Felicità

La felicità non è qualcosa che decidi.

Non è un paio di calze che compri in saldo.

Non è il bicchiere di vino che ti versi il venerdì sera.

E non sei nemmeno tu, che giochi nella mia vita come fosse Scarabeo: parole che s’incastrano e s’illudono di essere vere ma sono in una lingua che nemmeno riesco a leggere.

Felicita è un nome femminile ma di femminile non ha proprio niente: non ha la sinuosità di un paio di gambe che avanzavano, non ha la luce di un paio di occhi che vedono per la prima volta un tramonto dopo giorni di pioggia, non è leggera come una chioma liscia che nasconde un volto timido. La felicità non è donna.

La felicità non sono io che cerco di muovermi in questa vita.

La felicità sono io che mi fermo, in silenzio e mi guardo allo specchio. Me la disegno io, segno i contorni di un corpo che mai mi è appartenuto, magari colorato d’ambra, d’argento, con lunghe forme che sembrano sfiorare il cielo e fanno invidia ai bianchi peschi che nel tardo mese di giugno fioriscono.

Ah, che bella la felicità: è la Venere di Botticelli bruna, è la Dafne di un Bernini senza tempo, è la femmina che mai potrò essere.

La felicità non esiste.

O meglio, è un rigido orologio svizzero. Ti concede circa trenta secondi di idillio per poi lasciarti in balia del vuoto, in cui ti rompi nello specchio sul quale avevi disegnato.

Mezzanotte, non hai più tempo. Lo specchio si rivela l’amara realtà che non hai mai voluto vedere, che hai sempre sfiorato senza mai vivere, è l’insicurezza che hai voluto toglierti di dosso ma che ti pulsa in cuore, che non puoi abbandonare. La vedi la luce sullo sfondo?

Un sogno che si allontana. Sei tu che non mi hai ascoltato, che non hai voluto prendermi per mano e dirmi: «la felicità non esiste ma esisti tu con una matita in mano che fai delle tue sporgenze quel che vuoi, che fai di me che ti guardo uno spettatore silenzioso nella Galleria degli Uffizi, che mi porti a vedere una stella cadente che racchiude la vita che tieni nel cassetto sinistro vicino al letto».

Che favola immacolata, che lieto fine tanto aspettato.

Ma sono frantumi. Solo cocci sparsi su un pavimento di carta.

Tu non ci sei, non ci sei mai stato, hai suonato alla porta di casa mia e una volata di vento ti ha portato via, un’onda del mare in inverno mi ha fatto credere che pronunciassi il mio nome ma era solo una goccia in un mare in tempesta.

Un giorno mi domandai se le anime si possano scegliere: mi piacerebbe andare al mercato e comprarne una estremamente attenta, loquace, non diffidente delle idee che mi possano nascere da un sorriso, che mi guardi con quell’aria spaventata che Dorian aveva quando guardava il suo dipinto, così terrorizzata e affascinata. Ecco, quanto vorrei un’anima che mi guardi così, che abbia una paura tale da divenire folle nel guardarmi, da dirmi «non c’è volta in cui ti guarderei e insieme smetterei di guardare, mi fai tremare per l’orrore della profondità dei tuoi occhi: dentro ci ho visto le verità che non mi sono mai detto».

Un occhio che nasconde un segreto.

Ma quanta voglia hai tu di guardarmi? Nessuna.

La felicità non si decide. È un rigido orologio svizzero. Ti concede trenta secondi e poi… ti accorgi che le lancette non ci sono, che i numeri sono infiniti ed il meccanismo sei tu: ingranaggio di qualcosa che non c’è e che ti sei illuso ti potesse dar sollievo dalla consapevolezza a cui non c’è riparo per solitudine di un uomo. Uomo che contempla un susseguirsi di stagioni, aspettando la brezza di un’estate che sembra profumare di felicità ma è solo l’ennesimo gelido inverno che non lascia altro che una lacrima ghiacciata sul viso.

Ricordatelo: la felicità non esiste.

La prossima volta che devi prendere una decisione: nasci e muori sola e mai nessuno verrà a trovare la bellezza che racchiudi dietro quella lacrima ghiacciata.

 

Ma a volte sono solo balle. La felicità non esiste perché ce la costruiamo noi. Pennello in mano ed egoismo nell’altra, prendiamo un ricordo piatto e lo distruggiamo, lo modelliamo, lo facciamo girare a ritmo di musica. Azzeriamo l’odio, l’insofferenza, la malinconia, tutti i “avrei potuto” e ci fermiamo.

Un secondo, in silenzio.

Guardiamoci negli occhi e nelle mani, guardiamo di nuovo per ricordarci che non va sempre tutto male, che non è una vita di merda la nostra, che non solo perché perdiamo per un attimo il volante della nostra strada allora tutto andrà in catafascio. Che anche se dentro abbiamo qualche fiore del male, possiamo comunque andare in un campo di margherite, che anche se non riusciamo più a parlare, possiamo comunque ascoltare la musica e stare in silenzio, che anche se non riusciamo più ad abbracciare non vuol dire che qualcuno non ci guardi le spalle.

Ricordiamocelo a vicenda, che magari qualche volta si perde di vista ma abbiamo ancora l’arte per salvarci dai nostri pensieri. 

Siamo felici, soprattutto adesso, soprattutto quando magari pensiamo di essere i soli a soffrire. L’arte non rimane perennemente la stessa, non esistono quadri riprodotti in serie: la felicità è il museo di quadri in cui ci muoviamo, non l’album di foto tutte uguali che guardiamo a lume di candela. Godiamoci le sfumature della nostra crescita, dei nostri sbagli, dei nostri segreti. Siamo tutti felicità ma dobbiamo avere il coraggio di provarla, perché a volte è molto più facile chiudersi nel dolore e nel silenzio e far finta che un quadro valga l’altro, che un profumo sia insipido e che uno sguardo sia vuoto.

Ricordiamocelo, che siamo artisti. Che a disegnare possiamo prenderla tutti la sufficienza. Magari anche con la lode.

 

[Ho voluto accodare ad un pezzo scritto tempo fa una continuazione, per ricordare anche a me stessa come basti togliersi dagli occhi cosa faccia male, per capire che non serva molto per trovare la propria arte. Non c’è nulla di più bello che stare nel proprio museo].

 Testo a cura di cecilia Capelli. 

Mr. Alzheimer

Quando le chiedevi «come stai?» lei ti rispondeva sempre «un po’ così un po’ cosà», era un animo impenetrabile con una risata contagiosa e l’amore per la musica che l’ha da sempre contraddistinta. Amava tutti senza fine, era fragile e aveva tante paure ma era sempre pronta a far di tutto pur di non far soffrire qualcuno. Un’amica fedele con cui condividere i segreti più intimi, una donna che non sapeva amarsi abbastanza perché pensava sempre prima al bene degli altri, l’essere umano più dolce e generoso della Terra. Cuoca infallibile da cui tutti imparavano nuove ricette ma nessuno è mai riuscito a raggiungere il livello dei suoi piatti, era come se ci fosse sempre un tocco magico in più.
Oggi se le chiedi se va tutto bene cade il silenzio, non lo sa neanche lei, si guarda intorno in cerca di una risposta e qualche volta riesce a dire un debole sì. Se accendi lo stereo e c’è la sua musica preferita, inizia a canticchiare sottovoce delle parole e quel momento vorresti che non finisse mai. Non si può tornare indietro a quelle conversazioni così preziose e profonde che conservo nel cuore come un ricordo indelebile. Ormai non c’è più niente di lei, la sua anima è volata via. Il signor Alzheimer se l’è portata via quando più ne avevo bisogno. Ora ci sono solo il suo corpo, la sua presenza e il silenzio. Un silenzio assordante che la ingabbia nei suoi pensieri e lascia solo tanta rabbia intorno. È un processo lento che non sai quando o come finirà ma sai che non c’è modo per arrivare ad un lieto fine. Puoi rallentare il processo con delle medicine che però per il signor Alzheimer non sono altro che caramelle gommose.
Piano piano tutti quei piccoli gesti quotidiani che si considerano normali e facili diventano un’impresa. Bisogna essere forti a starle vicino, avere pazienza e soprattutto tanto amore. Là dentro in quel silenzio assordante deve essere una galera: poter sentire tutto ma non poter dire niente, capire tutto ma non riuscire a rispondere. Deve essere come stare in una bolla, senti tutto molto lontano, attutito e non ci sei mai veramente. Confusione, incertezza e smarrimento si percepiscono incrociando il suo sguardo. L’unica cosa che il signor Alzheimer le ha lasciato è il sorriso, ogni tanto sfoggia ancora la sua dentatura splendente. 
Forse non le ho mai detto abbastanza quanto sia incredibilmente importante per me: grazie per essermi stata accanto e avermi amato così tanto. Ora è il mio turno, mi prenderò cura di te.

Se anche a voi Mr. Alzheimer ha rubato una persona cara, non siete soli, armatevi di tanto coraggio e dategli una bella lezione. Buona fortuna!

Alice Taricco

Entro e fuori

Arriva sempre una fine. Presto, tardi, lontano o indissolubilmente vicino, arriva sempre un punto di non ritorno. Quel traguardo invalicabile che abbraccia la linea di orizzonte e resta lì, come se non dovesse mai venire nella nostra direzione, come se dovesse sempre esser altro, intoccabile. Eppure prima o poi anche noi lo oltrepassiamo. Capisci che la fine stia arrivando quando i secondi si fanno numeri e non solo più attimi. Quando il respiro della gente intorno a te diventa vapore e non solo più parole non dette. Quando stringendo un paio di mani, senti i calli e le rughe e non solo più le paure e le speranze. Capisci che stia arrivando una fine quando, in silenzio, stai seduto a guardare fuori dalla finestra, e non fai nemmeno lo sforzo di romperla e andare oltre. 

Abbiamo tutti paura della fine: temiamo che venga tagliato il filo di certe nostre esistenze perché c’è l’oblio di mezzo, il non sapere, l’essere lontani da ciò che conosciamo e da ciò in cui stiamo più comodi. Abbiamo paura della fine, qualsiasi essa sia, perché indubbiamente diventeremo altro. 

Ma ci avete mai pensato a cosa significhi “diventare altro”? A cosa voglia dire effettivamente “cambiare”? Siamo talmente terrorizzati da queste parole che non ne comprendiamo il reale senso. Siamo tutti talmente tanto avvolti dalle stesse coperte, dalle stesse camicie, indossiamo le stesse collane, gli stessi orecchini, teniamo sempre il portafoglio nella tasca destra dei pantaloni e la borsa alla spalla sinistra, beviamo il caffè nella stessa identica tazza la mattina, quando ci trucchiamo mettiamo sempre la stessa canzone in sottofondo. Sempre lo stesso. Rimaniamo sempre gli stessi. E questo perché evadiamo la fine, la allontaniamo, la releghiamo ai margini dei nostri corpi, e così viviamo entro esistenze apparentemente infinte, in dei tunnel in cui non si vede l’uscita: inerti, senza forza, senza speranza, ci dimentichiamo di cosa realmente siamo. 

Umani. Carne e sangue. Sentimenti e desideri. Vita e movimento. Cambiamento. Ed è proprio la finitudine a renderci così assurdi e incomprensibili. È proprio entro i nostri limiti che comprendiamo quale universo portiamo negli occhi, che capiamo cosa voglia dire aver teso così tanto a qualcosa da averla attraversata, da averla sublimata e fatta diventare parte di noi. I fini, i punti di non ritorno, noi li assorbiamo fino alle ossa, e li comprendiamo come i riassunti, le note a piè pagina delle esperienze che viviamo. 

Bisogna fermarsi, in tutti i sensi, e guardare le linee che ci si stagliano davanti: guardare i piedi e capire cosa ci abbia spinto fino a lì, perché abbiamo scelto certe strade, o semplicemente perché ci siamo finiti bloccati dentro, perché ci è parso così tanto impossibile uscirne, perché abbiamo gioito così tanto, perché abbiamo provato certe emozioni e soprattutto cosa ci siamo buttati nelle vene di tutto ciò. Bisogna guardarli i fini. Bisogna renderli importanti, bisogna dire “non vedevo l’ora che arrivasse”. Siamo altro oltre i nostri limiti, siamo qualcosa di totalmente sconosciuto, e questa penso sia la più grande sorpresa della vita: sapere che saremo eternamente inesauribili, che anche nei momenti in cui diremmo “una fine non ci sarà mai”, la disegneremo noi e ci diremo “da adesso è tutto diverso, è tutto nuovo, per un’altra volta posso tirare fuori l’ennesima canzone da suonare.”

C’è un’eterna bellezza nei limiti, a questo credo profondamente. È la stessa bellezza di finire un libro, di arrivare all’ultima riga e avere solo la voglia di scoprire come andrà a finire, ma una volta finito, rimarremo in silenzio, legheremo le pagine alle dita, e metteremo il libro sullo scaffale. Ma questo non ci impedirà di tirarne giù un altro dalla libreria, magari un giallo, magari un racconto di fantascienza, e magari lo inizieremo con entusiasmo e voglia, o con noia, magari ne proveremo mille, di libri,  dopo quello letto perché non troveremo alcuna storia che valga la pena leggere, ma prima o poi arriverà: arriverà una storia che leggeremo con occhio universale, azzurro come il cielo e marrone come la nostra terra, nella lettere nere scopriremo ogni nuova cellula rigenerata di un “noi” che non conosciamo, e rimarremo su quel libro, su quella vita, magari un anno, così come un secondo.

E pensateci, se non fosse stato per un fine, per un libro portato a termine, non avremmo mai trovato la voglia per trovare una nuova dimensione, un nuovo racconto, una nuova persona. E piu tendiamo ai fini, più liberiamo altro, più liberiamo essenza, più liberiamo noi. Possiamo deciderli i nostri diluvi universali, alcune piogge lavano via i corpi, e serve coraggio per sciacquarsi il volto e trovarne uno nuovo.

Ho iniziato ad apprezzare il fatto che siamo finiti quest’anno soprattutto, in questa prigione di dieci mesi lontani gli uni dagli altri, lontano dai nostri desideri, lontano dagli abbracci, lontano dai baci, lontano dalle bocche, dai sorrisi, dai denti bianchi. Siamo stati lontani da noi. Abbiamo salutato gli sguardi incrociati nelle strade, i bicchieri alzati e i cuori leggeri, abbiamo allontanato la gente che ci cercava, abbiamo quasi dimenticato  i nostri sentimenti, quello che realmente proviamo. Abbiamo conservato ogni sensazione, ogni desiderio, ogni volontà per la nostra vita dentro di noi, li abbiamo ibernati per non rischiare che una pandemia globale ci prendesse anche quello. Abbiamo elevato ciò che provavano all’infinito. 

Ma è arrivato il momento di mettere fine anche a questo: abbiamo bisogno di far uscire tutto, di liberarci, di urlarci quanto ci siamo mancati, quanto ci sia mancato camminare senza la pesantezza della paura, di quanto vogliamo andare a visitare una città e perderci in posti lontani per sempre, di quanto desideriamo semplicemente una birra in spiaggia in estate o la nostra canzone preferita suonata a massimo volume e cantata in un coro abbracciato.

Abbiamo bisogno di mettere fine al silenzio di ciò che proviamo, del nostro dolore, delle nostre mancanze: bisogna valicare questa linea bianca che ci separa da una nuova vita e ristabilire la nostra rinascita. Ecco, abbiamo bisogno di rinascere. Di essere altro, lontano da quello che siamo stati adesso. 

Auguro a ognuno di noi,  noi vittime di questa commedia tremenda, a tutti coloro che stanno dipingendo un quadro che non vedono l’ora di finire, di trovare persone che siano i nostri limiti, che siano essi stessi punti di frontiera (e non che siano loro a pormeli): sono quelle anime che ci mettono sempre in discussione, che ci fanno sempre essere altro, che ci dicono che non basta essere felici, ma che dobbiamo anche essere tristi, se non siamo abituati ad esserlo, che dobbiamo provare a vestirci di blu anche se ci vestiamo sempre di nero, che ci dicono di provare a disegnare a carboncino o ascoltare R&B anche se non l’avete mai fatto. Trovate persone che siano un limite che supererete anche mille e una volta, e che alla milleduesima volta vi facciano trovare un nuovo accordo di voi stessi. Trovate persone che mettano punti alle vostre “i”, ma che non vi preferiscano se scritte in corsivo o in stampatello. Trovate persone i cui “va bene così” vi facciano rispondere “sicuro?”, le cui parole (finite) siano la chiave per schiudere desideri e sogni. Trovate persone che quando smetteranno di tenervi la mano, saranno semplicemente sul bagnasciuga ad aspettarvi, ad aspettarvi ancora, a valicare ancora un altro limite. E lì, non dovrete fare altro che tuffarvi nelle scure acque di un mare nuovo, freddo, che vi farà nuotare fino a che non sarete esausti, ma che vi irrorerà vita nelle vene, e desiderio negli occhi. 

L’infinitesima promessa dell’attimo. 

Trovate persone così, sempre.

E soprattutto adesso, che i secondi cominciano letteralmente a diventare numeri sempre più desiderati, fatevi una promessa: ponetevi dei fini. Ricercate limiti e siatene assettati. Cercate le righe che vi possano schiudere, liberare, cambiare, e non abituatevi all’”ora e sempre”.  Sono mesi che siamo bloccati entro porte chiuse che ci hanno imbruttito, incattivito, e proprio adesso dobbiamo liberarci dei nostri mali. Diciamo “basta”, e ripartiamo.

Ripartiamo da zero. 

Non so voi, ma voglio essere nuova. Voglio essere sconosciuta. 

Articolo di Cecilia Capello

Invisible women

Invisibili. Come il nostro mondo ignora le donne in ogni campo. Dati alla mano. Questo è il titolo del libro di Caroline Criado Perez, attivista e scrittrice britannica. 

Un libro rivoluzionario e rivelatore che mostra come la popolazione femminile venga sistematicamente ignorata. Questo saggio ci fa capire come il mondo sia fatto su un modello maschile che ostacola da sempre le donne in molti modi. Grazie ad un’impressionante raccolta di dati e documenti, l’autrice ci fa comprendere la differenza di trattamento che la società moderna riserva alle donne. Il saggio è diviso in diverse sezioni, tutte dedicate ad argomenti differenti e in ogni capitolo viene preso in esame come il gender data gap, cioè il vuoto di dati di genere, influisce sulla vita delle donne. Ci si interroga proprio sulla sconvolgente assenza di dati disponibili sulle abitudini e i bisogni femminili. L’esperienza maschile è considerata standard mentre quella femminile è un qualcosa di nicchia. Come nel caso degli smartphone, progettati in base alla misura delle mani degli uomini. Lo smartphone medio, pertanto, risulta grande per essere usato comodamente con una sola mano da una donna. Oppure, c’è il fatto che le donne corrono un rischio maggiore rispetto agli uomini di morire o essere gravemente ferite in seguito ad un incidente stradale. Questo perché da decenni i test sulla sicurezza stradale sono svolti solo con manichini maschili. I sistemi di sicurezza dell’auto non proteggono quindi le donne come fanno con gli uomini. 

Questo libro spazia in modo ben documentato in ogni ambito: dalla vita lavorativa alla vita privata, dalla ricerca medica all’intelligenza artificiale. In campo medico, ad esempio, viene citata la sindrome di Yentl, ovvero la tendenza a sottovalutare il dolore femminile, sbagliare o ritardare la diagnosi sulle donne rispetto che sugli uomini. Questo perché si studiano maggiormente i sintomi, le diagnosi e le cure sui soggetti maschili. Ciò spiega perché a volte i medici non sono in grado di diagnosticare in tempo un infarto in una donna. La diagnosi errata di questo tipo di malattia è una delle principali cause di morte in Europa.

Dunque i corpi maschili non possono essere considerati come un esempio universale di corpo umano, le donne non presentano le stesse manifestazioni degli uomini.

Ma vi siete mai chiesti perché nei bagni delle donne ci siano code lunghissime e in quelli dei maschi no? L’autrice ci fa capire che ci sono grandi differenze tra uomini e donne anche in questa situazione, che vediamo quotidianamente.

Attraverso questa lettura riusciamo quindi a inquadrare perfettamente l’attuale realtà della donna, il suo essere invisibile. Per rendere la donna meno invisibile basta prenderla in considerazione, chiedere la sua opinione e lasciarla libera di esprimere il proprio talento. Capiamo quanto è radicata la mentalità “uomocentrica” e quanto bisogna ancora lottare per raggiungere la parità. La discriminazione di genere non è un’invenzione, non è un capriccio. È una realtà evidente e riscontrabile. L’informazione e la riflessione su questi temi ci rende capaci di cambiare le cose. È il primo passo verso un futuro di inclusione per combattere il divario di genere.

Alice Taricco 

L’ispirazione di Kamala Harris

Kamala Harris è la nuova vicepresidente degli Stati Uniti, nonché la prima donna a ricoprire tale carica. Quando Joe Biden l’ha scelta come candidata alla vicepresidenza i servizi segreti le hanno assegnato il nome in codice “Pioneer” che, finora, ha rispecchiato perfettamente la sua identità e il suo modo di agire.

Nel corso della sua vita Kamala Harris si è sempre distinta dalla massa, infrangendo barriere e rompendo convenzioni sociali, lo dimostra il fatto che sia stata la prima procuratrice distrettuale a San Francisco, la prima procuratrice generale della California, la prima donna di origini indiane a essere eletta in senato e ora la prima donna vicepresidente degli Stati Uniti. In un’intervista al Washington Post ha dichiarato che uno dei problemi più grossi che ha affrontato quando si è candidata la prima volta è stato proprio quello del venir “etichettata”: “Ti chiedono di definire te stessa in modo da rientrare in una categoria che altre persone hanno creato, ma io sono quello che sono. Forse gli altri hanno bisogno di inquadrarmi, ma a me va bene così”.

La determinazione a emergere e il rifiuto di farsi limitare dalle aspettative della società sono dei valori che Kamala ha ereditato dalla madre, Shymala Gopalan, di origini indiane. Durante le interviste e nel corso della campagna elettorale la vicepresidente ha richiamato più volte la figura della madre, una fonte d’ispirazione che negli anni ha anche condizionato il suo atteggiamento politico.

Prima ancora che Kamala nascesse, Gopalan stava già abbattendo numerose frontiere. Dopo essersi laureata in scienze domestiche In India decise di far domanda per un dottorato a Berkeley in nutrizione ed endocrinologia e, dopo l’approvazione dei genitori, partì. Gopalan arrivò negli Stati Uniti in anni in cui le leggi sull’immigrazione erano molto severe e a solamente cento indiani all’anno veniva concesso l’ingresso nella nazione. All’epoca la comunità indiana conviveva con un notevole razzismo, Gopalan era una dei dodicimila indiani arrivati in America, di cui la maggior parte erano uomini. Partire oltreoceano, iniziare un dottorato in un paese sconosciuto ed entrare in contatto con una cultura completamente diversa da quella indiana fu prova di forte coraggio e gran determinazione, soprattutto in quegli anni fu una scelta molto progressista.

Non appena mise piede negli Stati Uniti Gopalan scese in piazza e partecipò a numerose proteste. Era sempre in prima fila per combattere le ingiustizie sociali, il razzismo, la guerra in Vietnam e l’imperialismo. Fu proprio grazie all’attivismo politico che conobbe Donald Harris, un dottorando di Berkeley di origini giamaicane. I due si sposarono pochi anni dopo e chiamarono la loro prima figlia Kamala, che significa “fior di loto” in sanscrito. 

Il rapporto tra Gopalan e Harris fu rivoluzionario, all’epoca era raro che una donna indiana si sottraesse alla tradizione del matrimonio combinato e, oltretutto, decidesse di sposare un nero. In india la discriminazione per il colore della pelle è ancora molto diffusa. Il matrimonio fu per Gopalan un atto di amore, ma anche una atto di ribellione verso le convenzioni sociali. 

Pochi anni dopo Harris e Gopalan divorziarono e questo, come accadde per il matrimonio, fu fonte di polemiche e scandalo. Kamala racconta che per la madre il divorzio fu una sconfitta: “Credo che per mia madre il divorzio abbia rappresentato un tipo di fallimento che non aveva preso in considerazione. Spiegare il matrimonio ai genitori era già stato difficile, spiegare il divorzio, immagino, fu ancora più difficile. Dubito che le abbiano detto ‘te l’avevo detto’, ma queste parole le saranno comunque riecheggiate nella testa”.

Dopo il divorzio Gopalan si trasferì a Montréal con le figlie, accettando un posto di lavoro all’Università McGill. Anche in Canada continuò a crescere Kamala e la sorella Maya coltivando entrambe le identità, quella indiana e quella nera. All’epoca per un’indiana era una scelta insolita, ma Gopalan voleva che crescessero orgogliose delle loro origini, senza pensare a cosa avrebbero pensato la famiglia o gli altri. Ripeteva spesso di “Non lasciare che siano gli altri a dirti chi sei perché sei tu che devi dirglielo”. Con questa filosofia di vita si fece strada e riuscì a emergere in quella società che la trascurava, trattandola come una “outsider”.

Sin da piccola Kamala venne condizionata dalla figura materna, da adolescente organizzò una protesta a Montréal, reclamando il diritto di poter giocare a calcio nel cortile del condominio. Ancora oggi il suo atteggiamento politico rispecchia molto le ideologie, i valori e i modi di agire di Gopalan. Kamala è una delle poche dirigenti le cui politiche non si allineano chiaramente con un polo ideologico del Partito Democratico, diviso tra progressisti e moderati. Durante la propria carriera ha vacillato tra i due fronti, prendendo anche posizioni che non rappresentavano nessuno dei due campi. Questo ha messo in dubbio l’autenticità delle sue convenzioni. Eppure il fatto di non appartenere strettamente a nessuno dei due schieramenti l’ha probabilmente resa la scelta giusta come vicepresidente di Biden. 

Quando lanciò la campagna per diventare procuratrice distrettuale di San Francisco, la madre la aiutò e la sostenne: faceva da autista, coordinava i volontari e le attività e raccoglieva i consensi per la candidatura della figlia. Non esisteva incarico che Kamala non potesse ricoprire. Per tutta la vita Shymala Gopalan si differenziò dalla massa, continuando a coltivare la sua idea di cosa fosse possibile. Forse il fatto che un giorno sua figlia avrebbe raggiunto il vertice della piramide politica statunitense è una delle cose che avrebbe potuto immaginare.

Radici

Sentivo le luci scorrermi nelle vene.

Quelle offuscate, senza contorni definiti e palpabili; quelle che vanno sempre amalgamandosi con le tonalità morbide degli immobili circostanti. Quelle accese nella prima notte, quando il sole pallido bacia un’ultima volta la strada e si ritira, senza promettere se il giorno dopo tornerà o meno.

Quelle luci t’incendiavano, ti facevano sentire il cuore nelle orecchie e la voglia di ballare al suono delle macchine sfreccianti. Ti facevano venire voglia di cambiare faccia, di mutare aspetto, di smetterla di avere i capelli scuri e gli occhi limpidi. Ti facevano perdere la tua meta, ti cambiavano il tragitto e in te facevano nascere il desiderio di perderti: lasciare i piedi allo sbando, unicamente guidati dalla fragranza di un romanzo di fine Ottocento ancora aleggiante sopra gli spioventi e stretti tetti, di rado illuminati da qualche immagine familiare visibile attraverso le finestre.

Pareva quasi ti parlassero le strade: erano come la proiezione delle parole che le persone avevano paura di dire. Ti invogliavano a prenderle, a sviare, a sbagliare via e a non trovare più il ritorno. Ma cosa importava ritornare a casa quando l’anima ribolliva per l’autenticità che era riuscita a scovare fra i ciottoli di quelle strade, fra i bordi stretti che abbracciavano la Senna, fra le luci dei cafès, talvolta vuoti e talvolta pulluli di anime giovani a cui la vita alludeva serbare più che la vita stessa, sebbene la consapevolezza fosse ormai greve, pronta a prendere i sogni e trascinarli in un baratro.

Ma finché sei lì, finché Parigi ti parla e con le sue luci soffuse ti culla con la promessa che il tempo mai si è evoluto in quella città dalle vie ciottolose, la consapevolezza è meno pesante, meno ardua da sopportare, mitigata da quell’illusione di vivere come in una dimensione ormai perduta, ormai bruciata dall’avidità con cui l’uomo gioca a scottarsi. Cullami, Parigi.

Fammi ubriacare del profumo dei croissants e delle baguettes appena sfornate in un mite giovedì mattina e fammi addormentare a ritmo dei passi sconnessi e rubati dell’amore che, come uno spirito vagante, fa capolino dietro gli occhi trasparenti e la voce pressata dall’insoddisfazione che la vita ha donato.

Pare quasi una sorta di nostalgia per un qualcuno che conosco a malapena.

L’amore mi è sconosciuto: talvolta penso che mai mi innamorerò perché ho un labirinto racchiuso fra quattro ossa che nemmeno io sono capace di districare. Ma tu, m’hai fatta innamorare con la delicatezza di un quadro che prende l’anima e la ribattezza e, assorbendomi tutto il caos con cui ormai convivo, m’hai tolto anni pesanti dalle spalle. Immobile, fra le tue strade che paiono braccia, ho sfiorato quella meraviglia che solamente un bambino che vede il primo tramonto sarebbe capace di provare.

Amore mio, lontano, ti cerco nello specchio di ricordi sfocati, fra i profumi di Saint Germain-Des-Pres, seduto nel giardino delle Tulleries a guardare il via vai di gente pura, libera, o a contemplare le Ninfee di Monet all’Orangerie, in mezzo a tutto quel colore tenue che rigenera l’anima e che dipinge gli occhi.

Amore mio, lontano, percorro sentieri per tornare da te, per tornare da me, che mi manchi, che mi manco, o Parigi.

 

testo a cura di Cecilia Capelli

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