L’essere storico

Ogni pensatore ha offerto al mondo il proprio frutto e per questo di ogni pensatore va sempre preso il buono. Questo riesce molto facile a chi, come la sottoscritta, tende a piluccare qualcosa di utile da ogni sistema filosofico, che è poi l’idea di filosofia che Montaigne cercava di trasmettere.

Ad esempio, è vera sia la prospettiva di chi crede in verità eterne e immutabili sia quella opposta di chi sostiene un qualche genere di relativismo. L’Ottocento e il Novecento filosofici sono stati attraversati da filoni di pensiero contrapposti su questo punto, e uno dei maggiori protagonisti di questo dibattito è stato il tedesco Wilhelm Dilthey (1833 – 1911), esponente dello storicismo che avrà grande influenza su Martin Heidegger. Secondo Dilthey, l’essere umano è innanzitutto un «essere storico» e la temporalità è il marchio del mondo umano in tutte le sue forme. Non è possibile svincolare dalla contingenza storica un sistema di pensiero, una visione del mondo o un’espressione culturale: addirittura la particolare concezione metafisica di un dato autore è tale perché quell’autore è proprio quell’uomo che vive in una determinata situazione storica. Dilthey non frena più di tanto: parla di metafisica, cioè di quella sfera tradizionalmente incontaminata, pura e, soprattutto, assoluta. Scrive infatti: «Dinnanzi allo sguardo che s’estende sulla terra e su tutto il passato svanisce la validità assoluta di ogni singola forma di concezione della vita, di religione, di filosofia». La visione metafisica e religiosa di una persona sola, malata o felicemente sposata può davvero essere considerata indipendente da quella specifica forma di vita?

L’essere umano è storico, il suo pensiero affonda le radici nel terreno su cui egli è cresciuto. Probabilmente il limite di tale prospettiva è la tendenza a scivolare nel determinismo, cioè nella teoria secondo cui la persona è determinata sempre dall’esterno ad agire in un certo modo, senza possibilità di scegliere liberamente. Tuttavia lo storicismo insegna a relativizzare molti valori e princìpi che, se assolutizzati, possono trasformarsi da valori in armi. E ricorda anche che ogni persona ha visto cose diverse e per questo penserà cose diverse, che saranno vere e giuste per lei; ricorda che ogni pensiero sgorga da occhi pieni di immagini private e che ogni idea contribuisce a dare forma allo splendido mosaico della verità.

Pestare i piedi

«Se cerco di immaginarmi il nuovo aspetto che il dispotismo potrà avere nel mondo, vedo una folla innumerevole di uomini eguali, intenti solo a procurarsi piaceri piccoli e volgari, con i quali soddisfare i loro desideri. Ognuno di essi, tenendosi da parte, è quasi estraneo al destino di tutti gli altri».

Queste parole, tratte da La democrazia in America (1835 – 1840) di Alexis de Tocqueville, esprimono la configurazione che secondo l’autore avrebbe assunto il dispotismo in futuro. Quest’opera di grande successo fu scritta a seguito del viaggio che Tocqueville fece in America nel 1831, occasione in cui egli poté conoscere la democrazia americana sia sotto il profilo politico sia sotto quello sociologico. L’autore osservò quella realtà e vi percepì individualismo, vicinanza fisica unita alla povertà di relazioni tra i cittadini. Tocqueville vide individui piccoli piccoli, mediocri, che non erano guidati da ideali e che si limitavano a ricercare il proprio piacere più rozzo. È un ritratto che rappresenta gran parte della nostra quotidianità: si sa, o almeno s’immagina, che i capi d’abbigliamento venduti dalle grandi catene internazionali hanno prezzi bassissimi perché dietro ci sta lo sfruttamento di persone. Ma ogni tanto un’occhiata la si dà. Si conosce, o almeno si dovrebbe conoscere, i diversi articoli usciti per condannare la politica di sfruttamento di Amazon. Ma si chiude gli occhi e ogni tanto qualcosa si compra. A ben vedere tutto questo rispecchia alla perfezione la fotografica espressione di Bertold Brecht: «Prima la pancia, poi la morale».

Non s’intenda che l’intera società è fatta di individui piccoli piccoli, perché ogni individuo è grande e piccolo insieme e perché oggi le coscienze si stanno risvegliando su diversi fronti. Tuttavia sarebbe giovevole ripensare ogni tanto a quel gesto facile ma audace con cui sono iniziate le grandi rivoluzioni umane: Rosa Parks semplicemente non cedette il suo posto a sedere all’uomo bianco, le suffragiste inglesi nella loro quotidianità familiare iniziarono a parlare del diritto di voto alle donne. Talvolta quello di pestare i piedi può sembrare un capriccio infantile e può darsi che lo sia, ma è dissetante reiterare il potente gesto con cui il giovane Cosimo dà il via alla storia narrata da Italo Calvino in Il barone rampante: «Ho detto che non voglio e non voglio! – e respinse il piatto di lumache».

Chiudi gli occhi, serra le labbra

«Mistero» è una parola che suona carica di vecchi connotati magici e che spesso si preferisce sostituire con termini ed espressioni apparentemente più pregnanti sul piano filosofico ed esistenziale, come «domanda senza risposta», «enigma», «problema irrisolvibile». Tuttavia «mistero», come la maggioranza delle parole di origine greca, condensa in sé più livelli di significato: mysterium deriva da mys, verbo che significa chiudere, in questo caso le labbra. Mistero è ciò davanti a cui non si può parlare.

È un concetto molto caro al teologo e filosofo Vito Mancuso, il quale per indicare la sfera o la fonte del mistero ricorre all’efficace ed eloquente espressione eccedenza della vita. La vita eccede in due sensi. Da un lato eccede nella bellezza: tenere tra le braccia un figlio appena nato, sentirsi anche solo per un attimo parte dell’universo e provare la sensazione di essere nel posto giusto sono momenti in cui la nostra personale esistenza trabocca di bene; quando la vita eccede in questo verso non abbiamo parole, non possiamo né parlare né scrivere, forse piangiamo solo lacrime di gioia, ma la bocca resta serrata. La vita, però, eccede anche nel dolore. E a questo punto si pensi ai tre tipi di violenza inaccettabile che Ivàn Karamazov elenca e dispiega al fratello Alëša nel romanzo di Dostoevskij: la violenza contro gli anormali, la violenza contro gli animali, la violenza contro i bambini. Al solo pensiero di tutto questo, come trovare parole per parlarne? Come riuscire ad aprire la bocca? La troppa bellezza e il troppo male sono un mistero che ci obbliga a serrare le labbra e, aggiunge Mancuso, anche gli occhi.

Spesso l’essere umano si danna e si tormenta nel cercare le risposte, pur sapendo che non possono reggere, che non sono eticamente né emotivamente accettabili o che sono totalmente arazionali. Bellezza e dolore, questi i due poli sul cui confine Mancuso invita ognuno di noi a camminare: sono i poli di una contraddizione vivente e di un’antinomia per la ragione, sono la tesi e l’antitesi per eccellenza, qualcosa che, con buona pace di Hegel, non può trovare una sintesi. Davanti all’inconcepibilità della loro coesistenza non è possibile (meno che mai nel XXI secolo) nemmeno cercare una soluzione. È un mistero. È un mistero davanti a cui sentirsi nudi, spogliati di ogni antropocentrismo e di ogni pretesa che la nostra ragione valga davvero qualcosa. Non resta che abbassare lentamente le palpebre e serrare le labbra.

Noia

La cultura del consumismo non attiene meramente alla sfera economica, perché annebbia l’intelligenza anche nella sfera privata. L’uomo di questo tempo è irrequieto e sempre in ricerca del nuovo, come dimostrano alcune scene di vita quotidiana: la maggior parte dei bambini non sa stare seduta tranquillamente al banco e non sa colorare un disegno con cura; nelle aule universitarie gli studenti prendono appunti, ma di tanto in tanto aprono la pagina Facebook per scorrere distrattamente e rapidamente tra la vita degli altri; alla stazione ferroviaria molti non hanno la pazienza di aspettare il treno senza fare nulla, e così navigano anch’essi tra i social.

Tante sono le insidie del mondo e una tipica del nostro è la noia. Se la noia di quando si era bambini era l’assenza di ogni attività, la noia dell’adulto è una pigrizia che si riversa in attività senza senso (come scorrere le foto di Instagram senza interesse); così la cultura della non accettazione dei dispiaceri emerge anche da questo, dato che nel quotidiano si camuffa la noia dandole le sembianze delle attività tipiche del “tempo libero”. Si parla di noia, ma Martin Heidegger nel sesto capitolo di Essere e tempo (1927) definiva la curiosità come «una tipica incapacità di soffermarsi su ciò che si presenta» che non cerca «la calma della contemplazione serena», ma che spinge sempre alla novità e al cambiamento. Heidegger proseguiva: «I due momenti costituitivi della curiosità, l’incapacità di soffermarsi e la distrazione, fondano quel terzo carattere essenziale di questo fenomeno cui diamo il nome di irrequietezza». È un modo di vivere che anche Antoine de Saint – Exupéry denunciava con grazia in Il piccolo principe (1943), in cui scriveva a proposito degli uomini: «Non si sa mai dove trovarli. Il vento li spinge qua e là. Non hanno radici, e questo li imbarazza molto».

Oggi si discute tanto della precarietà affettiva e della paura di fare scelte forti e convinte, consapevoli che però si tratta di modi di vivere propri di molti, ma non di tutti. Al contrario le trappole quotidiane che nessuno evita del tutto sono proprio l’irrequietezza e l’impazienza nell’aspettare che il semaforo diventi verde o nel rispettare i limiti stradali di velocità. La relazione tra noia e intolleranza è difficilmente visibile, ma c’è: si annoia chi si distrae e si distrae chi è intollerante.

E se allora si provasse a sconfiggere parte della dilagante impazienza insegnando ai bambini a stare seduti composti e agli adulti a non smarrirsi nel vuoto mondo liquido dei social?

Riflessione laica sulla migrazione

Un negozio. Una panetteria, ad esempio. Una coda di gente fuori dalla porta d’ingresso, perché tutti non ci stanno. Va avanti così per giorni e poi per mesi. Allora un bel giorno il panettiere annuncia che farà entrare solo venti persone, quelle che sono i suoi clienti da una vita. Tutti gli altri fuori, perché “siete gli ultimi arrivati” dice.

È giusto?

Esiste il diritto di essere primi solo perché si vive in un luogo da sempre?

Non capisco perché le persone non abbiano il diritto di muoversi nel mondo: il mondo non è di nessuno. Siamo e dobbiamo essere liberi di andare dove vogliamo, e non importa se quando ci spostiamo lo facciamo per motivi di forza maggiore o per libera scelta: in ogni caso, le persone sono libere di trasferirsi serenamente da un paese all’altro. Sono liberissime di migrare, e chi lo vieta viola un sacrosanto diritto umano.

Si tratta di comportarsi con un atteggiamento del tutto laico, perché, nonostante il valore inestimabile che ha e la funzione sociale importantissima che non deve cessare di ricoprire, esortare all’accoglienza in un senso solamente cristiano può rischiare a volte di accantonare questo sguardo disincantato e razionale che invece non deve mai venire meno: infatti, anche se gli attuali migranti non stessero scappando dalla guerra, l’atteggiamento di apertura non dovrebbe essere diverso. Queste persone non vanno incluse nelle nostre società solo perché sono disperate, ma perché francamente non possiamo fare altro, non abbiamo il diritto di farlo. Quando rifletto su questa chiusura verso l’umano non posso non sentire rivolte a noi le parole che Rousseau scrisse nel 1755, anche se in un contesto toto cielo differente: «Il primo uomo che, avendo recinto un terreno, ebbe l’idea di proclamare questo è mio, e trovò altri così ingenui da credergli, costui è stato il vero fondatore della società civile. Quanti delitti, quante guerre, quanti assassinii, quante miserie, quanti orrori avrebbe risparmiato al genere umano colui che, strappando i pali o colmando il fosso, avrebbe gridato ai suoi simili: Guardatevi dall’ascoltare questo impostore; se dimenticherete che i frutti sono di tutti e che la terra non è di nessuno, sarete perduti!».

Rousseau sta parlando all’uomo europeo del 2019: un paese non è possesso di nessuno. Un paese è libero, è permeabile alle persone e ai cittadini, primi o ultimi giunti che siano. La storia è un processo inarrestabile che non concede e mai concederà ai propri attori (o marionette?) il diritto di battere il pugno sulla cartina dell’Europa per affermare: «Questo è mio!».

Bellezza: la pietra d’angolo

“Ogni creatura umana, Socrate, s’ingravida nel corpo e nell’anima e, quando giunge a una certa età, la natura nostra ha febbre di generare vita. Generare nella sfera del brutto non sa: genera in quella del bello. […] Non può sorgere vita nel brutto. Brutto è quanto non sa riconnettersi al celeste, nelle varie forme: bello ciò che si connette”.

Queste parole di Platone, tratte dalle mirabili pagine del Simposio, sono un elogio della bellezza e dimostrano una profonda comprensione dell’essere umano: solo la bellezza genera vita e quindi l’uomo vive davvero soltanto attingendo a cose belle. Si tratta di un pensiero evidentemente in linea con la tradizione greca che a partire da Omero stabiliva una sicura equazione tra kalòse agathòs, cioè tra bello e buono, visione che nei secoli successivi è stata studiata a fondo e in parte criticata. Questa secolare concezione è contrastante con i principi su cui la realtà contemporanea si basa: quante sono le ore di storia dell’arte a scuola? Quante quelle di musica? Quante sono le persone che parlano di “utilità” del greco, invece di parlare di “bellezza” del greco? Quanto si investe nella bellezza? Si commette un gravissimo errore ritenendo che la bellezza sia un accessorio e un bene di lusso, perché in realtà senza cose belle ci si limita a sopravvivere come macchine: la riflessione platonica sottolinea così la peculiarissima utilità di quella pietra d’angolo che viene invece scartata dalla nostra società. È molto diffusa oggi la tendenza a calcolare il rapporto tra rischio e beneficio, a camminare con i piedi di piombo anche quando si potrebbe sperimentare una grande bellezza nella propria vita: sono tantissime le volte in cui non ci si fida delle parole di Platone, che invece ci rassicura garantendoci che le cose belle sono sempre feconde, prima o dopo. Talvolta infatti godiamo di dolci frutti solo dopo lunghe attese e pesanti fatiche, ma d’altra parte le cose più vantaggiose sono proprio quelle che offrono i loro doni dopo tanto tempo: ogni cosa bella matura lentamente nell’anima di chi l’ha sperimentata, rilasciando i propri semi gradualmente ed emanando un profumo che in qualche misura non verrà mai dimenticato. Ogni esperienza e ogni bellezza, anche se magari non sempre conosciute consapevolmente, si depositano sul fondo della nostra anima contribuendo a formare un tesoro che non ci potrà mai essere rubato.

Per essere fecondi occorre vivere di bellezza. Riconnettersi con il celeste è toccare il divino, staccandosi dalla terra su cui ci si limita a sopravvivere ed innalzandosi a ciò da cui la nostra anima in un modo o nell’altro proviene. Aveva capito tanto Dostoevskij quando con la sua frase lapidaria poi divenuta celeberrima aveva saputo condensare magistralmente questa idea: perché sì, è proprio vero che “la bellezza salverà il mondo”.

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