16 Febbraio 2020 | Vorrei, quindi scrivo
Da bambina ero molto timida,non amavo espormi o parlare con persone che non conoscevo ma ho sempre amato l’idea di viaggiare ed esplorare posti nuovi. Un giorno, però, mi sono accorta che non mi bastava più solamente visitare dei luoghi e andare via. Avevo il bisogno di conoscere qualcosa di più significativo dei posti che visitavo: volevo vivere meno da straniera. Non avevo l’intenzione di limitarmi a una qualunque attrazione turistica considerata un cult ma che non è tutto della città. Desideravo quindi capire e parlare le lingue straniere per potermi orientare meglio in posti nuovi ed esplorarli a trecentosessanta gradi.
E’ stato così che ho iniziato a voler imparare nuove lingue per colmare la mia curiosità di comprendere il mondo. Molte volte la scuola non riesce a dare la giusta motivazione di imparare le lingue poiché ognuno di noi deve trovare il suo metodo e metterlo in atto. Io, per esempio, ho trovato il giusto approccio attraverso la recitazione. Considero l’imparare una nuova lingua come un esercizio di recitazione, perché bisogna calarsi il più possibile nella parte per avere dei risultati appaganti. E’ come se mi creassi una nuova anima con cui provo ad essere una lord inglese o una turista francese.
Trovando la chiave giusta per imparare tutto è più divertente e meno faticoso. Inoltre,oggi, grazie a Internet abbiamo la possibilità di esercitarci con delle app o trovare tantissimi video con cui possiamo imparare nuove parole o espressioni utili per parlare una lingua.
In aggiunta saper parlare una lingua diversa dalla nostra,oltre ad arricchirci il bagaglio culturale, ci può aiutare in ambito lavorativo poiché tutto ciò che ci circonda parla straniero. Soprattutto la lingua inglese oggi è diventata un requisito essenziale nel curriculum vitae. Conoscere le lingue, dunque, è una necessità per restare competitivi nel mondo del lavoro e dare una spinta alla nostra carriera.
Per di più saper parlare diverse lingue ci apre la strada a nuove amicizie in tutto il mondo. Ad esempio io ho la fortuna di avere delle amiche in Francia con cui posso parlare e condividere dei bei momenti.
Infine le lingue ci permettono di superare piccole “difficoltà” quotidiane come il riuscire a capire un film che è solo disponibile in una lingua straniera, che può essere gran motivo di orgoglio!
Articolo di Alice Taricco
12 Febbraio 2020 | Vorrei, quindi scrivo
Joker è stato sicuramente il film più chiacchierato dello scorso anno, un’opera che ha convinto critica e pubblico, diventando istantaneamente un cult. Il film è sicuramente innovativo per il genere cinecomics e si spera aprirà una nuova generazione di film supereroistici più maturi, ma rimane comunque una pellicola non priva di difetti. Dal punto di vista tecnico l’opera si presenta molto bene, a partire dalle musiche, tutte allegre, che creano un contrasto con le atmosfere del film. Le canzoni infatti rappresentano l’unico momento di evasione del film sia per gli spettatori, sia per lo stesso protagonista Arthur, il quale danza in scene diventate già iconiche.
La regia e le scenografie trasmettono una forte sensazione di oppressione: gli ambienti risultano claustrofobici, come la piccola casa di Arthur e le macchine, metro e ascensori in cui spesso troviamo i personaggi. Nelle scene all’aperto sono presenti molte persone e altri elementi che riempiono lo schermo in maniera soffocante, in senso buono però.
La punta di diamante dell’opera è sicuramente il suo protagonista, merito della meravigliosa interpretazione di Joaquin Phoenix.
I problemi del film sono nella narrazione: l’idea di base non è affatto innovativa, sono infatti tanti i film che trattano il tema dei disturbi mentali. Mi ha divertito pensare a un parallelismo tra Joker e Forrest Gump: se a Forrest va tutto bene e ci mostra il sogno americano in cui chiunque, anche una persona con dei problemi, può essere ciò che vuole, in Joker avviene il contrario. La sua malattia non è accettata né capita, il sogno americano è morto e a lui va tutto male. La prima ora e mezza del film ci mostra solo le sfighe del protagonista, aspetto che che se da un lato ci fa immedesimare ancora di più in lui, dall’altro risulta troppo lungo e prevedibile.
Nel film sono presenti dei colpi di scena che risultano essere privi di spessore [spoiler]: Phoenix è protagonista assoluto, tanto da divorare gli altri personaggi. La sua storia d’amore con Sophie è molto tiepida e il colpo di scena legato ad essa non coinvolge, perché il film non mostra praticamente nulla della ragazza: essendo troppo concentrato su Arthur, non permette allo spettatore di affezionarsi a Sophie.
Sorte simile spetta al colpo di scena su Thomas Wayne, padre di Bruce: in una rivelazione molto confusa, prima viene detto che Arthur è suo figlio, poi dicono che non lo è, poi lo è… Finisce per essere così poco chiaro da eliminare ogni pathos.
L‘omicidio della madre rappresenta per Arthur il punto di non ritorno e la nascita di Joker, ma risulta al tempo stesso incoerente, visto che il protagonista pretende comprensione per la sua malattia mentale ma risulta spietato con la sua stessa madre, anche lei affetta da problemi mentali, toccando a mio avviso il punto più basso del film.
L’unico elemento veramente sconvolgente è il finale del film, che ribalta totalmente la situazione e il significato del film: l’opera passa infatti dalla lotta di classe a qualcosa di molto più sottile e dalla dimensione più umana. A cominciare dall’invito in TV da Murray Franklin, interpretato da Robert De Niro (riferimento importante a Il ritorno del cavaliere oscuro, fumetto di Frank Miller). Il personaggio di De Niro rappresenta un’importante critica alla televisione che, come diceva Pasolini, riesce a elevare anche degli idioti, come appunto Murray, venerati dalle persone non per loro meriti ma per il semplice fatto di trovarsi in TV. L’omicidio di Murray da parte di Joker rappresenta l’uomo comune che si libera di questi falsi simboli di superiorità, ma allo stesso tempo Joker stesso diventa un simbolo, veicolando il suo messaggio tramite la televisione e riducendo il proprio gesto ad una mera sostituzione e non una liberazione. La rivoluzione violenta che si scatena, che ha come simbolo il Joker, viene infatti resa negativa e priva di senso con la scena della morte dei genitori di Bruce Wayne. Proprio a causa di questa perdita Bruce diventerà un “pazzo” che si veste da pipistrello, un nuovo Arthur, con chiari rimandi al fumetto The killing joke di Alan Moore. Molte dichiarazioni lasciavano intendere che non vi fosse nulla di fumettistico nel film, ma i riferimenti sono tanti e, soprattutto per quanto riguarda l’opera di Moore, molto influenti sul messaggio finale del film.
La pellicola si chiude con Arthur rinchiuso nell’Arkham Asylum, instillando nello spettatore il dubbio su ciò che ha visto: che sia stata tutta una sua fantasia? Ritengo che in parte sia vero, che Arthur abbia immaginato che i suoi gesti l’abbiano trasformato nel simbolo di una rivoluzione. Il regista, in maniera molto amara, ci dice che un uomo solo non può cambiare il mondo, anzi sarebbe sbagliato. Il finale diventa un inno alla follia in cui il manicomio rappresenta una prigione mentale, da cui Joker tenta in modo rocambolesco di fuggire. Un terzo atto che eleva sicuramente il film, non tanto da renderlo un capolavoro ma sicuramente un film da vedere.
30 Gennaio 2020 | Vorrei, quindi scrivo
Non sono mai stata un’appassionata di basket né una fan sfegatata di NBA. Anzi, ne capisco ben poco. Però sono cresciuta con mio fratello Lorenzo, che ha sempre giocato a pallacanestro e che al liceo si alzava alle 3 del mattino per guardare le partite in diretta con gli amici. Un grande classico il venerdì sera era Space Jam, con protagonisti Michael Jordan e i Looney Tunes. Ho anche avuto la fortuna di assistere a una partita dei Trail Blazers a Portland, scatenandogli grande invidia.
Ma questo non vuole essere un articolo sportivo, né tecnico, sarei poco credibile. Ciò che mi ha spinto a tentare di raccontare qualcosa sul basket è stata una conversazione con Lorenzo a proposito di Kobe Bryant, poco prima di scoprire della sua morte improvvisa. Stava commentando il record che King James ha aggiunto alla sua carriera realizzando 29 punti contro Philadelphia e sorpassando Kobe Bryant al 3° posto nella classifica dei migliori realizzatori all-time della storia NBA.
Abbiamo visto delle foto in cui i due campioni si abbracciano e il tweet di Bryant che si complimenta con l’amico, «Continuing to move the game forward @KingJames. Much respect my brother #33644», in cui “#33644” sono i punti che James ha realizzato per battere il record.
Non è comune a tutti saper gioire per i successi altrui, è un’eccezione. Ma Kobe, oltre ad essere un campione è sempre stato un grande uomo. La sua mentalità l’ha portato ad essere uno dei migliori: «La mentalità non riguarda un risultato da prefiggersi, quanto piuttosto il processo che conduce a quel risultato. È uno stile di vita. Penso che sia importante adottare questo metodo in ogni impresa». Mamba Mentality è il libro che ha scritto, in cui condivide con i lettori la sua idea: provare costantemente ad essere una versione migliore di se stessi. Il suo modo di essere, la sua energia, la sua umiltà sono fonti d’ispirazione per chiunque avesse a che fare con lui. Amato e rispettato da tutti, rivali compresi.
Lorenzo mi racconta di quest’uomo leggendario, dei successi sportivi, ma anche dell’Oscar vinto con un cortometraggio: una lettera d’addio alla pallacanestro, in cui ammette che il suo cuore e la sua mente possono continuare a reggere il peso del gioco, ma che il suo corpo sa che è giunto il momento di salutarsi. Lo sport è importante e chi lo pratica trova nella fatica fisica un amico, negli allenamenti una fonte di sfogo, nel team che lo circonda una seconda famiglia.
Kobe dice, rivolgendosi all’amato basket: «Volevo che tu lo sapessi, così che potremo assaporare meglio ogni momento che ci rimarrà da gustare assieme. Le cose belle e quelle meno belle. Ci siamo dati l’un l’altro tutto quello che avevamo». Per chiunque è difficile separarsi da un amico, un partner, una persona a cui abbiamo voluto bene. Non posso neanche immaginare cosa significhi dover dire addio ad un amico fedele come può essere uno sport praticato a tali livelli, compiendo sacrifici per una vita intera. Mi ha colpito scoprire che Kobe, personificazione dell’American dream, manteneva un profondo legame con l’Italia, dove ha vissuto da bambino. Innamorato di Reggio Calabria e Reggio Emilia, vi tornava spesso con famiglia e amici, parlava italiano e aveva chiamato le sue figlie con nomi italiani. Confessava di aver imparato la tattica di gioco in Italia.
Dopo poche ore da questa conversazione Kobe Bryant e sua figlia Gianna hanno avuto un incidente in elicottero e sono deceduti. Avevamo appena parlato di lui, visto il suo cortometraggio, le sue foto con le figlie, i video su YouTube. E poi, in un attimo, quella persona non c’era più. Lorenzo è rimasto in silenzio, scioccato. Il mondo intero si è commosso. Marco Belinelli ha dichiarato: «Non pensi mai che una cosa così possa accadere al tuo idolo. Pensi che sia immortale». Per i fans è stato come perdere un fratello, un amico con ideali sani, che condivideva valori genuini e trasmetteva amore e passione, verso lo sport, la famiglia e la vita.
«Life is short. Don’t miss opportunities to spend time with the people you love», ha detto Kobe Bryant in un’intervista. Esiste cosa più vera? In qualsiasi momento tutto potrebbe finire, la nostra realtà è precaria. Ed è questo il messaggio che vorrei condividere. Passiamo il tempo a preoccuparci di cose futili, ce la prendiamo con le persone senza provare a capirle, pensiamo tanto a noi stessi e ci dedichiamo poco agli altri. Episodi come questi bloccano tutto per un attimo e ci sbattono in faccia la cruda realtà.
Dovremmo cercare di vivere ogni giorno come se fosse l’ultimo, trovare un equilibrio che ci appartenga, circondarci di affetti a cui teniamo e che vogliano il meglio per noi. Dopo tutte queste riflessioni, non credo certo che diventerò un’appassionata di NBA, ma vorrei mettere in atto il consiglio prezioso del cestista.
Voglio emozionarmi in ogni momento e imparare a trovare la bellezza di ciò che mi circonda con l’energia e la passione di chi vuole vivere giorno per giorno fino in fondo.
9 Gennaio 2020 | Vorrei, quindi scrivo
Accantonata la spensieratezza delle feste è finalmente giunto il momento di parlare di qualcosa di serio, ossia un regista che, nonostante non sia stato molto prolifico (si contano infatti all’attivo solo quattro pellicole dirette da lui), ha saputo lasciare una grande impronta nel cinema horror moderno. Sto parlando di Pascal Laughier regista di Saint Ange, Martyrs (disponibile su Amazon prime video), I bambini di Cold Rock e La casa delle bambole.
La sua prima opera, Saint Ange, benché non sia molto conosciuta, mostra il talento del giovane regista, anche se la sua regia risulta ancora impersonale e derivativa del cinema di genere italiano di Fulci, Bava e Argento. Nel 2008 dirige Martyrs la pellicola che lo rese famoso a livello internazionale, che creò scandalo per la sua efferata violenza, tanto da essere inizialmente vietato ai minori di 18 anni in Francia – cosa che non accadeva da vent’anni – e, dopo un ricorso da parte dei produttori, venne ridotto a 16. Nonostante il film non sia adatto a tutti, riuscì comunque a conquistare critica e pubblico, tanto da aprirgli le porte di Hollywood dove girerà la sua opera più commerciale: I bambini di Cold Rock. La pellicola però è un flop di pubblico e critica: questo porterà Laughier a tornare al cinema indipendente con La casa delle bambole, film che conquista pubblico e critica anche se non raggiunge i fasti di Martyrs.
Le opere di Pascal Laughier sono immediatamente riconoscibili grazie ai suoi stilemi narrativi che le accomunano tra cui i più famosi sono: le protagoniste femminili – per la loro maggior sensibilità -; l’home invasion, decostruendo la casa come luogo sicuro, e i colpi di scena che ribaltano totalmente la prospettiva dei film. Infine, il più importante a mio avviso, la distruzione del concetto di famiglia.
In Saint Ange, la gravidanza della protagonista è frutto di uno stupro; in Martyrs la famiglia all’apparenza normale viene massacrata; ne I bambini di Cold Rock i pargoli vengono strappati alle loro famiglie dall’Uomo Alto e infine in La casa delle bambole l’omicidio della madre delle protagoniste.
Laughier riesce così a distruggere tutte le sicurezze dello spettatore: casa e famiglia non sono più sinonimi di sicurezza e i colpi di scena rendono imprevedibili gli sviluppi della trama, confondendoci come le protagoniste dei film. Quando niente è più sicuro tutto diventa pericolo ed è allora che è possibile notare il fil rouge delle opere di Laughier ossia la sofferenza.
Un dolore analizzato in ogni film con un occhio diverso: in Saint Ange si affronta il calvario della malattia, che sia essa mentale o fisica, ma anche gli echi delle atrocità passate: nel film i rimandi ai nazisti e ai bambini morti dell’orfanotrofio, che gridano allo spettatore come voci nella testa di un malato, che vorremmo ignorare ma non possiamo perché parte di noi.
In Martys, l’opera più intensa di Laughier, l’accettazione del dolore: la protagonista è privata di tutto ciò che la rende una persona e tutto è sostituito dal dolore; una volta che la protagonista avrà accettato la sofferenza di lei non rimarrà nulla, tanto che verrà privata anche della sua pelle, unico suo residuo di umanità, e potrà così trascendere.
Con questo film, Laughier vuole far accettare allo spettatore il fatto che tutto ci possa venir sottratto in un attimo, donandoci la consapevolezza di essere soltanto dei sacchi di carne.
Ne I bambini di Cold rock, il dolore derivato dal proprio luogo di nascita e dalla condizione sociale, in un paese dove i bambini non hanno speranze per il futuro, compare l’Uomo Alto, un essere che rapisce bambini per chissà quali scopi, un mostro delle favole, ma questa creatura altro non è che un uomo normale che li consegna a famiglie che possano garantire loro una vita migliore, dimostrando come i mostri non esistono o, meglio, di come i veri mostri non esistano ma ciò che fa veramente paura è il domani (emblematica la scena finale con due dei bambini rapiti che si incontrano per caso con le loro rispettive nuove famiglie e si ignorano come a esorcizzare un passato che si sono lasciati alle spalle).
Ne La casa delle bambole per trovare sollievo nelle proprie fantasie per sfuggire al dolore della realtà o, per meglio dire, del diventare adulti, la giovane protagonista fugge dai suoi problemi in una realtà ideale, entrando in uno stato comatoso, diventando di fatto una bambola, con fattezze umane ma priva di volontà, finché non ritorna in contatto con la realtà e lotta per la propria vita. Passa così dall’essere una bambina, priva di volontà e fragile come una bambola, fino a diventare una donna, rinascendo nel sangue come annunciato dal primo sangue mestruale a inizio film. Una parabola della crescita in cui non tutto andrà come sperato ma bisognerà lottare perché il dolore è parte della vita di ogni adulto e bisogna affrontarlo. Ovviamente queste sono semplificazioni del dolore esistenziale descritto nei film di Laughier. Spero, almeno, che questo breve approfondimento vi spinga a scoprire o riscoprire le strazianti opere di Pascal Laughier.
6 Gennaio 2020 | Vorrei, quindi scrivo
Sa di tempesta questa tua sera:
ha il sapore di nuvole bionde
violente, grano danzante;
ha il colore di nebbie iridate
inquiete, monti morenti.
Col silenzio d’un lampo d’affetto
la mia notte la sveli nascosta
fra i tuoni di pioggia, brutte virtù:
paura d’un Tutto ululante.
Dalla nostra bufera sgorgata,
l’edera dalla mia terra stuprata
cresce e ti strappa il tuo sole
e sarà poi dei fiori di spine.
Non guardar le sinuose Gorgoni,
ma la serpe che abbraccia il tuo tronco!
Ché una bestia non sa più di amore
se il buio morde mente e parole:
scappa Edith, non tornare mai più.
Seduto al tramonto del mondo, carezzo
Maestrale che estingue il mio fuoco,
e vivo l’eterno ricordo dell’Odio:
è un altro
novembre
d’estate.
PL
13 Dicembre 2019 | Vorrei, quindi scrivo
Fin da quando siamo piccoli ascoltiamo ciò che succede attorno a noi. Per essere più precisi, l’apparato uditivo inizia a formarsi alla nostra ventesima settimana, quando ancora siamo nella pancia della mamma. I suoni che percepiamo stanno al di là del nostro guscio protettivo ed è così che cominciamo a conoscere il mondo esterno, ancora prima di vederlo. Tramite l’udito ci creiamo i ricordi, riconosciamo le persone e, facendoci attenzione, anche i luoghi. Infatti ogni posto ha un suono diverso, ogni città, ogni stanza della nostra casa. Il silenzio non esiste, neanche quando pensiamo di starlo ad ascoltare. Però attenzione, sentire e ascoltare sono due cose completamente diverse. Sentendo captiamo i rumori, ascoltando li assimiliamo, li memorizziamo e li comprendiamo.
Questo è ciò che mi ha raccontato Chiara Luzzana al MARKETERs Festival a Vicenza, durante un sabato mattina uggioso di novembre. Chiara ha sempre amato il rumore, il suono. Da piccola suonava la chitarra, il pianoforte e per poco non ha cominciato a frequentare anche lezioni di batteria. Crescendo ha capito che poteva fare di questa passione il suo lavoro. Oggi Chiara è una compositrice, sound designer e artista sonora, registra i suoni della vita di tutti i giorni e traduce la realtà in musica. Da più di 10 anni partecipa a progetti, sperimenta e costruisce microfoni e strumenti per l’ascolto degli oggetti quotidiani. «Quando lavoro con i suoni sono un’esploratrice, li devo scoprire nei lati più nascosti. Mi piace dare voce a ciò che è nato senza».
Il suo primo grande progetto è stato realizzato per la mostra Swatch Faces 2015. La sua idea è stata geniale e del tutto innovativa. Come ha detto lei, si è rinchiusa in una sorte di bunker in Germania e si è fatta dare tanti e diversi modelli di orologi Swatch. Ha rivelato che ognuno di essi produceva un suono diverso, generati dallo scatto della lancetta, dalla vibrazione del vetro, dal rumore della chiusura e apertura del cinghietto. Grazie a dei microfoni appositamente costruiti e al suo udito impeccabile, Chiara ha creato la colonna sonora per la pubblicità della Swatch, realizzata esclusivamente con i suoni degli orologi. Un esperimento del tutto nuovo, unico e inimitabile.
Il capolavoro di Chiara è però stato, senza dubbio, The sound of city. Nel 2014, l’artista ha iniziato a viaggiare in giro per il mondo, visitando le sue caotiche metropoli. Ha ascoltato ciò che la circondava, è andata alla ricerca dei luoghi più nascosti e intimi, ma ha anche esplorato i più comuni. Per Chiara le città sono una fonte preziosa di riflessione. Ogni rumore casuale diventa musica. Ha confessato che per riuscire a camminare a caso per la città per 24 ore e stare attenta a ciò che la circonda, deve imporsi alcune regole, perché altrimenti rischia di essere troppo vaga. Deve prepararsi fisicamente e mentalmente, perché, aldilà degli aspetti piacevoli della musica, questo progetto è faticoso sotto molti aspetti. Però di base c’è un principio che per lei è inalienabile, ed è che per raggiungere il piacere, occorre fare fatica. Per lei il suono è anche fatica: «La registrazione perfetta è fatica».
La prima città ad essere registrata è stata Shanghai, ora la sua colonna sonora si può trovare su Youtube, il suo primo ascolto da parte del pubblico è stato ad ottobre 2016 alla Biennale di Shanghai e al TEDx. Ha poi anche esplorato Milano, New York, Zurigo, Tokyo, Venezia.
«Ho ideato e creato il progetto mondiale The sound of city per indagare nell’intimo sonoro di ogni “giungla di cemento”. Ogni luogo ha qualcosa da raccontare ed un’anima da mostrare; io trasformo in musica quei suoni, quelle frequenze armoniche e quei rumori, che nella vita quotidiana passano inosservati. Ed è così che un semaforo diventa un sintetizzatore, un clacson, un sassofono, tombini drum machines e vociare orchestre d’archi».
Chiara mi ha trasmesso un’enorme voglia di esplorare, di girovagare per i luoghi remoti del mondo. Di arrivare su un’isola deserta, in cima ad una montagna o un grattacielo, rimanere zitta e provare ad ascoltare. Trovare il ritmo, la melodia e la connessione con ciò che realmente mi circonda.