14 Giugno 2020 | Stappapensieri
«Non era uno stupido; era semplicemente senza idee (una cosa molto diversa dalla stupidità), e tale mancanza d’idee ne faceva un individuo predisposto a divenire uno dei più grandi criminali di quel periodo. […] Quella lontananza dalla realtà e quella mancanza d’idee possono essere molto più pericolose di tutti gli istinti malvagi che forse sono innati nell’uomo».
Così Hannah Arendt conclude sul caso Eichmann nell’Epilogo di La banalità del male. Quello che la Arendt esprime è talmente spiazzante e vero che si potrebbe chiudere qui la riflessione di oggi. Ma si può provare a commentare quello che oggi si sta vivendo, mantenendo calma e lucidità.
Nel lontano 1819, Benjamin Constant spiegò che, a differenza degli antichi, i moderni non desiderano una libertà politica ma una libertà privata. Questo è chiaramente visibile nel comportamento collettivo mostrato in questi mesi: si temono le multe, si vuole restare tranquilli e così ci si ritrova ad obbedire a certe leggi che si credono profondamente incoerenti tra loro, incredibilmente confuse, stupide (confusione e mancanza d’intelligenza vanno spesso di pari passo perché l’intelligenza è sempre accompagnata da chiarezza e distinzione). Come sempre, però, esistono delle eccezioni: alcune persone, soprattutto giovani, sono state multate perché si sono abbracciate in strada o si sono tenute per mano, pur avendo l’accortezza di rimandare i baci al sottoscala di casa. S’immagini la scena: due ragazzi vengono separati per due mesi e, ovviamente, la prima cosa che fanno è abbracciarsi e lo fanno per strada, perché si dicono che sarebbe ipocrita e da stupidi fingere di rispettare le distanze; il poliziotto li vede e punisce il loro atto con una multa di 400 euro che il più delle volte sarà pagata dai genitori, magari senza stipendio. Questo è uno scorcio dell’Italia 2020. Che fare?
In molti, uomini moderni, desiderosi di una calma privatezza, abbiamo creduto che fosse infantile infrangere le regole. Ma oggi ci si trova in situazioni assurde in cui si è chiamati a sembrare stupidi e ignari della realtà: la lontananza dalla realtà, però, è male. Ed è male anche la mancanza d’idee: certo, si possono coltivare idee e convinzioni ma fingere di non averle per stare tranquilli. Però a cosa serve avere idee se le si nasconde?
Ciascuno si comporti con intelligenza e prudenza, senza eccedere nella disobbedienza ingiustificata (anche perché disobbedire sistematicamente è obbedire ad altro) né, però, nella cieca obbedienza. Servono un po’ di audacia, un po’ di franchezza, di serenità nel mettere in pratica certe convinzioni. E sarebbe bello anche ritornare a credere che il bene morale sia il sommo bene, quello a cui occorre mirare in vista della costruzione di una società giusta.
Quindi grazie, ragazzi multati, per averci insegnato che se si obbedisce a una legge stupida si è stupidi. E senza dubbio è meglio essere intelligenti, anche quando questo costa fatica.
12 Maggio 2020 | Stappapensieri
Avverto schiacciante il peso delle discussioni di economia, di aperture di industrie, di numeri di contagi basati su statistiche parziali, di numeri di conti di numeri e di conti. E le donne? E gli uomini? Lo dico forte e chiaro: non possiamo pensare che qualcosa cambi se non sta già cambiando adesso. E le cose, adesso, non stanno cambiando, perché stiamo continuando a dimenticare completamente l’umano. Due sono le cose che mi hanno profondamente urtato in questo periodo e, siccome sono attenta alle parole, sono due semplici aggettivi.
La prima espressione è stata lungamente criticata, ed è «affetto stabile». Ma no, non voglio discutere dell’intera locuzione, ma dell’aggettivo stabile, usato come se instabile fosse sinonimo di inferiore. Per quale ragione un affetto instabile, passeggero, che può accompagnarmi per qualche mese o qualche anno (non lo posso sapere, quindi non posso nemmeno essere certa se un affetto sia stabile o meno) sarebbe per me meno fondamentale di un fidanzato? La stabilità non può essere un criterio per il semplice fatto che, quando si entra nella sfera emotiva e psicologica di milioni di persone, non ci può essere un criterio univoco. Il ragazzino di tredici anni non potrebbe andare dalla propria fidanzatina perché probabilmente quello è un amore destinato a finire, ma quell’amore instabile è per quel ragazzino (che magari vive in una casa di pochi metri con genitori che urlano da mattino a sera) la cosa più importante e salvifica che ci sia.
La seconda locuzione, che mi fa molto arrabbiare, è «lavori essenziali». Essenziale è un attributo carico di secoli di filosofia, e andrebbe usato con grande cautela: esso significa che quella cosa fa parte dell’essenza, cioè dell’identità, della natura di qualcosa: che cos’è questo qualcosa? L’economia? Le persone? La sopravvivenza biologica? Il benessere spirituale? Insomma: essenziale per chi? Parlare di lavori essenziali porta a una pessima degradazione di tutti gli altri lavori e implica una discriminazione. E così penso al potentissimo appello che Stefano Massini ha lanciato a Piazzapulita per denunciare il degrado culturale e umano che sta emergendo da questa situazione emergenziale (per questo vi invito caldamente ad ascoltare le sue parole: https://www.la7.it/piazzapulita/video/io-non-sono-inutile-il-racconto-di-stefano-massini-09-04-2020-318820). Sono stati dimenticati gli attori, quelli che hanno recitato nei film che abbiamo guardato in quarantena, sono stati scordati musicisti e compositori, quelli che suonano e scrivono la musica che ci piace tanto ascoltare: non sono lavori essenziali? Senza questi lavoratori (che lavorano, non oziano!) probabilmente ci sarebbero stati molti suicidi, perché molte persone non avrebbero avuto compagnia. Non si è mai parlato degli artisti, che non potevano lavorare (ma come campano a casa per due mesi?). Sono stati, ancora una volta, gli ultimi, e per questo non illudiamoci che cambieranno le cose che contano sul serio.
L’impressione è che ci siamo trasformati in macchine, in questa pandemia; che ci siamo comportati a lungo come se il tessuto umano, di cui non possiamo non essere fatti, non ci fosse. Abbiamo interpellato gli economisti e i virologi, senza che la medicina e l’economia fossero radicate in un terreno antropologico, quando storicamente la medicina è una branca della madre di tutte le scienze, cioè della filosofia. La sensazione è che ci sia stata tecnica, ma poca umanità. Signori, non voglio dimenticarmi che sono un essere umano, e non fatelo neanche voi. Comprendiamo che è ridicolo illuderci che il distanziamento sociale in famiglia verrà mantenuto per un anno, perché naturalmente non sarà così. Perché ricordiamoci che l’essere umano non è un corpo morto da analizzare, ma un corpo vivo abitato da una mente, anch’essa viva.
14 Aprile 2020 | Stappapensieri
Attesa
Ha un sapore agrodolce questa parola: sa di lentezza, di pesantezza, ma anche di una frizzante gioia infantile, di una corda tesa nel vuoto che piace e non piace. Questo tempo sospeso si allunga a ogni decreto, sembra sempre che girato l’angolo ci sia ancora una via, e poi un’altra. E allora in questo lungo percorso mi sono domandata che senso abbia per me l’attesa. E mi è balzata alla mente quella dolce frase che la volpe dice al Piccolo Principe: «Se tu vieni, per esempio, tutti i pomeriggi alle quattro, dalle tre io comincerò ad essere felice. Col passare dell’ora aumenterà la mia felicità. Quando saranno le quattro, incomincerò ad agitarmi e ad inquietarmi; scoprirò il prezzo della felicità! Ma se tu vieni non si sa quando, io non saprò mai a che ora prepararmi il cuore… Ci vogliono i riti». La situazione attuale è l’opposta di quella raccomandata dalla volpe, perché non sappiamo un giorno e quindi non possiamo colorare le caselle delle date sul calendario. Però è simile a quella descritta dal Vangelo, dove Cristo dice di vegliare perché non sappiamo né il giorno né l’ora in cui saremo chiamati.
Ecco, cosa significa un rito in queste circostanze, che cos’è vegliare? La veglia per me è preparare mente e spirito per concludere questo periodo soddisfatta e felice di me stessa. Per me l’attesa è l’esperienza della pazienza, della fortezza, dell’adattamento: non voglio ripiegarmi in me stessa arrabbiandomi con qualcuno né essere passiva, ma desidero scoprire l’energia che non avevo mai creduto di avere. Forse è questo che significa “prepararsi il cuore”. E adesso il prezzo della felicità è questo periodo difficile, questa sofferenza inaudita per milioni di persone al mondo, che però magari gusteranno ancora di più il sapore della gioia piena.
E poi non smetto di pensare alla sera che precederà il giorno in cui potremo uscire: forse non dormirò perché anche io «incomincerò ad agitarmi e ad inquietarmi», forse sorriderò come non l’ho mai fatto e mi batterà forte il cuore… E solo allora capirò davvero quanto sia stato importante far tesoro di quest’attesa.
20 Marzo 2020 | Stappapensieri
Non scrivo mai in prima persona, ma oggi voglio aprirmi a voi lettori per regalarvi vicinanza e ottimismo.
Giovedì 12 marzo è stato il primo giorno davvero pesante per me: ulteriore rigidità sugli spostamenti, tutto chiuso nelle città, tutti in casa. Non posso più vedere i miei cari né la persona che amo, e allora bisogna ricorrere alle videochiamate con loro e anche con le mie amiche dell’università, che mi mancano. Lo studio in queste giornate è monotono, rallentato, un po’ distratto, non c’è nulla di nuovo sotto il sole, e al mattino apro le persiane sperando sempre che sia una bella giornata per poter tenere aperte le finestre e scaldare la camera mentre studio. E nel mentre penso a tutte quelle persone che vivono in città, in un appartamento, magari in pochi metri quadri…
Ma poi mi rendo conto che l’orizzonte sereno che sto per raccontarvi si apre a ciascuno di noi. La buona notizia è sempre la stessa, quella da ricordare in ogni situazione difficile, perché è un fatto che non dipende da nessuno: il tempo passa. Mi sorprende ogni volta che ci penso, tutte le volte resto a bocca aperta come se fosse la prima: il tempo, questa misteriosa cosa che probabilmente non esiste, questo amico che ci scivola tra le dita delle mani e che non riusciamo mai, mai ad afferrare scorre portandosi via tutte le cose brutte.
Bergson differenziava il modo in cui cogliamo la realtà a seconda che lo si faccia spiritualmente oppure attraverso la misurazione matematica del tempo; secondo lui, la realtà vera risiede dentro lo spirito, dove non c’è nessun tempo divisibile, ma un unico flusso interiore non misurabile. Sono d’accordo. Ma credo che se davvero pensassimo che non ci sia un tempo fuori di noi, impazziremmo: l’anima amplifica sempre ogni cosa, e così le situazioni pesanti sarebbero insostenibili. Invece le lancette dell’orologio camminano, e nell’istante in cui pronunciamo «adesso», Adesso è passato.
Quindi, cari lettori, fidiamoci del tempo, il nostro più caro amico, invisibile, inafferrabile, ineffabile, ma che sempre ci porta con sé. E fate pensieri positivi, superando voi stessi qualora la vostra indole (come la mia) vi porti spesso a rattristarvi. Il tempo non si ferma mai, quindi le opzioni sono due: opporsi ad esso e sprecare le proprie energie nel pensiero che “mancano ancora quindici giorni al 3 aprile” oppure salire sul treno del tempo che passa a prenderci, tutti insieme, magari mantenendo la distanza di qualche chilometro, ma felici perché sul treno ci siamo tutti, proprio tutti!
… E perché Oggi, quatto quatto e senza che nemmeno ve ne accorgiate, sta già scivolando via…
14 Marzo 2020 | Stappapensieri
Nel sesto capitolo di quello splendido testo del 1979 che è Il principio responsabilità, Hans Jonas riflette sull’importanza dei «passatempi senza risultato». Scrive: «L’interesse dello Stato al passatempo come occupazione e non agli eventuali risultati materiali dell’attività è in effetti vitale, non tanto in vista della salvezza dell’anima degli occupati, quanto piuttosto per amore dell’ordine generale. Infatti il vuoto dell’inattività, in questo caso dunque dell’ozio assistito, potrebbe anche essere colmato diversamente, e proprio con gli stessi mezzi verso i quali spingono le privazioni determinate dalla povertà della disoccupazione: la tossicomania, la ricerca di sensazioni eccitanti di ogni tipo, la criminalità».
In parole più semplici: senza un passatempo che davvero appassioni, la persona rischia di colmare il proprio vuoto con mezzi pericolosi per la sicurezza dello Stato (la dipendenza dal gioco, l’alcolismo, la tossicodipendenza, la violenza…). Il capitalismo ruota invece esclusivamente attorno al capitale, al denaro. Questo non significa che altre forme di vita e di politica non ruotino «in fin dei conti» intorno ai soldi, perché la politica è in parte originata dall’uomo: probabilmente è l’essere umano a cercare potere e soldi. Sto però dicendo che per lo Stato è vitale la promozione del benessere davvero profondo dei suoi cittadini, e non solo del benessere economico: ogni forma di violenza e di reato prende le mosse da una situazione esistenziale problematica ed è proprio quest’ultima a dover essere affrontata e risolta. Ecco che così si comprende la grandezza di quei grandi imprenditori del Novecento italiano, come Adriano Olivetti e Luisa Spagnoli: lì il capitalismo era indubbiamente all’opera, ma, a differenza di quanto accade oggi, era accompagnato dalla lungimiranza: l’operaio non era sfruttato non solo e non tanto per un’integrità morale del datore di lavoro, ma perché sfruttare significava esaurire prima le risorse umane; non è quindi un’etica del lavoro fine a se stessa o economicamente dannosa, ma un’etica praticamente utile.
A livello sociale, politico, economico quello che manca oggi è proprio la lungimiranza e prima ancora la responsabilità, perché responsabile è proprio quell’azione che sa farsi carico delle conseguenze, prevedendole e agendo di conseguenza. Ciò che rende grande un imprenditore, ma anche e soprattutto un politico, è proprio l’allenata abilità a vedere più in là rispetto a quanto sanno fare le persone comuni, a calcolare gli effetti di una decisione sempre e soprattutto su ampia scala.
10 Febbraio 2020 | Stappapensieri
Regno Unito, 1859: Charles Darwin pubblicò, un po’ spaventato, Sull’origine delle specie per selezione naturale, ovvero la conservazione delle varietà avvantaggiate nella lotta per l’esistenza. Le reazioni del pubblico andarono da un grande interesse a una decisa condanna di ateismo, perché Darwin stava contraddicendo il racconto biblico della Genesi: dal 1859 l’uomo non era più creato da Dio, ma animale come tutti gli altri. È una teoria che oggi si conosce, che si dà per scontata e che forse non si approfondisce neanche. Ma davvero ci si rende conto delle conseguenze esistenziali, morali e religiose che tale fatto comporta?
Dagli anni ’80 circa si è iniziato a discutere molto di ecologia e ambiente e nel seno di quelle riflessioni è nata l’ecologia profonda. Essa si basa sull’assunto che la vita umana non valga più di quella degli altri animali, ma che ogni essere vivente sia ugualmente degno di vivere e di vivere in una rispettata biodiversità. Probabilmente la scoperta darwiniana ha offerto solide ragioni a questa direzione: in effetti, se si vuole prendere Darwin sul serio, allora il problema ambientale di oggi non è un problema dell’uomo, ma di tutte le specie viventi nel loro complesso; il punto non deve più essere non inquinare o non distruggere le foreste perché il suolo e gli alberi sono utili per l’uomo presente e futuro, no: il punto dev’essere rispettare l’ambiente perché è giusto in sé, perché in sé è uno sbaglio permettere che le api scompaiano. Quello dell’ecologia profonda è forse in prima battuta un modo di pensare e di sentire emotivamente l’ambiente: prima di arrivare ai coraggiosi gesti ambientalisti, l’ecologia profonda invita a considerare il ragno di campagna come un essere vivente che sta vivendo nel luogo a lui idoneo e che ha tutto il diritto di vivere, esattamente il diritto che ho io, essere umano. D’altronde, perché io sì e lui no? (Vuole essere una provocazione: la risposta sul piano evoluzionistico tirerebbe in ballo il successo del più adatto).
L’ecologia profonda richiede uno sguardo monistico verso la realtà: la Vita è una, ed essa si manifesta in un numero sterminato di specie. I sistemi filosofici monistici, come quello spinoziano, insegnano a non parcellizzare il reale, ma a vederlo come un tutto organico la cui potenza propulsiva si esprime in infiniti modi diversi. Per una serissima urgenza morale, spirituale e complessivamente esistenziale, l’essere umano è chiamato ad esercitare occhi monistici e a ripetersi ogni giorno: «La Vita è una, e io non sono che uno degli infiniti punti di sviluppo della realtà».