I settantun anni dell’Unione Europea

Il 9 maggio 1950 l’Europa intraprendeva il cammino che avrebbe portato, sette anni più tardi, alla nascita dell’Unione Europea. Esattamente settantun anni fa, l’allora ministro degli Esteri francese, Robert Schuman, tenne a Parigi un discorso in cui proponeva con forza la riappacificazione tra Francia e Germania, che avrebbero dovuto mettere in comune le proprie risorse di carbone e acciaio: nel 1951 nascerà così la prima comunità europea, quella del carbone e dell’acciaio (CECA). Nella prospettiva di Schuman, tale strategia avrebbe fatto sì che «una qualsiasi guerra tra la Francia e la Germania diventi non solo impensabile, ma materialmente impossibile».

È superfluo sottolineare la gravissima crisi politica e sociale che l’Unione Europea (come l’intero mondo, del resto) non riesce a superare da anni: mancano decisioni forti e coraggiose rispetto al mar Mediterraneo che sempre più sta diventando un cimitero, rispetto all’emergenza ambientale che non si vuole affrontare per gli enormi interessi economici in gioco, rispetto a politiche lavorative che almeno tentino un’altra direzione rispetto a quella capitalista, che sta ormai dando prova del proprio fallimento. È difficile difendere ancora l’istituzione dell’Unione Europea: la si vorrebbe sociale mentre rivela continuamente la propria natura meramente economica. Qui non si vuole elogiare una realtà politica che andrebbe infatti conosciuta in modo specifico e approfondito; si vuole piuttosto ricordare la grandezza del sogno di quei politici che oltre settant’anni fa trovarono uno stratagemma per evitare una nuova guerra tra i paesi del continente. Diedero prova della propria creatività politica, proprio come ricorda l’apertura della dichiarazione di Schuman: «la pace mondiale non potrà essere salvaguardata se non con sforzi creativi, proporzionali ai pericoli che la minacciano». D’altronde quella politica è un’arte, che, in quanto tale, si nutre della capacità immaginativa dei suoi attori.
Ecco che allora la politica tutta e, nello specifico, quella dell’Unione Europea, dovrebbe sapersi anche reinventare per poter rispondere alle domande cogenti che ogni tempo pone con una propria specificità. Come ha brillantemente messo in luce Tomaso Montanari a Piazzapulita poche settimane fa, vi sono temi ed emergenze che restano costantemente fuori dal dibattito politico. Sono i problemi dei sommersi, non dei salvati: dei migranti, dei lavoratori sfruttati, delle donne vittime di violenza e di discriminazione sul lavoro, dei poveri. Sono i dolori di un’enorme porzione di popolo, che però restano ostinatamente esclusi dall’agenda politica nazionale e sovranazionale. Sono vite di cui però non dovrebbero occuparsi soltanto gli intellettuali, ma soprattutto chi esercita l’arte del buon governo.

È tardissimo per recuperare il troppo tempo perduto, che non tornerà mai, ma almeno si può evitare di perderne ancora. È sempre più tardi, ma con azioni coraggiose e concrete forse si può salvare ancora qualcosa: «l’Europa non potrà farsi in una sola volta, né sarà costruita tutta insieme; essa sorgerà da realizzazioni concrete che creino anzitutto una solidarietà di fatto».

Apologia della disobbedienza a servizio della libertà

Da sempre siamo portati a pensare che il comportamento obbediente sia quello più conforme alla vita associata, considerando invece la disobbedienza il capriccio egoistico di chi non accetta l’esistenza di regole che limitino la sua libertà al fine di garantire la pace e il benessere sociale. La storia, però, è come sempre testimone sia della regola sia dell’eccezione che la conferma. 

È da poco trascorso il 25 aprile, data che ricorda la liberazione dell’Italia dal regime nazi-fascista, liberazione avvenuta grazie ai partigiani, i “disobbedienti” per eccellenza. Abituati a considerare la libertà di parola, di pensiero e di stampa come un dato di fatto, consegnatoci pronto all’uso da un passato che ci sembra lontano e irripetibile, perdiamo di vista come, in realtà, quel passato oppressivo sia ancora la condizione presente in molte parti del mondo.
La domanda sorge spontanea: se il potere a cui si è sottomessi è ingiusto, non sarebbe meglio disobbedire? E se sì, perché nessuno lo fa? Questo paradosso numerico per cui non si riesce a spiegare come tanta gente non si ribelli al potere illimitato di uno solo è presentato in maniera molto forte da Étienne de la Boétie con il concetto di «servitù volontaria». Sono i dominati i responsabili della propria condizione di sottomissione, poiché scelgono l’obbedienza e la deresponsabilizzazione che essa porta con sé, dimenticando la propria libertà naturale e rinunciando ad opporsi ad un potere che potrebbero facilmente annientare semplicemente smettendo di obbedire.
Fin dove è accettabile che si spinga l’obbedienza? E fino a che punto essa coincide con la giustizia? Il suo lato oscuro è venuto fuori in maniera particolare con i totalitarismi e i genocidi del XX secolo: esso è stato determinato proprio dallo scollamento tra azione e responsabilità che ha dato origine a figure come l’Adolf Eichmann descritto da Hannah Arendt, il mostro di obbedienza incarnato dal funzionario zelante. La complessa burocratizzazione e gerarchizzazione del Reich, infatti, è stata capace di produrre una completa deresponsabilizzazione del singolo all’interno di una colpevolezza generalizzata e frazionata in compiti e mansioni specifiche, in cui chi agisce si considera attore, ma non autore di azioni che gli vengono imposte dall’alto. Il responsabile del trasporto degli ebrei nel frangente del loro sterminio ad opera dei nazisti, Eichmann appunto, si giustificò, nel corso del processo di Gerusalemme a suo carico, dicendo di non aver fatto altro che eseguire gli ordini: con i processi ai gerarchi nazisti, forse per la prima volta, si è punito qualcuno non per aver disobbedito, bensì per aver obbedito.
Questo porterà anche la psicologia ad interrogarsi sul tema dell’obbedienza, e nel 1961 Stanley Milgram avanzerà un esperimento di psicologia sociale che metterà in luce come ciò che paralizza la disobbedienza tra gli uomini sia l’autorità, che, pronunciando ordini apparentemente legittimi, sembra assumersi tutta la responsabilità ed avere il controllo totale delle azioni altrui. L’obbedienza cieca non è però l’unica risposta possibile di fronte ad una situazione di palese ingiustizia: ad esempio Henry David Thoureau incarna la disobbedienza civile, riscoprendosi come individuo insostituibile e mettendo da parte il proprio essere cittadino, mero ingranaggio facilmente sostituibile della macchina statale, ponendo il rispetto della propria morale interiore al di sopra di qualunque legge. 

Non sempre, dunque, l’obbedienza corrisponde alla giustizia e la disobbedienza al suo opposto: per quanto l’obbedienza permetta l’ingresso in un regime di deresponsabilizzazione, è usuale credere che l’irresponsabilità derivi dalla disobbedienza. Ma la responsabilità è un processo di soggettivizzazione, in cui l’individuo si assume il carico del proprio fardello, fardello che spesso lo porta a ricercare il sollievo della delega proprio nell’obbedienza. Laddove Eichmann si è fatto autore di azioni abominevoli in nome di un’obbedienza cieca ad ordini di un regime tanto forte quanto disumano, è stata invece l’opposizione partigiana a liberare l’Italia da una dittatura fondata sul meccanico consenso a norme la cui giustizia non è mai stata messa sufficientemente in dubbio.
Questa riflessione, però, non vuole essere una giustificazione della disobbedienza in toto, poiché, come l’obbedienza, anch’essa può rivelare un lato oscuro, quello dell’egoismo mascherato da rivoluzione, che, invece di garantire una libertà generalizzata, impone semplicemente un nuovo ordine autocratico. Obbedienza e disobbedienza sono dunque, in realtà, l’una la naturale evoluzione dell’altra, e la libertà e la giustizia alla base della società sono in pericolo sia di fronte alla durezza della sottomissione portata all’estremo dell’alienazione sia tra le mani di una disobbedienza civile che perde di vista la moralità e il bene sociale. Il rispetto dell’uomo e della sua natura libera sono portatori di un valore che va oltre qualunque legge.

Discriminazioni

Negli ultimi anni si sono fatte sentire le battaglie contro il razzismo, molte persone si sono spese per ribadire una volta per tutte l’uguaglianza tra gli esseri umani e il dovere di rispettare chiunque, indipendentemente dal colore della pelle. Molti, si spera la maggioranza, concordano sul grande valore di queste lotte civili.

Nell’Ethica Spinoza scrisse parole che oggi suonano come la definizione di razzismo, anche se forse non era nell’intenzione del filosofo olandese:

«Se qualcuno è stato affetto da un altro, di una classe o di una nazione diversa dalla sua, da una letizia o da una tristezza accompagnata, come causa, dall’idea di quest’altro sotto il nome generale della classe o della nazione, egli amerà o avrà in odio non solo costui, ma anche tutti quelli della medesima classe o della medesima nazione».

Il concetto è semplice: conosco una manciata di persone che condividono tra loro una certa caratteristica, magari negativa, e allora assumo che quel tratto sia comune all’intero popolo di cui quelle persone sono parte. Detto questo, chi può dirsi fino in fondo non razzista?

Se, infatti, incrociando una persona nera, la mia mente si sofferma sul colore della sua pelle, sto discriminando. Spesso ci si lascia guidare da ragionamenti complessi sulla questione, dimenticandosi però che il razzismo è il prodotto di un meccanismo tanto banale quanto pericoloso: tutto sta nel diverso colore della pelle. Tutto sta in un tratto somatico, un elemento estetico, come potrebbe essere il colore degli occhi o quello dei capelli. Un colore viene associato a una nazionalità, come se poi questa connessione fosse matematica. Addirittura quel colore ci allontana, quando non ci spaventa. Spesso ci si illude di essere fuori da tutto questo: se però si riflette su questo meccanismo mentale, ci si accorge di non essere poi così puri e giusti. 

Il medesimo discorso può essere fatto a proposito dell’omofobia: se mi accorgo che una persona è omosessuale e penso, in modo più o meno esplicito e anche senza volerlo, che quella persona non ha nulla a che fare con me o che, insomma, siamo diversi, sto discriminando. Così sarebbe bene essere onesti e capire che ricorrere a nomignoli per indicare una persona omosessuale è discriminatorio, sebbene si presuma di farlo scherzosamente: dietro il linguaggio comico si cela il più delle volte un pensiero reale.

Qualsiasi razzismo, qualsiasi fobia sociale, in quanto generalizzazioni, non sono etici né realisti. Ogni persona è infatti unica e irripetibile; ogni persona è se stessa e la propria storia, e non quella del gruppo sociale di appartenenza. La lotta alla discriminazione è una lotta che deve essere onesta e profonda, che deve essere portata avanti nell’atteggiamento mentale individuale prima che nelle piazze; è un esercizio continuo, un allenamento costante a cambiare sguardo, a sbattere le palpebre per tornare alla realtà e capire che quello che vedo è solo un colore della pelle, è solo un orientamento sessuale.

Come i miei.

Status morale e animali non umani

«Ciò che dobbiamo fare è includere gli animali non umani nella sfera della nostra considerazione morale e cessare di vedere le loro vite come spendibili per qualunque futile scopo ci capiti di avere.»
(Peter Singer, Liberazione Animale)

Negli ultimi anni il numero di persone vegane e vegetariane è aumentato in maniera significativa, e anche la dieta a base vegetale, spesso fondata su una scelta etica o ambientale, trova una sua base teorica in filosofia. 

L’etica animale nasce nel mondo anglosassone tra gli anni ’60 e ’70 a partire da un gruppo di studenti di Oxford. Problema fondamentale di tale etica applicata è l’estensione dello status morale agli animali non umani, il quale definisce quali siano gli individui verso cui è necessario fare considerazioni morali dirette e a cui riconoscere dei diritti morali. 

È possibile immaginare il campo della morale come un circolo in espansione in cui, nel corso del tempo, entrano ed escono entità che vengono considerate degne di attenzione morale o meno. In passato, all’interno di questo circolo non rientravano donne, bambini e individui appartenenti ad etnie differenti da quella occidentale, ma nel corso del tempo, con il progressivo allargamento dei diritti morali a tutta l’umanità, ha cominciato a farsi spazio un problema di maggiore ampiezza: questo cerchio della moralità dovrebbe espandersi anche oltre i confini di specie, arrivando ad includere gli animali non umani? 

Il problema risiede nel tracciare una linea netta che definisca il criterio secondo cui applicare uno status morale a determinate entità e non ad altre. Si sono sviluppate principalmente due diverse teorie al riguardo: una che sostiene che dovremmo essere portatori di una serie di doveri diretti nei confronti degli animali e un’altra per la quale, invece, avremmo semplicemente una serie di doveri minimi nei loro confronti. 

Immanuel Kant, per esempio, considerando gli animali come esseri privi di una coscienza di sé, ritiene che non abbiamo, in quanto animali umani, doveri diretti nei loro confronti, ma solamente indiretti. Doveri che, quindi, non riguardano gli animali ma l’umanità, e la cattiva reputazione che il singolo guadagnerebbe dal maltrattamento gratuito degli animali agli occhi degli altri uomini. 

Jeremy Bentham sostiene, invece, che il criterio per l’applicazione dello status morale debba essere la “senzienza”, ovvero la capacità di provare piacere e dolore, allargando moltissimo la sfera di esseri a cui dovrebbero essere concessi dei diritti morali. 

Da Bentham in poi la teoria evoluzionistica ha avuto grande rilievo nell’etica animale, sottolineando come alcune capacità e caratteristiche umane siano presenti in diversi gradi di evoluzione anche in altre specie animali, rendendole di conseguenza portatrici di diritti morali diretti. A tal proposito Richard Ryder conia il termine “specismo” per indicare come gli uomini applichino una discriminazione arbitraria nei confronti degli animali, assimilabile a quella sessuale o razziale: sulla base di quale distinzione, che a livello biologico di fatto non esiste, consideriamo il cane intoccabile e il maiale carne da macello?

Non poche sono le obiezioni di coloro che scelgono una dieta onnivora a chi difende i diritti degli animali. Una di queste è basata sul cosiddetto “argomento della dispensa”: partendo dal presupposto che un gran numero di animali sarebbe morto se essi non fossero stati selezionati e allevati dall’uomo, il semplice fatto che esistano rappresenterebbe un valore morale positivo. Di conseguenza, fintanto che essi avranno una vita, il vero amante degli animali sarà chi li usa (e dunque li mangia), poiché consente loro di esistere per il suo fine, quando altrimenti non sarebbero esistiti affatto. Ma è forse l’esistenza un bene in grado di compensare il fine per il quale essa stessa viene generata (ovvero la morte per macello)? 

Henry Salt critica fortemente questo argomento, non nelle sue premesse logiche, ma nella sua applicazione pratica: credere che mangiare e usare gli animali per i propri fini umani sia in realtà un atto di benevolenza nei loro confronti, come molti almeno suppongono per trovare una giustificazione ai propri atti, è assurdo: non ha senso pensare che il semplice dare la vita a qualcuno che altrimenti non l’avrebbe sia un atto di benevolenza nei suoi confronti. L’argomento considera un soggetto ipotetico, presupponendo che il dono della vita possa essere considerato un beneficio per l’individuo che non esiste ancora. A tal fine, però, è necessario che l’essere non ancora esistente abbia un interesse ad essere portato in vita, ma la vita non può essere considerata un bene o un male in sé a priori. 

Nella prospettiva di un futuro che, secondo molti, ci vedrà trasformati, per la maggior parte, in vegani o in mangiatori di insetti, è bene soffermarsi sui motivi profondi di un’alimentazione forse meno egoista e sicuramente più sostenibile. 

L’uomo é ancora un animale sociale?

L’ultimo anno ha messo a dura prova l’umanità: la crisi sanitaria ha spezzato una quotidianità che era fatta di incontro, scontro e scambio sociale. Moltissime persone si sono trovate a rimanere sole e a interrompere qualunque tipo di interazione fisica con altri individui, al fine di combattere un virus che si nutre proprio della naturale socialità umana. E se non bastassero le videochiamate a sostituire il bisogno sociale che caratterizza l’uomo?

Aristotele parla dell’essere umano descrivendolo come un animale “sociale”, utilizzando un semplice aggettivo che ha la capacità di distinguerlo nettamente da tutti gli altri animali, i quali, fondando la convivenza con i loro simili su un mero rapporto di forza, non sono in grado di sfruttare l’intelletto (nous) al fine di dar vita a relazioni che, per quanto fondate sulle naturali differenze tra singoli, non generino conflitto e competitività, ma collaborazione.

Per Platone, poi, la polis stessa, paradigma della comunità in generale, si origina a partire da una necessità umana di convivere e cooperare con i propri simili, al fine non solo di sopravvivere, ma di perseguire l’esistenza migliore possibile. La città, dunque, si svilupperebbe a partire dall’intrinseco bisogno di aiuto che caratterizza la natura umana e si fonderebbe sullo scambio reciproco di prestazioni.

«Nasce dunque la città, io ritengo, perché di fatto ciascuno di noi non è autosufficiente, ma è carente di molte cose.» (Platone, Repubblica)

Ciascun individuo, infatti, è caratterizzato da molteplici bisogni e dall’incapacità di soddisfarli tutti in prima persona, in quanto ciascuno dispone di attitudini naturali a svolgere bene solo una specifica attività, non molte. Nessuno, preso singolarmente, è dunque autosufficiente, ma è condizione necessaria per la sua sopravvivenza l’aggregazione in un unico insediamento con altri individui capaci di adempiere a quei bisogni specifici che lui da solo non può soddisfare. Kallipolis, la città ipotizzata da Platone, è sì una città utopica, basata sugli ideali di collaborazione e convivenza tipici dell’antica Grecia, ma l’uomo, nel suo intrinseco bisogno di collaborazione, contatto e scambio, rimane lo stesso nel corso del tempo.

Per Thomas Hobbes, filosofo del Seicento, infatti, la necessità di una vita associata irromperebbe tra gli uomini a causa della naturale conflittualità che fa sì che le relazioni, se svincolate da qualunque contesto sociale e non regolate da leggi, generino uno stato di guerra generalizzata e una condizione di homo homini lupus, in cui l’individuo diventa un pericolo per i suoi simili. Per questo la maggior parte degli uomini avrebbe deciso di rinunciare a quella libertà che, nello stato di natura precedente alla creazione delle comunità e dei governi, sarebbe coincisa con la possibilità di agire indipendentemente dagli effetti delle proprie azioni sugli altri. Sarebbe appunto a partire da questo patto tra uomini liberi, che volontariamente rinunciano a parte della loro libertà per sottomettersi ad un potere centrale che regoli con leggi e punizioni la vita associata, che si è originata la società e insieme ad essa la possibilità di intraprendere dei rapporti di scambio e collaborazione volti alla pacifica convivenza e al mantenimento della sicurezza della comunità.

Il bisogno di instaurare dei rapporti sociali, e di conseguenza di stipulare leggi che ne garantiscano la conservazione pacifica, sarebbe radicato nell’esistenza associata dell’uomo e dunque perfettamente in linea con le regole che, nel corso dell’ultimo anno, i diversi paesi hanno messo in atto al fine di mantenere la sicurezza sanitaria della società ma che in qualche modo vanno a modificare i rapporti tra i singoli. Esse sono forse l’ultimo esempio di come l’evoluzione (tecnologica e non) sia stata in grado di permettere la permanenza di un rapporto sociale e di una vita associata anche a distanza e con l’ausilio di strumenti tecnologici sostitutivi della presenza fisica.

Da sempre è noto come l’uomo sia in grado, per natura, di adattarsi a molti dei cambiamenti che caratterizzano la sua vita, che siano essi naturali o artificiali. I social network hanno sicuramente allentato la necessità di incontrarsi concretamente ma sarà mai questo sufficiente per un essere sociale che è anche, in primis, “animale”? È forse questo il futuro delle relazioni umane? O è semplicemente una parentesi temporanea dovuta alla necessità del momento? Probabilmente una maggiore tecnologizzazione dei rapporti umani stava già avvenendo, in maniera più graduale, a partire dalla creazione dei social network, ma ritengo che l’animalità, che comunque caratterizza l’uomo in quanto essere naturale, necessiterà sempre di quel contatto reale e corporeo che, ancora, la tecnologia non è in grado di fornire.

a cura di Denise Arneodo 

Impegno e concentrazione

A giudicare dai racconti degli insegnanti che lavorano nella scuola primaria e in quella secondaria, pare che i bambini e i ragazzi abbiano enormi difficoltà a concentrarsi e a impegnarsi: in molti casi vengono rilevati indifferenza nei confronti di quello che si deve fare, impazienza, totale o parziale mancanza di voglia. Soprattutto tra gli adolescenti c’è probabilmente il desiderio di fare altro, l’impressione che quello che viene richiesto durante l’ora di grammatica italiana o di matematica sia del tutto inutile. Certo, la scuola italiana avrebbe bisogno di essere riformata sotto molti aspetti, perché il tessuto sociale e giovanile è cambiato e, di conseguenza, anche la pedagogia dovrebbe intraprendere strade parzialmente diverse. Ma questo è un discorso estremamente complesso che richiede solide competenze e grande sensibilità.

Uno spunto di riflessione di ampio respiro può però essere afferrato. La concentrazione e il desiderio di impegnarsi rappresentano due valori davvero utili per la formazione individuale. Lo sono sia nelle situazioni quotidiane, in cui ci si deve ricordare di pagare le bollette e di impostare la sveglia per il mattino (e, perché no, anche di dare un bacio ai propri figli o al proprio marito o moglie che hanno avuto una giornata pesante), sia nelle circostanze lavorative: in qualsiasi mestiere, che si sia chirurghi, professori, attori o meccanici, la concentrazione e la precisione sono fondamentali. E lo sono non solo nelle attività del mestiere che si compiono più volentieri, ma anche in quelle che proprio non piacciono. Così scriveva Etty Hillesum nella pagina di diario datata Mercoledì 12 marzo [1941]: «non devi assolutamente chiederti se ami quella materia o meno, se per te ha un senso o no: fa parte dei tuoi studi, del lavoro che hai scelto, quindi non c’è proprio motivo di pensare se domani o “un giorno” lo svolgerai; devi iniziarlo oggi».

Ogni piccolo lavoro è uno scalino per avanzare nel proprio percorso; non importa quanto basso sia quel gradino, ciò che conta è che venga salito nel migliore dei modi ed esprimendo tutte le proprie possibilità. Come scriveva ancora Hillesum, «l’esercizio di traduzione che svolgerai è più importante dei meravigliosi pensieri su Tolstoj e Napoleone che di recente si sono presentati nella notte». L’azione compiuta con impegno e con fatica ripaga di tutto, perché, in fondo, «lavorare con concentrazione è la cosa più bella che ci sia».

 

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