pensare che il fulcro della serie sia semplicemente quello di presentare l’ennesimo mondo parallelo e distopico: il pretesto della presenza aliena è utilizzato per una ben più ampia e significativa riflessione su che cosa sia il progresso umano e dove questo ci stia conducendo. Il problema del progresso, infatti, è che presenta due facce opposte e complementari: da un lato sembra essere assolutamente necessario per la razza umana, dall’altro è esso stesso a essere la prima causa della distruzione e della sofferenza di uomini ed ecosistemi. Così, in questo dimenarsi tra necessità e nocività dell’evoluzione scientifica, i personaggi della serie tv intavolano i seguenti grandi interrogativi: il progresso è un dovere? Gli scienziati sono sempre nel giusto ed esenti da responsabilità morali? Quanto delle nostre disgrazie è dovuto alle invenzioni scientifiche? Non solo: la serie è anche capace di sviluppare dinamiche ben più vicine a noi, di problemi della vita quotidiana: relazioni amorose, lavoro, famiglia, malattie; tutte tematiche che – seppur sviscerate fin dalla notte dei tempi – sono trattate con una profondità che non cessa di comunicare qualcosa di nuovo allo spettatore.

In altre parole, i personaggi sono sia persone immerse nelle problematiche della vita, sia impersonificazioni di problemi morali e di riflessioni filosofiche. Il tutto senza sottrarre spazio a un succedersi di eventi estremamente avvincente, che rende la serie fruibile anche a chi fosse poco interessato alla speculazione metafisica. A mio avviso, quindi, Il problema dei tre corpi riscopre una profondità spesso dimenticata dall’industria della serie tv ed è per questo motivo che ha riscosso già molto successo (in Italia, ad esempio, è una della serie tv più viste dell’anno) e – a buon diritto – ne sta riscuotendo sempre di più.

Voci nascoste – Una ricchezza da custodire

Nei giorni scorsi ho ascoltato il podcast “Voci nascoste”, scritto da Valerio Millefoglie e raccontato da Mario Calabresi. Insieme a tre fotografi, i due hanno attraversato l’Italia alla ricerca delle minoranze linguistiche con una storia antica e un presente ancora vivo. Hanno spaziato dalla Val d’Aosta al Salento, sulle tracce del patois e del griko, fino all’arbëreshë della Piana degli Albanesi in Sicilia.
Ancora oggi numerose persone tengono insieme tradizioni e secolarità semplicemente parlando. Non si tratta solo di anziani che hanno assorbito queste lingue antiche sin da bambini, ma anche di giovani che scelgono di impararle per riscoprire le proprie radici.
Sicuramente, le tre puntate mi hanno spinta a riflettere molto su quanta ricchezza dimenticata, o perlomeno trascurata, abiti le nostre valli e i nostri paesi, e su quale sia il modo più efficace di custodirla.
“Il campanile di Giotto, la Gioconda di Leonardo, per me che non ho opere monumentali da presentare ai turisti, sono la mia lingua. Lingua inquinata, spezzettata, inacidita con gli escrementi di volatili come monumento trascurato, annerita dallo smog, in pericolo costante di distruzione, ma pur sempre la mia opera architettonica più bella, il capolavoro d’arte della mia civiltà”
Ecco le parole di una poesia scritta da un membro della minoranza arbëreshë per celebrare la sua lingua, “l’albanese degli italiani”, derivata dagli albanesi che nel ‘400 giunsero sulle coste italiane per sfuggire alla dominazione turca.
La lingua è un “monumento vivente” in grado di stabilire un contatto con le civiltà del passato al pari delle testimonianze archeologiche. Anzi, essa dà la possibilità di immergersi ancora più autenticamente nel vissuto delle generazioni che ci hanno preceduti, soprattutto quando rappresenta l’unica eco del passaggio di popoli lontani. C’è una parola arbëreshë, kùjtimi, che indica il “ricordo attivo”, lo sforzo compiuto per mantenere vivo il legame con il passato e con l’identità dei propri antenati. Allo stesso modo, il griko è un ponte tra il tacco d’Italia e i greci all’altra sponda dell’Adriatico, il segno di un’unione cominciata in epoca bizantina o addirittura con la colonizzazione della Magna Grecia.
Trattandosi di lingue della “povera gente”, esse non solo rispecchiano il modo di vivere e di pensare di un popolo, ma sono anche intrise di atti e sofferenze quotidiane. Il patois, per esempio, la lingua delle pattes, che in francese significa “zampe”, è la lingua della terra, legata ai campi e agli animali. È il riflesso di un mondo contadino legato alla concretezza, in cui i concetti astratti non esistono e devono perciò essere espressi attraverso perifrasi.
Una delle sfide dei protagonisti del podcast è proprio quella di adeguare le lingue alle esigenze della contemporaneità. È il caso del giovane cantastorie e rapper valdostano Fabian Lucianax, che, insieme alla sua compagnia teatrale, crea contenuti per tenere vivo il franco-provenzale, anche attraverso l’introduzione di neologismi.
Ciò che emerge dai tre episodi, dunque, è che la contaminazione con la realtà “dominante” è inevitabile, e una chiusura alla realtà circostante risulta controproducente. Tuttavia, come osservano gli autori del saggio “Stiamo scomparendo. Viaggio nell’Italia in minoranza”, a cui il podcast è ispirato, “la lingua (…) può essere un elemento di differenza. E di conservazione delle differenze. Un antidoto a quel tipo di potere che – consciamente o inconsciamente – uniforma e appiattisce”.
Insomma, sebbene non sia possibile riportare le minoranze linguistiche al fasto di cui godevano nel passato, conoscerle ed interessarsi ad esse è prezioso. Si tratta di un’integrazione che può colmare le lacune dovute all’inconsapevolezza del nostro passato e fungere da legante per inserirci nel futuro con un’identità più complessa e sfaccettata.



La donna che canta (regia di Denis Villeneuve)

Recensione film

Quando le buste saranno state consegnate ai loro destinatari, vi sarà data una lettera, il silenzio verrà rotto, una promessa mantenuta, e sulla mia tomba potrà posarsi una lapide, e su di essa il mio nome, alla luce del sole.”
(da
La donna che canta, di Denis Villeneuve)

In molti hanno sicuramente visto al cinema Dune – Parte 2, diretto da Denis Villeneuve, o perlomeno ne avranno sentito parlare. In troppi pochi conoscono però uno dei film più belli diretti dal regista, La donna che canta (titolo originale Incendies). Tratto dall’omonima opera teatrale di Wajdi Mouawad, ha ricevuto la nomination come miglior film straniero agli Oscar del 2011.

La trama si sviluppa nel corso della guerra civile libanese e narra l’indagine di due fratelli sulla vera storia della madre, Nawal Marwal, appena defunta. Il film inizia in medias res, senza spiegoni o premesse. Un paesaggio arido, palme, grilli in sottofondo. Poi, una canzone lenta, dolce. La macchina da presa retrocede dietro a una finestra, la canzone sempre più forte. Bambini affollati, sporchi, feriti, le espressioni stravolte. Uomini in divisa rasano loro i capelli, che cadono a ciuffetti per terra, neri e irti. Un particolare sul tallone di uno dei bambini: un tatuaggio di tre puntini in colonna. E poi, quello sguardo. La macchina da presa avanza lentamente, si lascia penetrare da quegli occhi tanto giovani quanto scuri, devastati dalle tenebre. Gli occhi di un bambino senza nome, ma che ci guardano accusatori? Imploranti? Provocatori? Ricchi di odio? Difficile dirlo, sono solo i primi due minuti e venti secondi del film. Non vi è alcuna comprensione. Eppure Villeneuve, con quello sguardo, ci ha già catturati. Siamo complici inconsapevoli di quanto sta accadendo a quel bambino, e lui ci guarda, lo sa che ci siamo. Ma noi siamo solo spettatori, e nulla abbiamo in potere se non conoscere quella terribile storia che già inizia ad addensarsi come una nebbia. Un indizio da tenere bene a mente: quel tatuaggio, Villeneuve lo fissa e lo rende ben evidente.

1+1 può fare 1? È con questa criptica domanda che il mistero si dirada. La catena dell’odio da rompere: gli anelli sono sia l’amore sia l’orrore. Una grande promessa da mantenere.

Dove comincia la vostra storia?, chiede Nawal ai figli. Dove comincia la vostra storia?, chiede Villeneuve a noi. La chiamavamo la “donna che canta” perché cantava, sempre.

Kid Yugi e l’arte della citazione

Francesco Stasi (aka Kid Yugi) è un rapper emergente classe 2001, originario di Massafra, un centro di circa trentamila abitanti della provincia di Taranto. Il suo nome è comparso sulle bocche degli appassionati del genere dopo l’uscita del disco d’esordio, The Globe, avvenuta il 4 novembre 2022 per Universal. L’album aveva colpito positivamente il pubblico per il suo estro lirico fin dal titolo, che già denotava una forte tendenza alla citazione. Yugi, come dichiarato in un’intervista a Billboard, voleva richiamare infatti il teatro a cielo aperto messo in piedi dalla compagnia di William Shakespeare nel 1599, con l’intento di porlo a confronto con la cosiddetta “vita di strada”, topos lirico costante nei testi di genere rap. “Queste strade sembrano teatri / ‘sto sipario non vuole abbassarsi” sono i versi che chiudono “Hybris” (sì, la stessa hybris dell’Iliade), la prima traccia di The Globe. E i riferimenti al teatro non si fermano alla prima traccia: “Grammelot”, “King Lear” e “Il ferro di Čechov” sono i titoli di alcuni pezzi del primo album che testimoniano l’affiatamento del rapper con alcuni elementi o testi fondamentali del teatro moderno (rispettivamente: la tecnica teatrale onomatopeica messa in atto, tra gli altri, da Dario Fo; la nota tragedia di Shakespeare e la pistola (o fucile) di Anton Čechov, il principio narrativo ideato dall’autore russo per cui un’arma, presente in una messa in scena, prima o poi deve aprire il fuoco). 

 

Il primo marzo di quest’anno Kid Yugi ha rilasciato la sua seconda fatica, I Nomi del Diavolo, declinando in ciascuna traccia dell’album i diversi nomi e volti che può assumere il male. Per farlo Kid Yugi attinge a letteratura (la copertina, il pezzo “Il Signore delle Mosche”), musica (“Paganini”), mitologia (“Lilith”, “Lucifero”), ma anche alla realtà (“Denaro”, “Ilva”), mostrando il ventaglio di identità che nel suo immaginario il diavolo può incarnare. Ciò non deve però far pensare a un album “satanista”, anzi: come dichiarato nell’intervista a teatro rilasciata per Esse Magazine, il diavolo da lui immaginato non assume una forma totalmente maligna, ma lascia aperto lo spiraglio per una tensione verso il bene.
Al di là di scelte o limiti artistici che possono caratterizzare più o meno piacevolmente il lavoro del rapper pugliese, ciò che è nuovamente interessante per le orecchie degli ascoltatori è il numero di pregnanti citazioni a cui Yugi riesce a dar vita. Come fa notare una pagina IG di divulgazione sulla musica hip-hop, TastieraCapitale (https://www.instagram.com/tastieracapitale?utm_source=ig_web_button_share_sheet&igsh=ZDNlZDc0MzIxNw==), la dote particolare di Yugi è quella di accostare elementi di campi d’interesse culturale apparentemente opposti nel giro di poche rime, senza che questo risulti forzato o poco credibile per i suoi fini. Un esempio lo troviamo in una serie di versi autocelebrativi tratti da “Yung 3p 4”, la nona canzone de I Nomi del Diavolo

 

La mia merda è culto, il mio zoccolo duro sono i papaboys

Non è trap, è voglia di far sesso come Sigmund Freud

Dieci K al mese, spingo come un Boeing

(Kid Yugi – “Yung 3p 4”)

 

Tralasciando qualsiasi giudizio morale, fuorviante nell’analisi di certi testi musicali (questo discorso è lungo, complesso, più di quanto si possa pensare, e non è questa la sede per discuterne), possiamo notare ciò che è stato segnalato sopra: il cliché per cui i trapper hanno meno problemi “a rimorchiare” non è espresso dal rapper in maniera diretta, ma passando attraverso Sigmund Freud, il più noto studioso di psicanalisi del ‘900, che riservava a desideri inconsci di tipo sessuale le cause di certe inclinazioni individuali(es. complesso di Edipo). Nel frattempo troviamo attacchi ironici alla religione («il mio zoccolo duro sono i papaboys») o ostentazione di una ormai agiata condizione economica («Dieci K [= diecimila euro] al mese, spingo come un Boeing»). Il suo immaginario è questo, e a trascinarlo avanti sulle basi musicali è la sua voce possente, forse talvolta poco orecchiabile, ma di certo veemente, sia per i contenuti d’impatto comunicati, sia per il timbro grave che la caratterizza.

L’analisi di TastieraCapitale è acuta nell’evidenziare tale pregio della penna di Kid Yugi, e la sua riflessione porta me a farne una riguardo alla definizione stessa di citazione. Essa assume infatti valore quando ciò che viene ripreso dal modello precedente non è semplicemente un richiamo letterale, ma ottiene un nuovo significato, più ricco, dato dall’autore della citazione tramite le connessioni testuali sorte nel suo pensiero, tra il momento di lettura del modello precedente e il momento di scrittura. Kid Yugi si dimostra un maestro nel far fruttare l’intertestualità, un concetto affine alla memoria letteraria su cui i filologi del XX secolo hanno riflettuto a lungo. Se l’intertestualità, secondo il critico letterario francese Roland Barthes (1915-1980), prevede che ogni testo (letterario e non) possa essere interpretato in molteplici modi da ogni singolo lettore capace di tessere con esso nuove relazioni testuali, anche allontanandosi dalle iniziali volontà dell’autore, allora possiamo capire come il rapper di Massafra sia un lettore particolarmente fertile, in grado di esemplificare, tramite i suoi testi, la teoria letteraria dello studioso francese (per info in più a riguardo: https://www.eroicafenice.com/salotto-culturale/il-dialogo-intertestuale-dalle-origini-ad-oggi/ ). Ma non solo testi, perché Kid Yugi guarda, ascolta, respira; film, musica, ma anche la vita stessa, sono elementi, frutto della sua esperienza individuale, che vanno ad impilarsi nel suo vasto bagaglio di conoscenze. Quando scrive, poi, riversa questo bagaglio sulla pagina, forgiando il suo stile impregnato di citazioni.

 

Per qualche altro esempio, basti guardare la copertina de I Nomi del Diavolo, dove il rapper si trova su un «un trono demoniaco circondato da fanatici che si dimenano per toccarlo e quasi soppiantarlo dallo status raggiunto, omaggio alla celebre opera di Michail Bulgakov (Il maestro e Margherita, ndr) che rimanda alla scena del ballo di Satana», come indicato sapientemente in questo articolo di rapteratura.it (“I Nomi Del Diavolo”: l’Apocalisse di Kid Yugi è in terra – Rapteratura). Oppure si ascolti “Lilith”, brano in cui Yugi, attraverso il riferimento alla religione mesopotamica, descrive la propria amante come il demone femminile associato alla tempesta, portatrice di sciagure e morte. O, ancora,“Paganini”, che già dal titolo rivela un richiamo al celebre violinista di epoca romantica Niccolò Paganini, noto anche per la leggenda di un misterioso patto con il diavolo allo scopo di ottenere, in cambio dell’anima, il talento musicale. In questo brano, prende forma la visione violenta e contemporaneamente erudita tipica della scrittura del rapper di Massafra, che si avvale persino, a fini autocelebrativi, di riconoscere la complessità dei propri testi («Il mio slang indecifrabile, sembra latinorum»). 

 

Sei dolore senza limiti, zoodiaci di lividi

La stanza degli spiriti, la danza delle Silfidi

L’affetto di Misery, le fiamme degli inferi

Il canto delle sirene nei tuoi occhi limpidi

(Kid Yugi – “Lilith”)

 

Dieci mitra in sincro, sembreranno il chorus

In un live al Forum, Yugi ultimo shōgun

Questa merda è il mio tesoro, lo difendo come Gollum

Pressione addosso, salvo la mia terra come Goku

Voglio comprarmi un Panzer, non voglio una Lotus

Terzo occhio è quello di Horus, Fat Man sull’Atomium

Questa non è trap, puoi definirla un Horcrux

Non ho mai preso il Valium, San Cosimo era opium

Il mio slang indecifrabile, sembra latinorum

Torno a casa su un nastro di Möbius, rap magnum opus

(Kid Yugi – “Paganini”)


Menzione speciale va fatta anche a “Ilva” (perlopiù, anche remix di un brano originale del cantautore tarantino Fido Guido), in cui il rapper mette mano a una denuncia sociale nei confronti dell’omonimo stabilimento delle acciaierie di Taranto, noto per i problemi di inquinamento – e non solo – provocati alla città pugliese e ai dintorni. 

 

Si vede da lontano una nuvola tossica

Una terra rossa e la mia gente che soffoca

Quaggiù la vita quanto costa? Voglio una risposta

Se tutto quello che ci uccide lo chiami risorsa

(Kid Yugi – “Ilva (Fume Scure rmx)” feat. Fido Guido)

 

Se dovessimo vedere l’insieme del sapere umano come il suolo di un qualsiasi ambiente naturale, potremmo considerare Kid Yugi come un individuo che getta semi sul terreno, facendo crescere in profondità delle radici tanto solide da tenere insieme ogni strato sedimentato sotto la superficie, e dando contemporaneamente luce a una nuova forma di vita. Sono gli alberi ben radicati, infatti, che impediscono a un versante in pendenza di non franare: così il rapper di Massafra lega gli strati di conoscenza accumulati nel suo patrimonio culturale, dando loro nuova linfa vitale nella forma musicale.

Per questo, forse mi viene da pensare che Kid Yugi non sia solo un grande scrittore, ma più che altro un formidabile raccoglitore – lettore o osservatore, poco cambia – in grado di conservare le lezioni dei propri modelli ed evolverle, attuando anche un’opera di divulgazione verso i propri ascoltatori. Lo ha fatto con il teatro a cielo aperto di The Globe e si è ripetuto magistralmente con I Nomi del Diavolo, un progetto che ha il sapore di una vera e propria monografia sulle sfaccettature del male quotidiano. Perché va tenuto bene in mente che Kid Yugi non ha usato i propri riferimenti per sfuggire alla realtà di tutti i giorni, ma li ha piuttosto sfruttati per raccontarla con ancora più consapevolezza. 



La cognizione del dolore

La cognizione del dolore di Carlo Emilio Gadda è forse uno dei grandi capolavori letterari del nostro Novecento, che racchiude in sé una forza entropica e aspramente autobiografica; così l’autore ci catapulta all’interno di una Milano fittizia, situata nell’America Latina, e racconta la storia di un Matricidio tentato e quasi sicuramente riuscito. Gadda, attraverso il suo protagonista, Gonzalo Pirobutirro, analizza profondamente il rapporto con la propria madre, ormai defunta. La stessa donna che per decenni, di ritorno dalla prima guerra mondiale, passata in gran parte come prigioniero in Germania, gli ripeterà che sarebbe dovuto morire lui al posto del fratello, deceduto in un incidente aereo per mano tedesca. Gadda conseguirà, sempre sotto volontà della donna, una laurea in ingegneria e sarà costretto ad abbandonare gli studi filosofici prima della discussione della propria tesi Meditazione Milanese, divenuta in seguito una vera e propria opera.

Iniziò a scrivere il suo romanzo subito dopo la morte della madre, nel 1936, e uscì edito da Einaudi solo qualche decennio più tardi, nel 1963.

La cognizione del dolore è un intreccio linguistico assai complesso e ricercato: sono presenti termini dialettali, latineggianti, spagnoli -avendo vissuto in Argentina- e colloquiali; tuttavia non mancano dei cambiamenti di registro assolutamente inaspettati, tendenti al lirismo poetico per cui Gadda sembra portato e a suo agio. Non a caso, forse, il romanzo si chiude con una poesia dedicata alla madre, scritta un paio di anni prima che lei morisse.

Tra le righe gaddiane si può percepire sempre una congiunzione tra la dimensione psicologica e fisica dei personaggi, soprattutto nella figura di Don Gonzalo, il quale tende sempre al profondo, all’abisso di Nietzsche. Purtroppo, però, la sua situazione viene continuamente banalizzata, come si evince dal dialogo con il medico all’inizio dell’opera, creando uno sfondo simile a quello dei Promessi sposi di Manzoni, dove il vincitore reale del romanzo è Don Abbondio, personaggio dotato di un intelletto medio.

Il titolo originale dell’opera, Matricidio, non rende giustizia alle pagine scritte dall’autore milanese, relegando il testo a una dimensione più criminosa; invece il fulcro del racconto è la cognizione del dolore di un figlio per la morte della propria madre. Nell’appendice troviamo un’intervista immaginaria tra l’autore e l’editore, il quale chiede venia a Gadda forse proprio per avergli fatto ricordare il dolore causato dalla perdita della figura materna, a lui così cara nonostante tutto.

CAMERA (Centro Italiano per la Fotografia)

Torino, 13 febbraio 2024

Non ero mai stata prima d’ora all’inaugurazione di una mostra. C’é una differenza tra visitare una esposizione, girare a zonzo tra le opere esposte, e invece avere la consapevolezza del perché e del come si è scelto di far vedere proprio quel soggetto lì, proprio in quel luogo.

È quello che mi è successo martedì 13 febbraio, quando mio papà mi ha invitata all’inaugurazione di tre mostre fotografiche alla Camera di Torino. All’inizio, non mento, non sapevo bene come comportarmi: sono una studentessa universitaria che ancora non sa cosa vuole fare nella sua vita e della sua vita, ma l’interesse e l’amore che provo nei confronti della cultura in generale bastava a motivare, almeno a me, il perché fossi lì. Anzi, forse proprio il fatto di non sapere su cosa concentrarmi, su quale strada prendere, ma essere aperta a tutte, ha giocato in mio favore.

Esco da lezione di Teatro educativo e sociale con qualche minuto di anticipo, e mi avvio verso la Camera che è vicinissima alla mia università. Fuori vedo giornalisti, chi con delle cartelline in mano, chi con le videocamere e microfoni, chi semplicemente senza niente se non sé stesso e un’aria tranquilla stampata in volto. Seguo mio papà dentro, e scrivo “1000Miglia” nello spazio indicato con “testata”, nel registrarmi all’entrata: mi fa stranissimo! Pensare di essere lì per poi scrivere, è una cosa che mi sembra così lontana dalla mia vita che ora è prevalentemente studio, mentre i lavoretti che ho svolto fino a questo momento sono sempre stati qualcosa di lontano dal mio percorso di studi: il Dams. Invece ora mi sembra di stare facendo qualcosa legato a quello che sto studiando: qualcosa che c’entra con il mio possibile futuro lavoro? Chissà…

“Divertiti”, mi dice Fabri (mio papà), e allora faccio proprio come mi sento. Giro con le mani incrociate dietro la schiena, come Socrate, (o almeno, come io mi immagino facesse Socrate), e inizio a osservare le fotografie di Michele Pellegrino, che è nato proprio a Cuneo, nel 1934, e che è inoltre presente lì in quel momento. Da subito ciò che vedo mi colpisce, perché le prime foto sono quelle di montagna, ritraggono le valli che frequento io d’estate soprattutto, ma anche in inverno. C’è il Lago di san Bernolfo, sopra i Bagni di Vinadio, ripreso in una luce calda e con un’atmosfera bloccata nel tempo. Osservare la bellezza di luoghi in cui sono stata, mi ha suscitato un sentimento di gratitudine e di orgoglio per la mia terra. Proseguo e vedo volti lontanissimi da quelli che per la maggior parte del tempo invece scorrono sullo schermo del mio telefono, sulle riviste di moda, sui giornali.

Gli scatti di Michele riportano l’indole di gente che non desidera apparire, che non sa nemmeno il perché dovrebbe mai lasciarsi fotografare, e che magari, infatti, nemmeno era del tutto d’accordo. Su quei volti sono segnate le fatiche di una vita vissuta nelle terre dure e sconfinate della montagna, in alto, lontani da tutto e da tutti. La fatica concreta di procurarsi il cibo giorno dopo giorno, di riscaldare la casa, di crescere i propri figli sani e forti. Niente a che vedere con i ritratti di oggi, dove vedo tanta voglia di apparire, tanta ansia di ricevere approvazione per avere degli occhi così ben truccati, dei corpi così tonici, perfetti, una pelle liscia e senza cicatrici.

Ciò che vedo mi riporta con la mente ad una realtà che sembra essere ormai lontana nel tempo, e nello spazio, ma non del tutto estinta; mi fa venire voglia di cercare quelle persone che ancora non sono state toccate dalla società di oggi, così piena di falsità e superficialità, quelle persone che ancora pensano un pensiero alla volta: prima mungo la mucca, poi faccio il formaggio, poi pianto i semi, poi accendo il fuoco. Mi affascina sapere che ancora esistano persone così. Proseguo e i miei occhi incontrano gli edifici austeri e isolati dei monasteri, e poi gli sguardi indecifrabili delle coppie in prossimità del matrimonio; chissà cosa passava nelle loro menti, quali erano i loro pensieri, se da lì a poche ore si sarebbero sentiti liberi e infinitamente felici oppure se sarebbe iniziata per loro una vita che non avrebbero mai desiderato.

Quando ascolto, durante la conferenza stampa, i racconti di Michele, tutto mi sembra ancora più vero e concreto. Racconta di come lui ha sempre cercato di cogliere la verità, che non necessariamente significa bellezza. Parla di quando era arrivato in Valle Stura “un americano”, come lo chiama lui, che aveva iniziato a fotografare la montagna, e se ne era innamorato. Le sue foto erano state esposte, premiate, all’interno di alcune mostre, e ogni anno il fotografo tornava a Cuneo, chiamato per documentare la bellezza dei paesaggi alpini. Michele afferma che quando vide le fotografie scattate dallo straniero, non riconobbe i luoghi che lui pure conosceva come le sue tasche, avendo passato la vita in quei posti (riporta l’esempio di Vinadio: “nella didascalia c’era scritto Vinadio, ma a me non pareva proprio per niente Vinadio!”).  Questo perché lui era sempre stato interessato a riportare la vita di chi ci viveva, in montagna, di chi sapeva cosa voleva dire avere a che fare ogni giorno con le fatiche e le sofferenze che un luogo così porta, mentre “l’americano”, aveva colto forse solo la bellezza superficiale della Valle, senza indagare a fondo cosa significasse davvero un filo d’erba, una roccia, una sorgente, per gli abitanti.

Bello come Michele abbia deciso di donare tutto il suo portfolio alla fondazione CRC nel 2017, così che “finalmente”, dice lui, “la gente ha potuto conoscere cosa stava succedendo davvero nelle valli cuneesi, che si stavano lentamente, ma inesorabilmente, spopolando”. Lo dice con orgoglio, con soddisfazione, ma non lascia trasparire il dolore che, sotto sotto, tutto questo gli provoca. E la collaborazione con Camera sicuramente riesce a realizzare la volontà più forte e urgente del fotografo, quella di raccontare tutto ciò che lui aveva ascoltato, visto, vissuto, nell’arco di una vita. E nel profondo io mi sento di ringraziare Michele, per la forza che ha avuto nell’intrufolarsi nelle case di chi non accetta altri, di chi non desidera farsi conoscere, di chi non può incontrare nessuno all’esterno della clausura. Per aver avuto il coraggio di portare avanti la passione, pensandola proprio come una priorità, senza fretta e aspettando il momento perfetto, oppure cogliendo proprio l’istante di uno sguardo, una lacrima, un pensiero che si fa fotografia.

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