Cecilia Sala, giornalista romana in Afghanistan

Ciò che è successo in Afghanistan nell’ultimo mese è noto a tutti: giornali e tv ne hanno discusso molto e, anche sui social, si sono diffuse notizie e aggiornamenti che hanno dimostrato, ancora una volta, quanto l’informazione digitale possa essere costruttiva se ben utilizzata. In particolare, ho trovato molto interessanti i reportage di Will_Ita, un account Instagram che ogni giorno spiega la politica e l’economia con la pubblicazione di stories, post e IGTV ai suoi oltre 980 mila follower. 

Nelle scorse settimane la comunicazione sulla situazione in Afghanistan è stata costante grazie a Cecilia Sala, una delle poche giornaliste occidentali a trovarsi a Kabul al momento. Romana, 26 anni, Cecilia è considerata una tra le maggiori promesse della tv e del giornalismo. Si fece notare la prima volta a 14 anni, quando parlò in una piazza contro la mafia. 

Nel 2018 ha completato la laurea in Economia Internazionale all’Università Bocconi di Milano. Negli anni precedenti ha collaborato come inviata e reporter per Vice Italia e poi per Servizio Pubblico con Michele Santoro a La7. Nel corso degli anni ha aumentato le collaborazioni e i lavori con molte testate italiane come Wired, Vanity Fair e L’Espresso, specializzandosi in politica estera, in particolare nei Paesi dell’America Latina e in Medio Oriente.

I suoi recenti interventi su quanto sta avvenendo in Afghanistan sono diventati virali sui social, soprattutto tra i giovani che sembrano apprezzare i suoi racconti e, soprattutto, ammirare il suo coraggio. È stata l’unica donna presente alla conferenza stampa del portavoce dei talebani. Nella mattinata del 7 settembre si era collegata con Omnibus, una trasmissione in onda su La7, era pronta a testimoniare sugli avvenimenti degli ultimi giorni quando si sono sentiti degli spari ed è stata costretta a rinunciare al collegamento. Proprio nei pressi dell’hotel in cui alloggiava era stata organizzata una protesta a favore della resistenza del Panshir.

Nonostante questo Cecilia non si arrende, infatti è ancora a Kabul: “Certo che ho paura, sarei stupida se non ne avessi, ma penso anche che sia molto importante capire esattamente cosa sta succedendo e credo che il modo migliore sia raccontarlo da qui”. 

Ogni giorno affronta la situazione a testa alta e testimonia la realtà dei fatti, dai più cruenti ai più scomodi da raccontare. Continua a battersi anche per i diritti delle donne: “La maggior parte delle donne ha paura di uscire di casa per scoprire che tutte le promesse fatte dai talebani in conferenza stampa – non saranno più obbligate a indossare il burqa, potranno continuare a lavorare o a studiare – non saranno rispettate“.

In effetti, i talebani hanno mantenuto una certa ambiguità sulle coperture imposte alle donne, citando ragioni di prudenza e sostenendo che i combattenti sparsi sul territorio potrebbero reagire male, non essendo abituati a vedere donne indipendenti che lavorano e si spostano liberamente. Cecilia indossa lo hijab quando esce ed è già stata invitata diverse volte a coprirsi anche il volto. 

Cecilia racconta non solo le sfide sociali ma anche quelle economiche del paese. Le file per gli sportelli bancari c’erano già prima della riconquista dei talebani, ma ora la crisi economica è l’emergenza principale: non si possono prelevare più di 200 dollari a settimana e, sebbene le riserve monetarie ammontino a 9,4 miliardi di dollari, per ora rimangono congelate. Se prima la maggior parte dell’economia si fondava e reggeva sugli aiuti della comunità internazionale, adesso c’è confusione, i talebani non sanno gestire i sistemi bancari e la fuga di cervelli che si è verificata complica ulteriormente la situazione. Questo spiega, in parte, l’atteggiamento “diplomatico” del regime nei confronti dell’Occidente. 

L’altra priorità del governo talebano è quella di consolidare il controllo del territorio. C’è la resistenza nel Panshir, le ribellioni di gruppi sparsi di hazãra sciiti e le minacce dell’ISIS-K (la presenza dello Stato Islamico in Afghanistan).

Il fatto che Cecilia si trovi fisicamente in Afghanistan ci permette non solo di sapere quotidianamente le novità raccontate e testimoniate con foto e video, ma ci aiuta anche a capire le dinamiche e la mentalità di un paese straniero e in guerra da anni. Cecilia, infatti, racconta anche scenari di tutti i giorni oltre che di politica ed economia, mostrando quello che vede camminando per strada da un punto di vista esterno, il suo.

Credo che la scelta della giornalista di stare sul posto e uscire di casa quotidianamente per capire cosa stia succedendo e raccontarlo sia onorevole, oltre che fonte di conoscenza e un enorme valore aggiunto per chi, come me, segue tutto a distanza.

Cecilia Sala, giornalista romana in Afghanistan

Ciò che è successo in Afghanistan nell’ultimo mese è noto a tutti: giornali e tv ne hanno discusso molto e, anche sui social, si sono diffuse notizie e aggiornamenti che hanno dimostrato, ancora una volta, quanto l’informazione digitale possa essere costruttiva se ben utilizzata. In particolare, ho trovato molto interessanti i reportage di Will_Ita, un account Instagram che ogni giorno spiega la politica e l’economia con la pubblicazione di stories, post e IGTV ai suoi oltre novecentottantamila follower. 

Nelle scorse settimane la comunicazione sulla situazione in Afghanistan è stata costante grazie a Cecilia Sala, una delle poche giornaliste occidentali a trovarsi a Kabul al momento. Romana, ventisei anni, Cecilia è considerata una tra le maggiori promesse della tv e del giornalismo. Si fece notare la prima volta a quattordici anni, quando parlò in una piazza contro la mafia. Nel 2018 ha completato la laurea in Economia Internazionale all’università Bocconi di Milano; negli anni precedenti ha collaborato come inviata e reporter per Vice Italia e poi per Servizio Pubblico con Michele Santoro a La7. Nel corso degli anni ha aumentato le collaborazioni e i lavori con molte testate italiane come Wired, Vanity Fair e L’Espresso, specializzandosi in politica estera, in particolare nei Paesi dell’America Latina e in Medio Oriente.
I suoi recenti interventi su quanto sta avvenendo in Afghanistan sono diventati virali sui social, soprattutto tra i giovani che sembrano apprezzare i suoi racconti e, soprattutto, ammirare il suo coraggio. È stata l’unica donna presente alla conferenza stampa del portavoce dei talebani. Nella mattinata del 7 settembre si era collegata con Omnibus, una trasmissione in onda su La7: era pronta a testimoniare sugli avvenimenti degli ultimi giorni quando si sono sentiti degli spari ed è stata costretta a rinunciare al collegamento. Proprio nei pressi dell’hotel in cui alloggiava era stata organizzata una protesta a favore della resistenza del Panshir.
Nonostante questo Cecilia non si è arresa, infatti è ancora a Kabul: «certo che ho paura, sarei stupida se non ne avessi, ma penso anche che sia molto importante capire esattamente cosa sta succedendo e credo che il modo migliore sia raccontarlo da qui». Ogni giorno affronta la situazione a testa alta e testimonia la realtà dei fatti, dai più cruenti ai più scomodi da raccontare. Continua a battersi anche per i diritti delle donne: «la maggior parte delle donne ha paura di uscire di casa per scoprire che tutte le promesse fatte dai talebani in conferenza stampa – non saranno più obbligate a indossare il burqa, potranno continuare a lavorare o a studiare – non saranno rispettate». In effetti, i talebani hanno mantenuto una certa ambiguità sulle coperture imposte alle donne, citando ragioni di prudenza e sostenendo che i combattenti sparsi sul territorio potrebbero reagire male, non essendo abituati a vedere donne indipendenti che lavorano e si spostano liberamente. Cecilia indossa lo hijab quando esce ed è già stata invitata diverse volte a coprirsi anche il volto.
Cecilia racconta non solo le sfide sociali ma anche quelle economiche del paese. Le file per gli sportelli bancari c’erano già prima della riconquista dei talebani, ma ora la crisi economica è l’emergenza principale: non si possono prelevare più di duecento dollari a settimana e, sebbene le riserve monetarie ammontino a 9,4 miliardi di dollari, per ora rimangono congelate. Se prima la maggior parte dell’economia si fondava sugli aiuti della comunità internazionale, adesso c’è confusione, i talebani non sanno gestire i sistemi bancari e la fuga di cervelli che si è verificata complica ulteriormente la situazione. Questo spiega, in parte, l’atteggiamento “diplomatico” del regime nei confronti dell’Occidente. L’altra priorità del governo talebano è quella di consolidare il controllo del territorio. Ci sono la resistenza nel Panshir, le ribellioni di gruppi sparsi di hazãra sciiti e le minacce dell’ISIS-K (la presenza dello Stato Islamico in Afghanistan).

Il fatto che Cecilia si trovi fisicamente in Afghanistan ci permette non solo di sapere quotidianamente le novità raccontate e testimoniate con foto e video, ma ci aiuta anche a capire le dinamiche e la mentalità di un paese straniero e in guerra da anni. Cecilia, infatti, racconta anche scenari di tutti i giorni oltre che di politica ed economia, mostrando quello che vede camminando per strada da un punto di vista esterno, il suo. Credo che la scelta della giornalista di stare sul posto e uscire di casa quotidianamente per capire cosa stia succedendo e raccontarlo sia onorevole, oltre che fonte di conoscenza e un enorme valore aggiunto per chi, come me, segue tutto a distanza.

La realtà di Brunello Cucinelli

Brunello Cucinelli è uno stilista e imprenditore italiano. Nato a Castel Rigone nel 1953, ha sempre mostrato una grande creatività e un forte interesse per l’arte. Si diploma, ma abbandona gli studi di ingegneria per aprire una piccola azienda nel 1978. Sin da subito attira l’attenzione del pubblico, la sua idea è quella di colorare il cashmere.
Cresciuto in una famiglia semplice e avendo visto il padre lavorare in un ambiente ostile, Cucinelli è sempre stato un attento osservatore e sin da bambino ha sviluppato una profonda etica del lavoro e del rispetto per il lavoratore. Negli anni è riuscito a sviluppare e diffondere il concetto di lavoro che assicura «dignità morale ed economica dell’uomo».

Credo in un’impresa umanistica: un’impresa che risponda nella forma più nobile a tutte le regole di etica che l’uomo ha definito nel corso dei secoli.
Nella mia organizzazione il punto di riferimento è il bene comune, come strumento di guida per il perseguimento di azioni prudenti e coraggiose. Nella mia impresa ho messo l’uomo al centro di qualsiasi processo produttivo, perché sono convinto che la dignità umana ci sia restituita solo attraverso la riscoperta della coscienza.

Questo suo credo è l’elemento fondamentale della sua personalità e del suo successo. La passione per l’arte, per la filosofia e per la storia alimenta i suoi sogni e i suoi ideali. Pur prendendo spunto dal passato, i suoi progetti e il suo sguardo sono costantemente rivolti al futuro e ogni sua azione è pensata per durare nei secoli.

Nel cammino di ogni giorno ascolto la parola dei grandi del passato, da Socrate a Seneca a Kant, da Marco Aurelio, ad Alessandro Magno a San Benedetto. Credo nella qualità e nel bello del prodotto artigianale; penso che non possa esservi qualità senza umanità.

Quando nel 1982 si trasferisce a Solomeo, dopo essersi sposato e aver avuto due figlie, lo stilista riesce a dare forma alle sue idee. Il piccolo comune umbro diventa sia la sua fonte d’ispirazione che la sua boutique. Anche il mercato internazionale, che in quegli anni si sviluppò enormemente, accoglie i suoi progetti e i suoi ideali. Nel 1985 acquista il castello del XIV secolo del borgo e lì costruisce la sede dell’azienda che negli anni si estende sempre di più.  Solomeo diviene un luogo dedicato all’arte e alla cultura. Nel Foro delle Arti nasce l’idea della Scuola di Arti e Mestieri, per cui la figura dell’artigiano deve essere conservata e tramandata. La Scuola è il laboratorio dove questa ispirazione diventa realtà.

Nell’impresa umanistica di Solomeo si lavora perseguendo un identico obiettivo, ma soprattutto si avverte una scala di valori non materiali nella quale ci si riconosce come parte dell’intera azienda. […] La creazione del profitto è congenita al tipo di attività eppure per me non è tutto. Non vorrei vivere in un mondo dove ogni cosa si riconduce sterilmente al solo profitto. Il denaro riveste un vero valore solo quando è speso per migliorare l’esistenza e la crescita dell’uomo, ed è questo il mio fine.

Nel 2012 presenta l’impresa alla Borsa di Milano, e anche in questa occasione il suo obiettivo non è arricchirsi, ma diffondere questa idea di «Capitalismo Umanistico». Nel 2014 viene presentato e approvato il Progetto per la Bellezza, con il quale si realizzano tre parchi nella valle ai piedi del borgo di Solomeo. Per Cucinelli la bellezza si riflette in ogni cosa, persona, idea, modo e parola. La bellezza non è un attributo esterno che rimane in superficie, ma la forma della qualità interiore delle persone e delle cose. Dove c’è Bellezza c’è positività. Il progetto prevede il recupero di terreni già occupati da vecchi opifici in disuso a favore di alberi, frutteti e prati. Con questa iniziativa Cucinelli vuole valorizzare l’importanza della terra e riavvicinare l’uomo alla natura. Si sente un piccolo custode del creato e dimostra che la Bellezza salverà il Mondo, tutte le volte che il Mondo, a sua volta, salverà la Bellezza.

Grazie ai suoi forti ideali e al suo concetto innovativo e genuino di moda e arte, Brunello Cucinelli ha ricevuto numerosi riconoscimenti tra cui «pensatore concreto, promotore culturale e vero mecenate dei nostri tempi» come «Cavaliere del Lavoro», come colui che ha saputo «impersonare perfettamente la figura del Mercante Onorevole».
Ancora oggi l’azienda promuove gli ideali che l’hanno caratterizzata da sempre: il lavoratore è rispettato e il suo valore aggiunto è sempre prezioso e mai scontato. Pur essendo nata come piccola azienda locale, Cucinelli ha creato un vero e proprio stile di vita, con valori forti e un’etica sana, al contrario di tanti colossi del lusso e dell’arte.
Si spera che in futuro sempre più aziende prendano esempio dalla piccola, ma enorme realtà di Solomeo in cui coniugare antico e moderno, obiettivi aziendali ed esigenze umane è il segreto di un’impresa cui si guarda da più parti per la sua portata innovativa.

Il viaggiatore

«Un viaggio non inizia nel momento in cui partiamo né finisce nel momento in cui raggiungiamo la meta. In realtà comincia molto prima e non finisce mai, dato che il nastro dei ricordi continua a scorrerci dentro anche dopo che ci siamo fermati. È il virus del viaggio, una malattia sostanzialmente incurabile» Ryszard Kapuściński

Il giornalista polacco Kapuściński descrive perfettamente cos’è un viaggio per una persona che ama esplorare posti mai visti. Il viaggiatore non è un turista. Il viaggiatore è una persona curiosa che parte per arricchirsi e fare nuove esperienze. Ogni viaggio comincia molto prima della partenza in aeroporto o in macchina. Il viaggio comincia nella nostra mente e nelle nostre aspettative e quando termina conserveremo sempre le emozioni provate. Oltre al souvenir comprato nel posto in cui siamo stati, il viaggio lascia sempre dei ricordi indelebili.

Durante l’estate, oltre che viaggiare con la mente immaginandoci dove vorremmo essere, la maggior parte di noi riesce a ritagliarsi del tempo per essere un viaggiatore. Alcuni partono senza una meta, per partire e basta. Non sanno dove andranno né quando ritorneranno, l’unica cosa che sanno è che sono viaggiatori. Andare pur di non restare fermi, è il loro motto. Altri invece partono con una meta ben precisa ma poi quando arrivano sul posto decidono di non seguire più una mappa. Decidono di perdersi e lasciarsi trasportare dagli eventi.

Ad ogni modo in ogni viaggio si respira sempre un certo sapore di libertà. La libertà di incontrare visi sconosciuti perdendosi in bei paesaggi. La libertà di stravolgere la routine quotidiana per rendere ogni secondo indimenticabile. La libertà di togliersi dalle spalle le convinzioni altrui e le decisioni sbagliate dimenticando tutto per un attimo.

Viaggiare vuol dire mettersi in cammino su un terreno sconosciuto. Viaggiare aiuta a capire gli altri ma anche a conoscerci meglio e a trovare delle risposte. Viaggiare ci fa notare quanto è piccolo il posto che occupiamo nel mondo. Non per forza bisogna andare dall’altra parte del mondo per fare un viaggio. Un viaggiatore è anche colui che esplora i dintorni di casa sua. Perché non si finisce mai di perdersi e scoprire luoghi a noi ancora sconosciuti.

Tim Ferriss diceva che i semafori della vita non saranno mai tutti verdi nello stesso momento. Quando vogliamo scappare per un po’ da tutto, non rimandiamo aspettando l’occasione giusta perchè non ci sarà mai. Quindi come canta Cesare Cremonini: «buon viaggio, che sia un’andata o un ritorno, che sia una vita o solo un giorno, che sia per sempre o un secondo».

 

Il pensiero creativo

“ Tutti i bambini sono degli artisti nati, il difficile sta nel fatto di restarlo da grandi”
Pablo Picasso

Quando siamo piccoli ci fidiamo ciecamente della nostra immaginazione, ci buttiamo in ogni situazione senza aver paura di sbagliare, almeno ci proviamo. Crescendo e diventando adulti la maggior parte di noi perde questa fiducia nella creatività, abbandoniamo la capacità di lasciarci andare. Come dice Picasso, tutti i bambini nascono artisti, il problema è rimanerlo anche quando si diventa grandi. Forse disimpariamo ad esserlo o ci insegnano a non esserlo.

Nel sistema educativo, le arti vengono spesso considerate futili, meno importanti di altre discipline. Invece, io credo che la matematica sia importante tanto quanto la danza o la musica. Molti genitori continuano a ripetere ai loro figli: “non fare arte, non diventerai mai un grande artista, guadagnerai poco”. La carriera artistica non è sicuramente facile ma tutte le strade che decidiamo di percorrere presentano degli ostacoli. Così tante persone creative, per il sistema in cui sono inserite, pensano che non lo siano e finiscono per non scoprire mai il loro potenziale.

La società ci spinge a chiuderci in schemi di riferimento e ad adeguarci alla realtà che ci circonda. Siamo terrorizzati di sbagliare, stigmatizziamo gli errori. Insomma siamo schiavi dei giudizi degli altri. Ma se non siamo preparati a sbagliare, non ci verrà mai in mente qualcosa di originale. Essere creativi significa generare idee che vadano oltre le strade battute e possiamo farlo solo se siamo pronti ad andare fuori dal nostro cammino abituale. Il pensiero creativo consiste nel compiere dei tragitti sconosciuti.

Fino al secolo scorso prevaleva l’idea che la creatività fosse simile al genio, una dote raramente posseduta ed esplicitata in campi ristretti come, ad esempio, l’attività artistica. Ancora oggi se si chiedesse a qualcuno chi potrebbe essere la personificazione della creatività, si penserebbe subito ad un tipo bizzarro, stravagante e insolito. Ma in realtà tutti siamo creatori. Tutti abbiamo un’infinità di intuizioni che spesso non abbiamo il coraggio di seguire fino in fondo, continuando così a costruire una realtà lontana da ciò che intimamente sentiamo.

Buona parte delle persone sembra pensare che la vita sia un percorso lineare, che le nostre capacità scemino con l’età e che le opportunità perdute non si ripresenteranno mai più. Forse molte persone non hanno trovato la loro strada perché non comprendono la costante capacità di rinnovamento. Questa visione limitata di noi stessi dipende sia dai nostri simili e dalla nostra cultura ma anche dalle nostre aspettative. La creatività è un modo per sconfiggere questa paura costante di sbagliare, è la capacità di mettere in discussione quello di cui gli altri non dubitano mai, quello che si reputa ovvio. È un modo per creare un senso di scopo e per non sentirsi impotenti davanti alla vita.

La tecnologia può copiare la nostra razionalità ma quando siamo creativi sentiamo emozioni che non sono esprimibili in linea retta. La creatività porta bellezza e incentiva l’innovazione. Infatti, molti studi confermano che uno degli aspetti fondamentali dell’intelligenza è proprio il pensiero creativo che ci permette di vedere le cose diversamente, di trovare nuove soluzioni e andare oltre gli ostacoli.

Per essere creativi ognuno deve individuare il suo rituale, il suo personale approccio. Bisogna praticare il pensiero creativo come una sorta di allenamento per irrobustire la nostra creatività, ad esempio, in cucina, nel giardinaggio per poi trasferirla dove ci occorre, come sul lavoro. L’immaginazione si può educare anche ascoltando l’altro oppure osservando chi ci circonda. Perfino le parole di uno scrittore possono evocare immagini nella nostra mente e guidare il processo creativo. Tuttavia essere creativi vuol dire prima di tutto entrare in contatto con sé stessi. Infatti molte attività creative vengono utilizzate spesso in ambito terapeutico proprio perché creare ci riporta a noi stessi. In fin dei conti, il pensiero creativo è ciò che ci permette di andare al di là delle cose scontate, ci permette di trovare delle risposte diverse a domande che pensavamo avessero già una risposta definitiva e universale.

Albert Einstein diceva: “L’immaginazione è più importante della conoscenza. La conoscenza è limitata, l’immaginazione abbraccia il mondo, stimolando il progresso, facendo nascere l’evoluzione.”

 

Norwegian Wood

Ho deciso di leggere Norwegian Wood quando l’ho visto delicatamente appoggiato sulla scrivania di un’amica. Due cose hanno catturato la mia attenzione, la copertina rossa e il fatto che avesse l’aria di uno di quei libri vissuti che, quando li guardi, ti chiedono di essere aperti e letti. Così me lo sono fatta prestare.

Norwegian Wood è un romanzo di Haruki Murakami, pubblicato nel 1987. Leggerlo è una sorta di rito di passaggio, quasi tutti i miei coetanei l’hanno fatto, chi più di una volta. I feedback sono vari, c’è chi lo ha amato, chi odiato, chi ha provato emozioni contrastanti avendolo letto in momenti diversi della propria vita. L’edizione che ho letto io era già passata  in diverse mani, con pagine gialline, alcune frasi sottolineate e gli angoli della copertina consumati.

Per quanto mi riguarda, sono solidale con le recensioni positive, mi sono affezionata molto in fretta sia alla storia che ai personaggi.

Norwegian Wood è un lungo flashback, narrato in prima persona dal protagonista Watanabe. Il ragazzo, ormai trentasettenne, si trova su un aereo diretto in Germania quando sente “Norvegian Wood” dei Beatles uscire dagli autoparlanti del mezzo. La canzone lo porta a ricordare con nostalgia eventi e persone del suo passato, quando frequentava l’università a Tokyo. Watanabe era uno studente semplice e curioso, appassionato di letteratura americana. All’inizio del primo anno di università ritrova un’amica, Naoko, che non vedeva dal funerale di Kizuki, migliore amico di lui e fidanzato di lei, morto suicida a 17 anni. Naoko è una ragazza bellissima di cui Watanabe si innamora. Inizia così la loro storia, un amore lento, delicato e intenso: Naoko è pericolosamente fragile, ma più lei mostra i sintomi del disagio mentale che la tormenta, più Watanabe si fa coinvolgere. Nel momento in cui Naoko si allontana da Tokyo per curarsi, Watanabe conosce ed inizia a frequentare un’altra ragazza, Midori, che pur avendo anche sofferto molto in passato, è vivace, vitale e disinvolta.

Watanabe incontra numerose persone durante il racconto, tutte molto diverse tra loro. Ciò che mi ha colpito è come l’autore sia riuscito perfettamente nella descrizione dei personaggi; personalmente non mi riconosco in nessuno di questi, ma, in qualche modo, capisco i loro pensieri, le loro emozioni e i loro gesti come se fossero miei. Riesco a immedesimarmi in ognuno di loro pur essendo totalmente diversa ed estranea alla loro realtà. L’atmosfera della storia è così personale e introspettiva che è impossibile non farsi coinvolgere né non portarsi dietro qualcosa una volta terminata la lettura.

Probabilmente le due ragazze, Naoko e Midori, rappresentano i due lati della personalità di Watanabe, motivo per cui lui ama entrambe e non sa con chi vuole stare. La sua indecisione rispecchia ognuno di noi: la nostra personalità viene rappresentata sia da Naoko, timida, impaurita, sola e triste, sia da Midori, combattiva, estroversa e leggermente volgare. Siamo sempre sospesi tra il desiderio di compagnia e lo stare in solitudine, la voglia di affermare noi stessi, ma anche di venire accettati dagli altri.

Un altro aspetto incredibile del romanzo è come l’autore affronti temi molto intimi e delicati in maniera semplice, ma non superficiale. Argomenti che ancora oggi vengono considerati tabù, come ad esempio la sessualità o il suicidio, viaggiano liberi e con la volontà di essere raccontati. É anche vero che il romanzo trattando temi complicati, non può che trasmetter anche un forte senso di inquietudine e malessere. Più di una volta ho interrotto la lettura perchè mi sentivo triste e malinconica, eppure non vedevo l’ora che questo sentimento si

affievolisse per poter portare a termine il capitolo. Questo perchè la storia rivela speranza e ciò porta a sopportare questa sensazione di disagio, protagonista della vita dei personaggi.

La narrazione mi ha quindi portata a fare un viaggio tra i sentimenti, le emozioni e le oscurità che si incontrano tra l’adolescenza e i primi anni della vita adulta. Gli amori, le amicizie, lo studio, il sesso, la consapevolezza di se stessi. In ogni esperienza che vive, il protagonista appare talmente reale e vivo che si rivela essere tremendamente umano. Ci rivela tutto, ogni singolo pensiero o sentimento, da quello più timido e ingenuo a quello più spinto e perverso.

Uno dei miei passaggi preferiti è il discorso tra Watanabe e Midori, quando lei gli racconta del club di musica folk a cui si è iscritta all’università e della sua sensazione di non appartenenza e disagio perchè si sente giudicata e viene presa di mezzo perché considerata intellettualmente e culturalmente inferiore rispetto agli altri:

– “Come è possibile che non capisci queste cose? mi dicevano. Come pensi di vivere senza un’idea nel cervello? Ma io sono quella che sono. Non sarò una persona intelligente. Sono una persona comune. Ma sono anche le persone comuni quelle che sostengono la società, e quelle che vengono sfruttate? E sbandierare di fronte alle persone comuni parole che non possono capire me lo chiamate rivoluzione? Trasformazione della società? Io vorrei fare veramente qualcosa per migliorare le condizioni della società. E credo che se ci sono veramente persone sfruttate bisogna mettere fine a questa cosa. E non è proprio per questo che facevo domande cercando di capire?

 –Sí, credo di sí.

 –Allora pensai: questi sono solo una massa di mistificatori. Si compiacciono di usare paroloni difficili a effetto per suscitare l’ammirazione delle ragazze appena entrate all’università, e in realtà pensano solo a infilare le mani sotto alle gonne. Poi quando arrivano al quarto anno si tagliano i capelli, trovano un bell’impiego alla Mitsubishi, alla TBS, all’IBM o alla Banca Fuji, si prendono una moglie carina che non ha mai letto una parola di Marx e affibbiano ai loro bambini i nomi piú pretenziosi che trovano. Altro che «Distruzione della cooperazione università-industria!» C’è da piangere dalle risate. Gli altri appena iscritti come me neanche a parlarne. Anche se non avevano capito un bel niente facevano la faccia di chi ha capito perfettamente ed è dalla parte giusta. E poi in privato mi dicevano: «Non fare la scema, anche se non capisci basta che dici “sí, sí” o “ah, ma davvero!” e tutto andrà bene».

[…] Tutta l’università è piena di questi ipocriti. Passano la loro vita tremando, nel terrore che gli altri possano scoprire che non hanno capito qualcosa. E naturalmente leggono tutti gli stessi libri, si riempiono tutti degli stessi paroloni, ascoltano tutti John Coltrane e si esaltano con i film di Pasolini. Sarebbe questa la rivoluzione?

-Non chiedere a me. Non mi è mai capitato di vederne ”

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