23 Maggio 2017 | Si può fare
Lo scriviamo da mesi, che SI può fare. Raccontiamo di start up, realtà imprenditoriali, persone che credono in un’idea e si dedicano ad essa fino a trasformarla in qualcosa di concreto.
Lo scriviamo da mesi. Lo abbiamo scritto fino a quando abbiamo iniziato a crederci.
E oggi, uno dei tanti lunedì mattina dal risveglio difficile, torniamo alla vita reale dopo un weekend in cui Si può fare è diventato il nostro primo pensiero.
A Cuneo, Piazza Foro Boario e i locali di Ping sono stati il teatro di Io Sto nel Mondo, il terzo evento di 1000miglia. Che è iniziato venerdì sera sotto una pioggia quasi surreale, e il concerto di Cecco e Cipo che all’ultimo secondo si è sposato all’interno del Baladin, e si è concluso sabato pomeriggio, con un sole che ci ha scottati tutti e che ha reso quasi invisibile lo schermo dello spettacolo Parole Note.
Tra questi due momenti, per noi è stato un alternarsi di stanchezza, emozione, ansia e poesia. E speriamo che per voi sia stato semplicemente un bel modo di stare nel mondo.
E allora in questo spazio non voglio raccontarvi di un’altra start up. Perché in questo lunedì mattina, credo di dovere soprattutto dei Grazie.
Ai miei compagni di viaggio, innanzitutto, a chi ha curato l’evento da quando era solo un’idea fino a quando si è trattato di spostare sedie, giornali e strumenti musicali, a chi ha scritto, corretto, impaginato il numero 9 della rivista, a chi in questi due giorni ha ripetuto che Si può fare.
Agli ospiti e al pubblico, ovviamente, per aver reso possibili interventi pieni di idee e di vita.
Alla cooperativa sociale Ping, per averci ospitato nei loro locali (o più precisamente, per averci permesso di colonizzarli). Abbiamo trovato, oltre ad ambienti splendidi, una disponibilità e una voglia di credere in progetti come il nostro fuori dal comune.
Sarebbe necessario ringraziare ancora un centinaio di persone, perché ognuna di esse ci ha permesso di continuare a credere che, davvero, Si può fare.
E perché forse è questo il senso di questa rubrica. Raccontare le storie di chi ci crede e lo dimostra concretamente, e parlare di chi, come Ping, offre degli strumenti per farlo. Tutto per accendere in persone nuove, com’è successo in noi, quel desiderio di rendere concreta un’idea, e per vederla nascere.
13 Maggio 2017 | Si può fare
“Il 12 settembre 1940 quattro ragazzini di Montignac, in Francia, inseguendo il loro cane smarrito nel bosco, trovarono l’ingresso di una grotta. Vi entrarono per recuperare il cane e scoprirono dei dipinti rupestri. Fu così che regalarono al mondo uno dei più grandi capolavori della storia dell’umanità.”
È con questa breve storia che l’impresa Heritage, nata a Torino nel 2013, ci accoglie nel proprio sito web. Una storia, che parla di scoperte e di regali, di voglia di conservare tutto ciò che la memoria collettiva ha da offrire.
Una storia, perché in fondo, tutta l’umanità è mossa dall’esigenza di raccontare.
Dai dipinti rupestri alle enciclopedie, dai romanzi ai trattati di chimica, dalle immense biblioteche polverose, ai musei, agli archivi infiniti che possiamo comprimere su un hard disk: sono tutti tentativi di lasciare una traccia.
Heritage si basa sul bisogno di conservare le storie che ci raccontano dal passato, valorizzarle e crearne di nuove.
Per questo offre servizi legati principalmente a quattro Concepts.
Smart Cultural Heritage ha l’obiettivo di ampliare ed arricchire le nostre esperienze durante una visita ad un museo, una mostra o un evento culturale. Quanti di voi, camminando per il Louvre, hanno visto la Monna Lisa dal fondo della stanza, magari in punta di piedi per guardare oltre le teste dei visitatori? Proprio per evitare che l’accessibilità delle opere risulti limitata e insoddisfacente, il servizio di Heritage mette a disposizione approfondimenti, dati di contesto e personalizzazioni, che permettano all’utente di godere al meglio della propria esperienza. Gli strumenti di tecnologia mobile applicati al settore della valorizzazione dei Beni Culturali completano l’opera, rendendo il servizio semplice e accessibile.
Il secondo ambito è Heritage Content Management, che lavora allo sviluppo di modelli di esplorazione dei contenuti culturali, che a partire da database conformi agli standard internazionali di documentazione e archiviazione, rendono la fruizione intuitiva e centrata sull’utente. Per evitare, come l’impresa stessa descrive nel proprio sito, che le enormi fonti di dati che si trovano sul web non restino nascoste e inutilizzate, proprio come i vecchi volumi impolverati degli scaffali più alti di una biblioteca.
Il terzo servizio è Cultural Value Proposition, che si basa sul fatto che l’archivio di un’impresa o istituzione, con il suo patrimonio di notizie e documenti, può nascondere testimonianze che meritano una valorizzazione storica e culturale, con la possibilità, tra l’altro, di ottenerne un ricavato economico. “Il patrimonio culturale è la prima comunicazione di un impresa, Ente o Istituzione. Occorre creare un legame affettivo tra il vasto pubblico e l’oggetto”, afferma l’impresa. Per questo realizza strumenti di comunicazione, fruizione e brand marketing, con l’obiettivo di promuovere il patrimonio culturale come motore dell’economia.
Infine, Heritage offre, all’interno della sezione Training, Research & Publishing, opportunità di formazione come master, corsi specialistici e tirocini, attraverso la collaborazione con università, associazioni culturali e fondazioni italiane.
L’impresa è anche una casa editrice: non può mancare, infatti, la possibilità di confrontarsi e comunicare, di creare qualcosa di nuovo, e di offrire contributi a chi opera nei beni culturali.
Se da bambini scriviamo un diario, se teniamo un blog, se sentiamo la necessità di raccontarci in un romanzo o in un post di Facebook, è perché crediamo nel potere della memoria. E se questo vale per ognuno di noi, a maggior ragione è importante riconoscere questo valore a livello universale. E sapere che c’è chi ha deciso di scommettere sui ricordi dell’umanità, creando un’impresa che si occupa di conservarli, è in qualche modo rassicurante.
7 Maggio 2017 | Si può fare
Questa è la storia di un litro di olio di nome Esausto. Un olio qualunque, che non si distingue dalla massa degli altri oli, né è ricercato come quello Extra vergine, insomma è un idrocarburo tranquillo, di quelli che pretendono poco dalla vita, solo di stare alla luce del sole. Lo conoscete anche voi, di solito viene a trovarci tutte le volte che a cena o a pranzo si decide di preparare le patatine fritte o una frittura di pesce. Non mangia, ne viene mangiato. Sta buono in padella e poi se ne va accompagnato cordialmente all’uscita secondaria, quella bianca in porcellana del bagno di casa. Saluta con un “plof” e segue lo sciacquone nella rete fognaria. Nel buio delle tubature cerca di uscirne, galleggia, se può, sulla superficie e si fa trasportare dalla corrente. Esausto non sa cosa fare, è impotente di fronte a quel flusso di acque reflue, diventa sempre più piccolo a causa delle crepe che lo catturano. Consumato dal lungo tragitto, rivede la luce in vasche all’aperto. Percosso da griglie e filtri, finalmente galleggia in tranquillità, una calma apparente come quella che prova un naufrago su una chiatta nel bel mezzo dell’oceano. Ed in questa calma che si rende conto che il sole di fa sempre più vicino – non potrebbe chiedere di meglio- catturato da bolle d’aria miste a saponi (tensioattivi) vola via nella vasca accanto, non consapevole del fatto che questa sarà l’ultima volta che potrà riveder la stella a noi tutti tanto cara.
Una storia, in effetti, senza capo ne coda. L’ho scritta per stimolare l’attenzione riguardo l’olio da cucina che normalmente scarichiamo nel water. Vi siete mai chiesti dove va a finire e se può causare problemi? Devo ammettere che pure io l’ho mai fatto, è un gesto che ho sempre fatto sovrappensiero prima di mettermi a lavare le stoviglie. Neppure mi sono mai posto il problema di come vengano trattate le acque con i nostri escrementi o quelle del lavandino ed ,allora, me lo sono immaginato il viaggio dell’olio scaricato nel water. Senza andare troppo nei dettagli, basta un semplice ragionamento per comprendere che, se la vita si basa sul’acqua, l’olio, che è il suo opposto, non aiuta di certo la natura. Blocca tutti quei meccanismi che si attivavano con l’acqua, anche soltanto il reperimento delle materie prime di una radice. Se ci sono delle perdite nelle tubature, gli oli miscelati con le acque fuoriuscite si infiltrano nel terreno e raggiungono le radici delle piante o falde acquifere contaminandole. Non aiuta neanche le macchine progettate per pulirle, dato che l’olio si pone sulla superficie delle vasche di sedimentazione e non permette le reazioni chimiche per trattarle. Questo impone un passaggio in più nel processo, che implica costi di manutenzione e costi di smaltimento, che ricadono su di noi. Lo stesso vale per la raccolta ecologica, se fatta bene permette di abbassare i costi di smaltimento dei rifiuti dato che possono essere venduti alle aziende. Il rifiuto è una risorsa da sfruttare, come è il caso della MPOLI s.r.l., azienda creata dal Geometra Perletto Massimo nel 2012 che permette la raccolta degli oli esausti e li trasforma in lubrificanti, saponi e altri prodotti sfruttando le conoscenze acquisite dalle ricerche che ha condotto sui vecchi metodi per la produzione di saponi e detergenti in passato. Dato che il riciclo non puo’ che essere l’unica strada per poter mantenere il nostro stile di vita, impostare un idea di impresa in questo campo non può che assicurare un business che non andrà a perdersi. Come sempre vi invito a farvi dare una mano da PING in piazza Foro Boario, sapranno dare voi una mano a svolgere i primi per la vostra impresa ed estendo l’invito ad informarvi nel sito http://www.mpoli.it/default.aspx per raggiungere il contenitore per gli oli esausti più vicino a voi. Pensatela come un modo per spendere di meno nel vostro futuro, più che una scocciatura nel vostro presente.
28 Aprile 2017 | Si può fare
Ricordate l’articolo in cui abbiamo descritto le start up e le invenzioni che vorremmo veder nascere?
Si parlava della possibilità di utilizzare sistemi di realtà aumentata con cui, ad esempio, scrivere messaggi semplicemente pensandoli, o leggerli “in sovra-impressione” rispetto a ciò che vediamo.
Ebbene, ci siamo vicini. Sony sta sviluppando un modello di Smart Contact Lenses: lenti a contatto che non sostituiscono gli occhiali da vista, ma la fotocamera del nostro cellulare. Con esse sarà possibile registrare e riprodurre ciò che vediamo, esattamente come in un video. Le lenti saranno capaci di autoregolare la messa a fuoco, l’esposizione e lo zoom, e potranno essere controllate da un battito di ciglia.
«Sarai presto in grado di registrare e rivivere i momenti più memorabili della tua vita», recita il video pubblicato dalla pagina Facebook Humans of the future.
Effettivamente, la descrizione suona come un tuffo in un film di fantascienza, e questo prodotto, se diventasse d’uso comune, ci porterebbe a vivere in un mondo sempre più simile ad una realtà aumentata. E per certi versi, come ogni cosa nuova, è affascinante.
Ma come si vive in un mondo aumentato? Ne siamo capaci? E soprattutto, ne abbiamo bisogno?
Probabilmente nessuna delle invenzioni che oggi sono scontate sembrava indispensabile quando è nata. Ma un momento “memorabile” è reso tale anche dalla sua unicità e irripetibilità. E, se avere delle foto o dei video sulla memoria dello smartphone ci permette di concretizzare dei ricordi, rappresenta comunque un piccolo frammento dei nostri momenti. E spesso non ci soddisfa del tutto: quante volte avete pensato che la vostra foto non rendesse giustizia al paesaggio che stavate ammirando? C’è il rischio che questo accada anche con delle lenti che riproducono ciò che abbiamo visto come se lo stessimo vivendo di nuovo. Senza considerare il fatto che il nostro sistema nervoso centrale, attraverso meccanismi che non abbiamo ancora compreso appieno, ci presenta a volte, e senza chiederci il permesso, dei déjà-vu: una situazione che spesso sembra poco piacevole.
Inoltre, i nostri ricordi sono costruiti da informazioni sensoriali che arrivano da più canali contemporaneamente: quanto può essere significativo rivivere un tuffo in mare senza avvertire la pelle bagnata, o un incontro con una persona speciale senza il profumo del caffè che abbiamo condiviso?
Ci affascina e ci spaventa, e forse è normale che sia così. D’altronde, mia nonna non ha mai voluto convertirsi alla lavastoviglie.
Ma gli esperimenti proseguono, e probabilmente presto vedremo una realtà aumentata. O potremmo vederla. E quel condizionale fa la differenza: le decisioni spettano agli esseri umani. Che, in ogni caso, da secoli sognano, scrivono, rivivono i momenti speciali, quasi senza poterne fare a meno.
14 Aprile 2017 | Si può fare
Non so cosa ci riserverà il futuro. Con la comparsa di queste intelligenze artificiali che tra breve sostituiranno cassieri e segretarie, la continua automatizzazione dei processi industriali e la ricerca su automi che replicano lavori quotidiani come pizzaioli o camerieri, sembra quasi che ci stiamo pestando i piedi da soli. Anche da ingegnere non riesco a trovarlo affascinante, soprattutto se il fine ultimo di questo avanzamento tecnologico è creare un qualcosa che non porterà ad un miglioramento sociale. Do ragione a chi lo difende e lo fa argomentando la loro tesi attraverso il discorso della sostituzione di lavori pesanti/pericolosi o di arti mancanti, ma rimane il fatto che se si riuscisse a realizzare un robot con le capacità micromotorie di noi esseri umani, moltissimi lavori, dalla sarta allo scaricatore di merci, sarebbero a rischio. A chi mi contesterebbe dicendomi che si formerebbero nuovi lavori che le macchine non potrebbero svolgere sfruttando la nostra creatività, io risponderei facendogli ricordare che la creatività al massimo farebbe mangiare poche famiglie ad ogni nuova attività creativa dato che il lavoro manuale sarebbe sostituito da robot. Un ragionamento molto complesso che non continuo dato che si basa su assunzioni di pura immaginazione. Ciò su cui vorrei focalizzare l’attenzione è, invece, che in un modo o nell’altro si dovrà convivere sempre di più con automi e macchine, per cui bisognerà sapere come affrontare la situazione nel ruolo di direttore di impresa. Con questo spirito, Tim Leberecht, scrittore e fondatore di Leberecht&Partners, Agenzia di consulenza per aiutare le aziende a diventare più umane, anima una conferenza TED talking spiegando come fare a mantenere vive le relazioni con i propri dipendenti in questa era di automatizzazione. Tim spiega che, di fronte al meccanicismo delle produzioni, l’unico modo per mantenerle sono 4 principi che l’azienda deve possedere:
- Fate il superfluo, non pensare che tutto ciò che si possa fare per rallegrare o migliorare la vita dei propri dipendenti sia inutile, esso ci distingue dalle fredde macchine di produzione o intelligenze artificiali.
- Creare intimità, permette di stringere i legami e di unificare i rapporti per collaborare ed avere un obiettivo comune, soprattutto tra dirigenti e personale. Perché le gerarchie creano barriere.
- Siate Brutti e con essere brutti si intende essere veri, non mettere maschere e non abbellite situazioni o luoghi forzatamente per nascondere la verità.
- Siate incompleti, cioè le più belle aziende sono quelle che si avvalgono di una idea, un motto che non sia mai obsoleto e che le spinga a migliorare senza mai raggiungerlo completamente.
Per quanto soggettive penso che siano principi che possiamo trovare in tutte le grandi aziende con la A maiuscola. Pensate alla Ferrero o alla Merlo, dietro ad ogni grande realtà imprenditoriale migliorare la vita dei propri lavoratori offrendo servizi, come mense e asili nidi, sia alla base per renderla longeva e stabile. Quando finii di vederlo mi soffermai a pensare che Ping, pensare in Granda, alla luce di queste idee di umanizzazione, non vuole soltanto dire pensare in grande, ma anche pensare da cuneese ed io sono convinto che non sia necessario esporre queste regole ai miei compaesani dato che in cuor mio sono sicuro che, come me, sono cresciuti con gli stessi miei principi di altruismo e solidarietà. Detto ciò, come dice sempre il mio professore, un ripassino non fa mai male.
Troverete tutto l’intervento alla conferenza di Tim Leberecht sottotitolato in italiano al seguente link:
18 Marzo 2017 | Si può fare
(In foto: La scrittrice, artista e career coach Emilie Wapnick, durante il suo Ted Talk di Aprile 2015)
Da un punto di vista biologico, crescere significa specializzarsi, perdere totipotenza per acquisire funzioni specifiche. Mentre cresciamo, nel nostro cervello la ricchezza delle reti neurali diminuisce, per permettere la stabilizzazione delle connessioni utili alle funzioni che sono proprie della nostra specie, necessarie per adattarci all’ambiente. In altre parole, il nostro cervello sceglie di rinunciare ad alcune delle sue potenzialità e ne seleziona altre.
Nel mondo del lavoro e, prima ancora, in quello dell’istruzione, sembra regnare lo stesso principio: ad uno studente o a un lavoratore si chiede di scegliere un indirizzo, un ambito in cui specializzarsi e di cui diventare un esperto. Questa concezione della formazione è basata di fatto sull’idea che ognuno di noi nasce con un talento, con un “mestiere ideale” e che sia solo questione di trovare il proprio.
Questo è vero per alcuni di noi e ovviamente gli “specialisti” sono necessari in moltissime attività. Ma quanti di voi sentono di non combaciare con questa idea di lavoratore? Quanti sono interessati a molte cose, magari completamente diverse tra loro? Quanti non riescono o non vogliono scegliere una tra le proprie passioni, rinunciando alle altre?
In una conferenza TedX di Aprile 2015 la scrittrice, artista e career coach Emilie Wapnick, nel suo intervento Perché alcuni di noi non hanno un’unica vera vocazione, ha descritto il concetto di Multipotenziali, ovvero «quelli tra noi con diversi interessi, diversi lavori nell’arco di una vita e molte potenzialità che si intersecano. (https://www.ted.com/talks/emilie_wapnick_why_some_of_us_don_t_have_one_true_calling?language=it)
È questo il talento dei multipotenziali: la capacità di maturare diverse passioni e, secondo la Wapnick, fare la differenza quando trovano l’intersezione tra esse. Perché coltivare più interessi porta l’acquisizione di abilità trasversali, trasferibili in diverse attività, e richiede una flessibilità, un’apertura mentale che non sempre è facile mantenere quando ci si specializza.
Ed è proprio nella capacità di trovare imprevedibili punti di intersezione che sta la possibilità di innovazione. Emilie Wapnick cita Sha Hwang e Rachel Binx, fondatrici di Meshu, una società che produce gioielli personalizzati, ispirandosi alla geografia. È nata dai punti di contatto degli interessi di Sha e Rachel: cartografia, matematica, visualizzazione di dati e design. Il punto è riuscire a vedere la compatibilità di tutte queste discipline e farne qualcosa di nuovo.
Un altro esempio di multipotenziali nel mondo del lavoro sono le assunzioni dei laureati in filosofia in ambito aziendale: in un’intervista di Repubblica del 2006, Paolo Citterio (Presidente Associazione Direttori Risorse Umane GIDP/HRDA e Amministratore Unico della Citterio&Partners) ha affermato che, nonostante non abbiano competenze tecniche specifiche, i filosofi «si trovano a loro agio in vari contesti aziendali, per la mentalità da sistema, per l’abitudine a ragionare e per l’abilità a correlare i fatti di un insieme di variabili» e quindi sfruttano, di fatto, la loro “multipotenzialità”, le loro competenze trasversali.
Ovviamente, in questo caso come in molti altri, un “multipotenziale” non può lavorare da solo, ma ha bisogno di essere affiancato a specialisti, che introducano competenze tecniche e la loro esperienza in un determinato ambito.
Immaginate un’equipe di lavoro in cui collaborino “multipotenziali”, con la loro flessibilità e capacità di approcciarsi ad un problema da diversi punti di vista, e specialisti, che mettano a disposizione l’approfondimento delle loro competenze, in cui i primi tracciano un percorso, una soluzione creativa che viene arricchita di contenuti dai secondi.
«Esplorate le vostre intersezioni»: Con questa frase la Wapnick conclude il suo intervento, il cui punto principale è stato il fatto che non c’è nulla di sbagliato nel non trovare un’unica vocazione nella vita e che vale sempre la pena di abbracciare una passione, anche se non ci accompagnerà per sempre. Perché ogni tessera del mosaico è un’opportunità e contribuisce alla formazione della persona che lo sta costruendo. E magari permetterà a questo “multipotenziale” di fare della sua stessa ecletticità un lavoro, nonostante tutte le volte in cui si è sentito dire di dover scegliere. A dimostrazione del fatto che portare innovazione, anche nei professionisti, significa accettare che le cose prendano forme nuove e diverse.